giovedì 31 dicembre 2020

Auguri

 





Auguri a chi mi ama.

A chi lo ha fatto e a chi lo farà.

Auguri a te che sei  vicina e ti sento ovunque ti trovi.

Auguri a chi respira a tempo col mio respiro. Auguri a chi mi segue e a chi mi saluta. Auguri a chi mi ha aiutato senza nemmeno saperlo. Auguri a chi si è fatto aiutare.

Auguri a chi mi ha deluso, a chi si è scelto un'altra strada. A chi ha preferito altri amici. A chi mi ha tradito. Auguri a chi  ha voltato le spalle.

Auguri a chi ho deluso io e a chi ho abbandonato, a chi ho voltato le spalle e a chi ho dimenticato.

Auguri a chi vorrà perdonarmi e a chi saprò perdonare.

Auguri a chi è ancora capace di abbracciare, anche quando è vietato. Auguri a chi vive sui social ed è tutta la vita che ha. Agli spacconi, ai timidi, agli esuberanti e ai depressi, agli speranzosi e ai disperati. Ai fatalisti e ai preparati. Ai cani sciolti e agli integrati.

Auguri a chi sa trovare qualcosa di buono ogni giorno, anche quando all’apparenza tutto va a rotoli. Auguri a chi non si lascia trascinare sul fondo e a chi, dal fondo, sa risalire.

Auguri a chi sa dare una speranza.





venerdì 18 dicembre 2020

Lo scemo del villaggio. Giovani, vecchi e jettatori













Fare lo scemo del villaggio è una cosa seria. 

Impersonare lo scemo del villaggio non è ruolo adatto a tutti. 

Sembrerebbe un incarico semplice, lo potrebbe fare anche uno scemo ma vi assicuro che non è così e in un paese come il nostro, dove si è deciso che si fa a turno, spesso non si capisce a chi tocchi. 

Sono seduto al solito tavolino, della solita piazza, essere in pensione comporta questi vantaggi. A farmi compagnia per l’aperitivo c’è Ferdinando, il nuovo gestore della pompa di benzina sulla provinciale, alla fine delle case. Nando il benzinaio vive e lavora qui da due anni, quindi è considerato ancora nuovo dagli indigeni. Non appena finito l’apprendistato di altri, come minimo tre anni, e sarà considerato uno di noi, potrà ambire alla carica temporanea. Anche se secondo me è troppo intelligente per meritarsela. 

Gigio il barista, dopo il mio cenno, esce a portarci il secondo giro di pizzette stantie. 

La piazza è attraversata da un gruppetto di ragazzini vocianti. In mezzo cammina curvo un vecchio pelato. Nando li vede e si sposta sulla sediola. 

-Guarda quelli, stanno dando fastidio a quell’anziano. Ora mi alzo e vado a dirgliene quattro… 

-Lascia stare, cerco di evitargli la figuraccia, stai seduto. 

-Ma quei ragazzini… 

-Non è come sembra. E gli spiego come invece è. 

Il vecchio pelato che cammina curvo in mezzo quell’accozzaglia di adolescenti è Alzaimer, lo so che non si scrive così la sindrome, cosa credete, ma è così che chiamiamo Armando Picchi, ottant’anni suonati da qualche tempo. Senza l’acca, perché lui non ne ha bisogno, la dimenticherebbe in giro. Lui dimentica tutto, ma proprio tutto, la sua dieta era composta solo da uova sode, tutti giorni uova sode. Sapeva cucinare in perfetto uovo alla coque ma se le dimenticava sul fuoco e non gli restava che mangiarle sode. I giovani del paese se ne prendono cura, lo accompagnano nel suo girovagare e quando si fa tardi, lo riaccompagnano a casa. Pensate che nessuno sa quando sia il suo compleanno, così tutte le settimane, il venerdì a turno gli portano una torta con le candeline e gli fanno la festa di compleanno a sorpresa, tanto lui nel frattempo si è scordato quella della settimana precedente. Alzaimer è contento e vive felice, così, in mezzo ai giovani, che in questo modo non hanno nemmeno più voglia né tempo per andare in giro a fare i vandali. 

Gigio il barista ascolta compiaciuto. Lui stesso ogni tanto fornisce la torta per il compleanno più festeggiato del mondo. 

Nando è commosso, dice: -Starò attento a che non esca dal paese… 

-Tranquillo, gira sempre con la scorta personale! 

Improvvisamente si sente un rumore di vetri infranti che ci fa sobbalzare, sprecando sui pantaloni gocce di prezioso Spritz. 

Si sente una voce che urla: -Scusate, non avevo visto il gatto… 

Il gatto in questione era stato spaventato dall’uomo che gli aveva quasi pestato la coda, era corso come avesse il diavolo alle calcagna dritto fra i piedi di un fattorino che doveva consegnare uno specchio alla vedova Banfanti, quella del primo piano, sopra al bar. Il fattorino era inciampato nell’animale e lo specchio, un oggetto d’antiquariato, pesante e costoso, dopo un doppio tuffo carpiato degno della Cagnotto, si era infranto, come i sogni di molti, sul porfido della piazza. 

-Gigio, portaci qualcosa di forte. Fui costretto a chiedere mentre facevo il segno delle corna dietro la schiena. 

L’uomo che aveva spaventato il gatto era Ettore, straconosciuto da tutti nel paese come lo iettatore. Era peggiore del protagonista di Pirandello, nella novella La patente, tanto che era chiamato Jettore. 

Appena Jettore fu scomparso, rimisi la mano sul tavolino. 

Non sono mai stato superstizioso, lo sanno tutti che esserlo porta sfortuna… ma il gatto era nero e lo specchio rotto… 

E poi con Jettore non è cosa scherzare, cosa credete? 

In tutto quel trambusto, ancora non è chiaro chi diventerà lo scemo del villaggio. Non abbiate paura a farvi avanti, Jettore è andato via. 













martedì 1 dicembre 2020

Lo scemo del villaggio. Il comizio













Oggi il paesino è in subbuglio. 

Pare sia stata organizzata una manifestazione, una marcia di protesta, forse un comizio. 

Non s’è capito bene, qui da noi tutte le informazioni vanno interpretate. 

Gigio il barista, ha raccolto qualche voce tra i clienti non abituali. Tutto quello che è riuscito a sapere, è che passeranno dal centro del paese, quindi dai tavolini del suo bar si godrà la vista dello spettacolo. 

Di recente ho adempiuto il mio dovere di rivestire il ruolo di scemo del villaggio, finito il turno cedo volentieri il posto al prossimo che si farà avanti, in una manifestazione volete che non si trovi un candidato? 

Dai tavolini del bar vedo passare la professoressa di matematica, Carla Rossetti, una donnina di un metro e cinquanta con un gran piglio e la sesta di reggiseno. Non per niente è chiamata Seno e Coseno da generazioni di studenti. Si narra che a inizio carriera, quando insegnava ancora alle elementari, fece la foto di classe sotto una leggera pioggerellina ma i due bambini davanti a lei restarono completamente asciutti. 

Seno e Coseno, anzi la professoressa Rossetti, si sta dirigendo verso il bar, dove viene al mattino a fare colazione. Si siede al tavolino, mi sorride e mi saluta con un cenno, tira fuori il Sudoku che finirà, come sempre, in tre minuti. 

La piazza comincia a essere affollata. Qualche giornalista, gli unici a indossare una cravatta, e molti indigeni. Vedo Braccobaldo ossia Baldo Antoniuzzi, il mio vicino informatico, che non perde mai occasione per fare vita sociale. Passa poco distante l’Agnese, con una voce che potrebbe crepare l’intonaco delle case, speriamo non le diano un megafono. C’è anche il Guido Pestalozzi, ex ragioniere e ora mescitore maledetto in bar malfamati. 



Su un monopattino elettrico, evidente elaborazione casalinga di un giocattolo, ora dotato di batteria e congegni a potenziare l’impianto frenante, arriva in piazza Forchetta, giovanissimo genio del bricolage. 

Seno e Coseno lo vede e, come faceva a scuola terrorizzando le povere vittime d’interrogazioni, alza l’indice e gli indica la sedia vuota di fronte a lei. Forchetta, pur consapevole di non trovarsi in classe, non può fare a meno di ingoiare a fatica la saliva e avvicinarsi a capo chino. 

L’espressione terrorizzata di Forchetta scompare quando la prof. Rossetti tira fuori dall’enorme borsa un tablet che il ragazzo in pochi secondi ha già aperto con la mano ferma di un neurochirurgo. 

Gigio esce a portare un secondo giro, con qualche tartina secca che solo lui si ostina a chiamare “aperitivo”, mi chiede: 

-Com’è la situazione? 

-Ma che ti aspetti, la marcia su Roma? Qui non sanno nemmeno che stanno facendo… 

Intanto qualcuno si aggiunge, saranno a occhio un centinaio di persone. 

Al centro della piazza è posto un piccolo rialzo di legno e posso notare che la mini folla si apre in due, come il mar Rosso, per far passare la personalità che salirà sul palco per arringare la gente. 

Il comiziante toglie la giacca e la cravatta e infila una felpa con una scritta che dal bar non riesco a leggere, gli mettono in mano il megafono ma questo non vuole saperne di funzionare, imbarazzo e smarrimento vibrano nella piazza, i più vicini a noi si girano verso Forchetta, certi che lui potrebbe riparare l’attrezzo ma la professoressa, con sguardo di ghiaccio, inchioda il ragazzo alla sedia. Che se la sbrighino tra loro, è il messaggio telepatico. 

Mi sfugge un sorriso. 

Allora il professionista della cosa pubblica inizia a viva voce un discorso, a memoria, che deve aver recitato in centinaia di piazze, la gente è uguale dappertutto e allora perché cambiare le frasi? Poi il politico è un cavallo di razza, sa cosa la gente vuole avere e lui gliela da, condendo il discorso con sputacchi di saliva, invettive, tono aggressivo/indignato contro i vari governi che stanno facendo né più né meno di quanto abbia già fatto lui con la connivenza del suo partito e degli altri, quando ha avuto l’opportunità di servire il paese. 

Al termine i quattro guardaspalle aprono un poderoso battimano che si fa via via più discreto appena capiscono di non essere stati convincenti sulla folla, che d’improvviso inizia a scemare. 

L’uomo politico scende dal palco scuro in volto, posto difficile, gente dura di comprendonio, starà pensando ma è ugualmente contento di avere presenziato, la statistica gli dice che una buona percentuale di voto la porterà anche chi, senza per forza avere capito qualcosa, è stato presente. 

Si avvicina al bar il signor Felice Beati, giungendo dal centro della piazza e subito ordino un aperitivo che Gigio gli porta, veloce come un Frecciarossa. 

-Allora? Chiedo più per cortesia che per vera curiosità. 

-Mah, a dire il vero non ho sentito cose nuove, un po’ di demagogia condita con spruzzate di populismo… ma la gente sembra contenta così e non ci sono stati problemi, insomma tutto bene! 

-Lei è un inguaribile ottimista. Gli rimando io ma so che ha ragione. 

-Tutto bene, nel senso che non ci sono stati incidenti. Interviene la prof. Rossetti, che prosegue. 

-Quello che cercano politici come questo, è la paura. Dove ce n’è poca la incrementano, dove abbonda la utilizzano come terreno fertile. La gente che ha paura è disposta a seguirti come un cane seguirebbe il profumo di polpette al sugo… io sul tutto bene avrei da dire. 

Detto questo infila nella borsa il tablet riparato da Forchetta, lo ringrazia, ci saluta e s’infila dentro il bar a pagare il conto. 

-Sa cosa le dico, signor Felice? Ha ragione lei, Per fortuna non ci sono stati problemi… 



Qua nel paese c’è da pensare a chi potrà fare lo scemo del villaggio, spazio per la paura ne rimane poco. 

Tutto bene. 

Beviamo il nostro aperitivo mentre la piazza si svuota. 

Peccato. 

Oggi avrebbe potuto vincere uno scemo del villaggio collettivo. 










sabato 21 novembre 2020

Dodici passi











Dodici passi. 

Dodici da sud a nord e dodici da nord a sud. 

Dodici passi circumnavigando il letto. Dodici dalla finestra alla porta d’ingresso. Sempre dodici dalla cassettiera alla scarpiera. 

Inutile ricontare, inutile insistere. 

Questo è tutto quanto io possa camminare. Sempre stando attento a non avvicinarmi né a stazionare troppo nella prossimità dell’ingresso per non contaminare l’aria. 

Sempre che ce la faccia, perché anche  solo camminare con la testa che sembra un pallone è arduo e questa febbre rende faticoso anche fare qualche passo. Mi è stato suggerito di arieggiare di frequente la stanza ed io eseguo ma dopo pochi minuti i brividi e il freddo mi consigliano di chiudere. Durante il giorno provo a uscire sul balcone ma è una cosa che al posto di rincuorarmi, m’intristisce. 

Nella stanza l’aria forse sa di chiuso, forse no, dopo qualche giorno non lo capisco perché tutto sa di alcol. Alla sera abbasso le tapparelle in modo che il vicinato non osservi e non si faccia troppe domande, vedendomi cenare, solo, al tavolino del computer. 

Faccio fatica a scrivere e anche solo dopo poche righe devo interrompere… 



Dieci giorni, per dodici passi sono centoventi passi, troppo poco perché non giri la testa, troppo poco perché possa tornare qualche energia, allora mi rivolgo alla chimica. 

La vertigine è quella di chi non vede il cielo da tempo, di chi si affaccia sul vuoto e tutto comincia a girare sotto ai piedi, dei postumi di una sbornia, che ti spinge da tutti i lati per farti cadere e non è esattamente qualcosa di piacevole. 

E quando la febbre scende, perché la chimica funziona, perché dopo più di dieci giorni deve scendere o finisci per sentire che la tua testa vive dentro un forno a microonde perennemente acceso, quando il sudore diventa freddo, ghiacciato sulla pelle, montano i brutti pensieri; quante cose avrei potuto fare in queste settimane, di quanta libertà si sono dovuti privare i miei cari, sfortunati compagni di sventura, rinchiusi loro malgrado, senza avere commesso nulla. Come migliaia di altri in quest’anno nero. 

Ma la tachipirina, col suo sudore freddo, lava via anche i brutti pensieri. 



Cibarsi come fa un animale, non per il piacere del momento conviviale ma per nutrirsi, sostentare fisico e spirito e superare la malattia. Questo è l’atto quotidiano, dovuto, consumato davanti alla tastiera, compreso nello spazio dei dodici passi. 


E la sera, quando il buio preme alla finestra e all’anima, come in uno scadente film dell’orrore, arrivano i fantasmi. 
Perché arrivano, ci crediate o no, fantasmi di tanti tipi, quelli delle paure più nascoste, quelli dei pensieri incoerenti e irrazionali che stanno assopiti durante il giorno ma con la sera prendono coraggio. I fantasmi delle personali paure, quelle più intime e inconfessabili, la consapevolezza che tutto questo è niente, niente se paragonato a chi sta male sul serio, a chi deve essere ricoverato, a chi per respirare ha bisogno di un tubo in gola, a chi non ce la fa più e a casa non ci torna ma sapere che c’è chi sta peggio non è che faccia stare meglio e i fantasmi sono molto cattivi in questo.


Piuttosto leggere i commenti di chi ironizza, di chi minimizza, di chi incolpa il governo, di chi vorrebbe mostrare conoscenza e cultura e al contrario denuda una profonda ignoranza, quello si che fa stare ancora peggio.

Di giorno viene in aiuto la lettura, non quella impegnata e costruttiva dello studio di cose serie, no. Quel tipo di lettura richiederebbe una febbrile attività cerebrale, una fatica insopportabile. L’unica possibile lettura ora è quella di romanzi d’evasione, che se scritti bene fanno quello che è richiesto loro, appunto evadere dalla stanza, dai dodici passi e scoprirsi per qualche ora liberi. 

Quando poi la testa esce finalmente dal forno a microonde, e i pensieri tornano possibili e razionali è bello vedere che oltre i dodici passi c’è chi ti ama e si prende cura di te, anche se non può entrare nella stanza, anche se non potete cenare assieme, anche se non può sfiorarti la mano e si limita ogni tanto a guardarti dalla porta proprio come il goloso si affaccerebbe alla vetrina delle torte e si accontenta di stare li, a guardare, senza dire niente. 

Ed è altrettanto bello sentire che tante persone, amici, ti chiamano, ti scrivono messaggi, ti chiedono come stai e si sente che queste premure arrivano da molto oltre i dodici passi e ti finiscono dritte nel cuore. 

Alla fine, perché si sa, tutto ciò che comincia, trova sempre la sua fine, succede che la malattia com’è comparsa, sparisce e non resta che pulire la stanza, cambiare l’aria e raccogliere le briciole, facendo attenzione affinché niente sia stato inutile e perché nulla di questi giorni vada perso. 

E raccogliendo le forze e anche, perché no, un po’ di coraggio, ringraziare il cielo per la salute, bene primario, e contare i passi, questa volta senza doversi interrompere a dodici, senza arrestarsi alla barriera imposta durante gli ultimi ventuno giorni e andare verso un tenero abbraccio. 

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici… TREDICI… 














lunedì 16 novembre 2020

Lo scemo del villaggio e l'ufficio relazioni col pubblico











Vedo arrivare da distante, un uomo panciuto e sorridente. Sembra portare il sole con sé. Felice Beati è detto “la felicità negli occhi di chi guarda”. Tenendo fede al proprio nome lui non si arrabbia mai, ama incondizionatamente cose, persone e animali. Nei suoi occhi innamorati della vita si specchiano, e arricchiscono, le persone che incontra, individui i quali, senza sapere perché o percome, si ritrovano la giornata migliorata e iniziano a sorridere senza sapere come mai, a chiunque incontrino a loro volta. 

Non tutti in paese però subiscono lo stesso influsso positivo alla vista del signor Felice. 

Più avanti sta passando l’URP del paese. L’ufficio relazioni col pubblico è costituito da tre, a volte quattro, vecchine, tutte vestite di panno scuro. Si muovono in gruppo come un unico organismo vivente che gira per le strade e si nutre d’informazioni ed è voracissimo, a ogni angolo incontra qualcuno di conosciuto e lo ferma per carpire, con poche chirurgiche domande, le notizie fresche di giornata come si raccoglierebbero le uova appena deposte nella stia. 

Le vecchie dell’URP sono appena uscite dal confessionale, quello vero di don Lurio, dove, a turno, lasciano il loro deposito d’informazioni, quelle già datate, espletamento necessario a tenere liberi i pochi gigabyte disponibili nelle loro vetuste memorie. 

Fatto questo reset, ora sono pronte a immagazzinare le novità della bella giornata, da poco iniziata. 

Cambio velocemente percorso. 

Purtroppo il signor Felice non fa in tempo e viene puntualmente intercettato. 

-Buon giorno Felice. Fanno le arpie nerovestite. 

-Giorno Felice a voi. Risponde l’uomo con un gran sorriso recitando la sua poco originale battuta. Una garanzia dagli anni ottanta… 

-Che ci racconta oggi di nuovo… Le vecchie vanno subito al dunque. 

-Che è una bella giornata per fare una passeggiata in piazza, non credete? 

All’URP queste domande retoriche non piacciono per niente, loro vorrebbero qualcosa di più prosaico, dove stia andando, cosa stia facendo, chi ha incontrato e chi vedrà dopo… non sono fuori a fermare i compaesani per parlare del clima! 

Felice non riesce a smettere di sorridere e commette l’errore di dare loro un appiglio: 

-Ora torno a casa a preparare qualcosa, oggi da me pranzano i ragazzi… 

I ragazzi sono sua nipote Miriana e il fidanzato, un certo Fedele, uno che arriva da un'altra provincia. 

Le vecchie non si fanno scappare l’occasione. 

-Ma è vero che non si sono ancora sposati? Comincia una. 

-Eppure vivono assieme! Aggiunge un'altra. 

-E non sanno di fare peccato? Aggrava la terza. 

Felice non si arrabbia nemmeno e risponde sereno. 

-Vedete, sono giovani e non la pensano come noi… eppure sono due bravi ragazzi, non fanno niente di male e hanno la testa sul collo. 

-Eh, non fanno niente di male, lo dice lei, noi siamo preoccupate, cosa diventerà questo paese se andiamo avanti così… 

Intanto il signor Felice si è già voltato e sollevando il cappello saluta le megere e se ne torna per la sua strada. 

Perché anche a uno sempre col sorriso pronto e sempre gentile, quando si esagera nel rendergli la vita impossibile, magari un po’ di bava alla bocca poi gli viene. 

Ho fatto in tempo a sedere al tavolino del bar della piazza e a ordinare il mio aperitivo. Assumo un’espressione scema che più scema non si può e mentre sorseggio dal mio bicchiere, le tre streghe mi passano davanti e non mi trovano degno di saluto. 

Meno male. 

Meglio passare per lo scemo del villaggio che dover rispondere alle domande inquisitorie di quel trio immondo. 

Quanto a Felice, spero che passi una bella giornata in compagnia della nipote e del suo fidanzato, quello che arriva da un altro paese. 

Alzo il calice e brindo a Felice. E perché no, anche all’Urp del paese! 

Ma prima, togliamoci dalla faccia questa espressione…











venerdì 30 ottobre 2020

Il grande freddo










Siamo tutti seduti attorno a un lungo tavolo rettangolare. 

Sulla tovaglia bianca una distesa di briciole di pane disegna un percorso che, in diagonale, unisce i due vertici. I bicchieri, macchiati di vino, sono tutti vuoti. 

Dopo la crisi, i ristoranti faticano a lavorare e abbiamo avuto la sala tutta per noi. 

Siamo in sette. 

Negli anni le coppie non sono più le stesse, una si è dileguata inseguendo e trovando l’oblio da parte del gruppo. 

Una si è sfasciata e ricomposta, sostituendo un componente, la nostra affascinante amica, dopo il divorzio non ha certo sudato per attrarre un altro uomo. Qualcuna ha supposto che fosse già in panchina, pronto a sostituire il titolare; il commento più malizioso di un altra ha aggiunto che si fosse anche ampiamente riscaldato. 

Uno di noi è rimasto solo e non ha cercato più nessuna, rendendo dispari le nostre serate. 

Le cene si sono rarefatte. Molto. Nell’ultimo anno questa è solo la seconda volta che organizziamo. 

Anche le parole si sono rarefatte, come i capelli sulle tempie di qualcuno di noi e invece di moltiplicarsi come le rughe, sono diventate scarse. 

I discorsi, le domande che prima nascevano dalla curiosità, dall’interesse per le nostre reciproche vite, non sono più così fitti. 

Forse perchè sappiamo tutto l’uno dell’altro, conosciamo i particolari, vediamo le immagini postate sui cellulari, il nuovo gattino della nipotina, la nuova moto acquistata, le capitali visitate, le piste di sci, i tramonti al mare, non c’è istante della vita degli altri che non si sia già visto e commentato e quando alla fine siamo insieme, parlare sembra superfluo. 

Che peccato. 

Partono i soliti discorsi del post prandium, appesantiti dall’arrosto e dai carboidrati, confusi dal vino, cosa ne pensi del nuovo sindaco? tuo figlio ha poi finito il master? avete sentito che chiude il vecchio negozio di dischi? 

Domande fatte così, per cercare il suono di un'altra voce, per non ricadere nel silenzio, perché il silenzio dopo una cena tra amici è qualcosa d’insostenibile, come se fosse un funerale. 



Ancora più insopportabile è che qualcuno cominci a tirare fuori il cellulare. Si potrebbe passare per un gruppo di adolescenti, salvo il fatto che almeno durante la cena quei cosi non si sono visti. Ma hanno continuato a vibrare, trillare, mandare piccoli gong, suoni di nocche sulla porta, ronzii di mini scariche elettriche, dalle tasche e dalle borsette e ora ecco che i proprietari si affrettano a recuperare i messaggi persi. 

Poi l’amico, quello che è dispari e ha già bevuto molto, ordina un'altra bottiglia. 

I compagni sorridono e anche se sanno che il conto salirà, lo incoraggiano, brindiamo con te, gli dicono. 

E lui sostenuto, parte con la sua solita filippica. 

“Secondo voi, quelle persone che si vantano di essere atee e che assicurano che non c’è proprio niente dopo la morte e poi aspettano il nove ottobre per postare i commoventi auguri di buon compleanno a Lennon scrivendo: auguri John, dovunque tu sia… che problemi hanno?” 

Qualcuno sorride, le donne in genere non approvano costui che prima beve troppo e poi parte con i sermoni ma in fondo è un povero diavolo e poi è così solo. 

E lui continua. 

“E quelli che partecipano alle marce di protesta a favore dei commercianti e poi spaccano le vetrine degli esercizi commerciali? Oppure quelli che manifestano a favore dei più disagiati e poi bruciano le auto parcheggiate sulla strada da proprietari disagiati? Quelli che problemi hanno?” 

L’amico vicino è infastidito dallo sproloquio e gli versa il vino nel calice nella speranza che almeno, bevendo, questo taccia un momento. O che magari si strozzi. 

Ma ormai l’uomo è un fiume in piena che esce dall’argine e, dopo aver scolato il bicchiere prosegue. 

“E quei politici che si proclamano fortemente a favore della famiglia tradizionale e poi hanno alle spalle due divorzi e figli con tre partner diversi, quelli che problemi hanno? Me lo sapete spiegare? E quelli che ti chiedono di stringere l’amicizia su un social per leggere i tuoi tweet, ficcare il naso tra le tue foto, commentare i tuoi post, riempire la tua bacheca di cuoricini, cagnolini, gattini e pollici in alto e poi se t’incontrano in mezzo alla strada ti salutano a malapena, che problemi hanno…?” 

Su, su adesso, calmati, non vedi che sei tutto rosso, lo tranquillizza l’amico di fianco, guardando male gli altri, basta bere per stasera. Ora chiediamo il conto e ti accompagniamo noi a casa. 

Scusate, forse ho esagerato, volevo solo scaldare un poco la serata… gli amici si stanno già alzando, le donne indossano i cappotti e qualcuno è andato alla cassa a pagare il conto che poi divideranno. 

Il silenzio è tornato a calare sulla compagnia, come una coltre di fredda nebbia che ormai ha raffreddato i rapporti tra le persone, comprese quelle tra cui è sempre esistito un rapporto amicale. 

Saldati i conti è tutto uno stringere di mani, scambiare pacche sulle spalle e fare commenti galanti verso le signore. 

Prima che il freddo scenda e ammutolisca i presenti, qualcuno riesce a chiedere: allora? Quando ci ritroviamo, gente? 

Tutti sorridono solidali. Tutti concordano. 

Al più presto, amici. 

Al più presto. 








lunedì 26 ottobre 2020

Lo scemo del villaggio. Errori di valutazione

 








Come ho già detto in precedenza, da noi non esiste lo scemo del villaggio. 

Almeno, non ce n’è uno fisso. 

Abbiamo una certa flessibilità nel coprire il ruolo. 

E non lo facciamo a tempo indeterminato, perché non appena qualcuno sale sul podio per avere commesso un’idiozia, arriva qualcun altro a occupargli il posto per averne combinata una ancora più clamorosa. 

Come quando il maestro elementare Filippo Bauli, detto Pippo Baudo perché si presenta in classe in doppiopetto e cravatta e gli incontri genitori-insegnanti con lui sembrano delle presentazioni di Festival canori, portò la classe in gita sul monte Bianco, tutti infilati in spesse tute antigelo e attrezzati di ciaspole e slittini, peccato che fosse primavera e c’erano venticinque gradi. Gli slittini si ostinavano a non scivolare tra le margherite e i bambini tornarono sul bus sudati marci, puzzolenti e piangenti perché per fare un pupazzo di neve avevano trovato soltanto del letame. 

Come quando il ragionier Guido Pestalozzi, gran brava persona, astemio e integerrimo frequentatore di chiese, fu invitato dal vicino all’addio al celibato del figlio e fu fatto bere smodatamente. Il ragioniere che non reggeva nemmeno il vin brûlé, dovette trangugiare una sfilza di shottini di vodka, un paio di pinte di birra scura non fermentata, qualche whiskey singolo malto e alla fine tre o quattro giri di un Calvados pregiato delle colline atlantiche della Francia. Lui che aveva sempre detestato i tatuaggi era stato ingaggiato nella festa da un tatuatore pessimo, privo di scrupoli e di etica del lavoro, che aveva imparato l’arte durante un soggiorno coatto alle spese dello stato, e si era risvegliato con un appariscente e orribile disegno tribale sullo zigomo destro e una serie di scritte oscene dietro il collo che lo costrinsero a girare con la sciarpa anche in piena estate e con gli occhiali da sole pure di sera a costo di picchiare la fronte sui lampioni del vialetto di casa. 

Come quando la vedova Agnolotti Agnese, che millantava un passato da cantante lirica, era stata cacciata dal coro da don Lurio nel bel mezzo della funzione Pasquale, perché era stonata come una campana e i chierici si premevano le mani sulle orecchie e non smettevano di ridere e lei per vendicarsi la domenica successiva aveva versato la colla di pesce nelle acquasantiere e i fedeli erano rimasti con le mani appiccicate nello scambiare il segno di pace… 

Come quando il mio vicino, Antoniuzzi Baldo detto Braccobaldo, che non è cintura nera di simpatia ma si vanta di avere alte conoscenze d’informatica e di essere stato il primo nel paese a utilizzare il computer per fare acquisti on line, pensò di comprare del burro pregiato ma al posto di digitare quattro pezzi aggiunse, chissà perché, quattro zeri e si ritrovò quattromila mattoncini di burro di montagna che dapprima provò a rimandare in dietro e poi vendette a metà prezzo improvvisando un banchetto davanti casa. Che io sappia sta ancora facendo la cura per il colesterolo alto. 



Errori di valutazione. 

Può succedere a tutti, chi non sbaglia mai? 

E poi, come ho detto, fare lo scemo del villaggio è una vocazione ma siamo in tanti ad averla… 



Pippo Baudo, scusate, volevo dire il maestro Bauli, intimoriva i bambini col suo doppiopetto e così fu promosso preside e fu chiuso in un ufficio, dove non poteva fare grossi danni. 

Il Pestalozzi smise di fare il ragioniere e aprì un bar in una periferia urbana, una zona disastrata e degradata, dove fu molto apprezzato e rispettato per i suoi tatuaggi e la sua recente competenza in fatto di alcolici. 

La vedova Agnolotti si fece perdonare da don Lurio e come penitenza usò la colla di pesce rimasta per preparare dodici buonissime cheesecake (fatte anche col burro comprato a metà prezzo) per il goloso sacerdote. A ogni buon conto, per preservare le orecchie dei fedeli, non fu reintegrata nel coro. 

Braccobaldo vendette un migliaio di confezioni di burro, le altre dovette mangiarle oppure regalarle alle associazioni benefiche, ai ristoratori della valle e al vicinato. Si fece molti amici e fonti sicure affermano che ora è diventato vegano e mangia solo insalata scondita. 



Tutti facciamo errori e commettiamo stranezze. 

Siamo sbadati oppure adottiamo comportamenti bizzarri. 

Si fa presto a puntare il dito ma attenti, domani potrebbe capitare a voi. 

In questo periodo non abbiamo nessuno sul podio. 

Non abbiate timore, fatevi avanti… 






domenica 18 ottobre 2020

luoghi insoliti: Facciamola semplice

luoghi insoliti: Facciamola semplice:   -Buon giorno. Vorrei una pianta da regalare ad amici. -Che tipo di pianta? Che tipo di amici? -Non saprei, una con tante foglie. Bella...

Facciamola semplice

 






-Buon giorno. Vorrei una pianta da regalare ad amici.

-Che tipo di pianta? Che tipo di amici?

-Non saprei, una con tante foglie. Bella da guardare… ma poi che c’entrano gli amici?

-Un sempreverde? Una pianta da appartamento? Che faccia fiori? Per laureati? Gente di cultura? Professori di economia? Ingegneri informatici? Bidelli?

Non so cosa rispondere. Se volevo un vegetale da mangiare, sarei andato dal verduriere, vorrei solo una pianta da portare in regalo. Propendo per una risposta diplomatica.

-Mi consigli lei…

Il fioraio è professionale, forse troppo.

-Non è così semplice… Vede, la pianta da regalare va abbinata alla personalità di chi la riceve. Se la pianta è inserita in un ambiente a lei sgradevole o ostile mi patisce e muore… Abbiamo qui una bellissima Paetulantis Complex che deve vivere in case poco rumorose e piuttosto ordinate, alla temperatura costante di ventidue gradi e mezzo, può ricevere acqua demineralizzata solo nelle giornate secche, a tal proposito vendiamo un barometro portatile da legare al tronco, nella misura di quattro gocce l’ora, non si preoccupi al costo della pianta è compreso un comodo contagocce… ma abbiamo anche questo bellissimo esemplare di Nobilae Praesuntuosis che va lucidata minuziosamente, spruzzata con acqua Perrier e le si può rivolgere la parola dandole del lei.

Sono dubbioso.

Il venditore percepisce i miei dubbi e insiste.

-Abbiamo una splendida Personalitae Multiplex, dalle foglie di sedici gradazioni di verde, ha solo bisogno di un’ora di musica classica al giorno per affrontare i cambiamenti d’umore, meglio se suonata con vinile, una fialetta di potassio ogni tre settimane e un cucchiaino di humus mattino e sera. Nei sottovasi c’è anche un comodo libretto d’istruzioni impermeabile…

-Altrimenti?

Il commesso sembra spazientito ma il tono rimane glaciale.

-Altrimenti sullo scaffale ho ancora un esemplare di Demagogis Populae. Deve ricevere la luce di tutte le finestre della casa e va spostata almeno ogni due ore seguendo le direzioni sud-nord e ovest-est, inoltre oltre al nutriente liofilizzato ha bisogno di ascoltare la voce umana che le sussurri morbide parole di apprezzamento perché mantenga la lucidità delle foglie. Saltuariamente ascolta anche il telegiornale ma solo di alcune emittenti selezionate.

-Sono indeciso. Faccio io.

-Lei ha detto che la pianta deve essere scelta in base alle persone che la ricevono e questi esemplari mi sembrano un tantino complicati…

Il commesso non nasconde un’espressione irata.

-Certo che se non voleva una pianta poteva dirlo, nella strada a pochi metri c’è una gelateria, può sempre comprare un chilo di pistacchio e cioccolato e fa la sua bella figura…

-Ma no, non si arrabbi, è che la pianta mi sembrava un’idea carina, e poi i miei amici sono gente semplice.

Comincio a sentirmi a disagio e con amici inadeguati…

Il commesso con voce sprezzante m’indica un vasetto con una pianta grassa un po’ ingiallita.

-Lì è rimasto un Cactus Adiposus Qualunquis. Mezzo bicchiere d’acqua di rubinetto al mese e se lo dimentica. Ha superato test di congelamento mettendolo in freezer accanto al limoncello per mezz’ora e subito dopo in forno a 220° per trenta minuti. Le patate si sono bruciate, il cactus è sopravvissuto. Se le va bene è l’ultima pianta che le consiglio…

Ci penso su, poi decido che i miei amici meritano di meglio.

-Senta, non si offenda, la ringrazio ma penso che andrò a comprare il gelato…

Mi volto e sto già per uscire ma sulla porta mi fermo e rientro.

-Ci ho ripensato. Compro il cactus. Ma non metta fiocchi, è per me!

 

Mi sembra un bel tipo, piuttosto resiliente.

A casa mia farà un figurone!

E si troverà bene accanto al limoncello ghiacciato e alle patate bruciacchiate…

 






sabato 10 ottobre 2020

luoghi insoliti: Le cose da fare

luoghi insoliti: Le cose da fare:   Le cose da fare sono tante. Ci sono liste infinite, compilate con tutte le buone intenzioni. Armadi da sistemare, cantine da vuotare, ...

Le cose da fare

 






Le cose da fare sono tante.

Ci sono liste infinite, compilate con tutte le buone intenzioni.

Armadi da sistemare, cantine da vuotare, diete da cominciare, memorie da riordinare.

Ma ancora tante sono le cose da fare.

Poesie da comporre, capolavori da leggere, materie da studiare.

Ci sono paesi da visitare, ricette da cucinare, persone da chiamare.

Abbiamo la spesa da comprare e la dispensa da riempire.

Abbiamo farina da impastare e sughi da assaggiare.

Vini da degustare e dolci da assaporare.

Regali da scartare e gentilezze da ricambiare.

Ci sono percorsi da sudare e montagne da scalare.

Monumenti da fotografare e sermoni da ascoltare.

Abbiamo passi da camminare e stelle da contare.

Laghi per veleggiare e musei da visitare.

Spiagge su cui dormire e fiori da regalare.

Ci sono film da guardare e palloni da calciare.

Gatti da carezzare e cani con cui giocare.

Parole da pronunciare e abbracci da incatenare.

Sguardi da reggere e promesse da mantenere.

Abbiamo prove da superare e fatiche da sopportare.

Abbiamo teatri in cui recitare e balletti da vorticare.

Ci sono percosse da penare e ferite per cui soffrire.

Abbiamo gioie per cui brindare e ricorrenze da celebrare.

Abbiamo compleanni da festeggiare e sbagli da depennare.

Vittorie per cui cantare e intoppi da aggirare.

Ci sono rospi da ingoiare e applausi che fanno gioire.

Goal per cui esultare e rigori che fanno imprecare.

Attori da ammirare e belve feroci da cui scappare.

Abbiamo nodi da sciogliere e amori da legare.

Buio da temere e mani da cercare.

 

Tante sono le cose da fare.

E abbiamo altrettante scuse per non fare.

 

Armadi e cantine da ignorare.

Diete da rimandare.

Cibi che non cucineremo e vini che non berremo.

Passi che non percorreremo e posti in cui non andremo.

Parole che non diremo e sguardi che non reggeremo.

Persone che dimenticheremo e telefonate che non faremo.

Torti che non perdoneremo.

Compleanni che scorderemo e sbagli che rifaremo.

Promesse che non manterremo e frasi che smentiremo.

 

Tante le cose da fare oppure da non fare.

Tante le cose da segnare.

E noi pronti, a ogni cambio di vento, con la lista da aggiornare .

 

 

 






martedì 6 ottobre 2020

luoghi insoliti: Lo scemo del villaggio. Altri personaggi

luoghi insoliti: Lo scemo del villaggio. Altri personaggi:   Sono in coda alle poste.  Capita che arrivi nella buca delle lettere che so, una bolletta, una multa, qualcosa del genere che mi costringa...

Lo scemo del villaggio. Altri personaggi

 








Sono in coda alle poste. 

Capita che arrivi nella buca delle lettere che so, una bolletta, una multa, qualcosa del genere che mi costringa a uscire da casa per venire qua davanti. 

Ore sottratte allo Spritz con gli amici al bar. 

Certo, qualche persona perbene dirà che in posta ci si va al mattino ma anche all’ora di pranzo, aggiungo io, e poi è sempre tempo per un aperitivo. 

In coda, davanti a me, c’è tutta una fauna variopinta e variegata. Pagherei il biglietto per stare qua a guardarli. 

Mortadella, per esempio, questo bestione davanti a me, per carità non chiamatelo così perché si offende, esce dalla macelleria e vi rincorre in canottiera brandendo una mannaia insanguinata come nei peggiori film splatter. Per la verità lui vive in canottiera, la indossa tutti i giorni e tutte le stagioni, qualcuno insinua che sia sempre la stessa a causa dell’odore rancido, altri sostengono che il fetore provenga dai congelatori dove conserva la carne. E’ un pessimo macellaio, tratta male tutti ma è l’unico nel paese e pesa centotrenta chili. Quindi evviva Mortadella e viva pure la sua canottiera. 

In questo momento sta parlando con don Lurio, il parroco, pure lui in coda, lo sento chiedere qualcosa, il sacerdote vorrebbe organizzare una festa dell’oratorio con mega grigliata e, ovviamente, serata danzante, e cerca di trattare sul prezzo di salsicciotti e luganega e di strappare uno sconto ecclesiastico ma Mortadella ha già subodorato puzza di fregatura e si prepara ad affilare coltelli metaforici. 

D’improvviso si sente il rombo di un trattore cingolato molto pesante oppure di un Panzer tedesco, residuato del millenovecentoquaranta, mi volto e scopro che si tratta solo di un vecchio Garelli mono marcia degli anni settanta con la marmitta bucata e con due ragazzi magrolini stretti sul sellino. Uno dei due è Forchetta. Affiancano la donna prima della fila, si potrebbe pensare a uno scippo ma la donna è la mamma di Forchetta, ancora più magra del figlio. Una volta che una perturbazione, durata una settimana, aveva portato giornate ventose sul paese, Forchetta le aveva riempito le tasche del cappotto di pietre e l’aveva obbligata a indossarlo, anche se c’erano quasi trenta gradi. Il ragazzo parlotta con la madre, la donna prende qualche banconota, gliela allunga e tenta di dare un bacio sulla guancia del ragazzino ma i due sul motorino sono già spariti in una nuvola di scarico più puzzolente della canottiera di Mortadella e più rumorosa di un’Augusta dell’esercito in fase di decollo. 

Dietro la mamma di Forchetta aspetta il suo turno Wilma. Don Lurio l’ha già squadrata con occhio inquisitore e lascivo. Non si capisce se stia pensando a un’assoluzione o ad altre cose più impure. La Wilma indossa una gonna in finta pelle, di moda una generazione fa, una camicia a fiori tre taglie troppo piccola da cui cercano di evadere disperate due mammelle di dimensioni colossali tenute a bada da un reggiseno sportivo probabilmente fatto con la gomma di uno pneumatico. Wilma misura un metro e sessanta ma i tacchi la fanno svettare in altezza su tutti, prima di indossare quelle scarpe deve chiedere il permesso all’aeroporto della Provincia. Sebbene sia in pensione, così si dice, non ha mai rinnegato il suo passato da escort di cui è fiera e che le ha lasciato una discreta rendita. Di fatto, nonostante l’età, fa ancora girare il collo dolorante e artritico di tanti vecchietti e infuriare le mogli del paese come se fosse ancora in servizio attivo. 

Mi accorgo che il tempo passa perché dal campanile in piazza arriva il rintocco delle dodici mentre dentro le poste si deve essere formata una bolla temporale che ha fermato il tempo, tra ventimila anni l’umanità qua fuori potrebbe essere estinta mentre dietro lo sportello l’impiegata sta ancora finendo di inserire i dati di una bolletta del telefono degli anni venti… 

Vedo passare il medico condotto. Don Lurio alza un momento gli occhi dal didietro della Wilma per salutare, buon giorno dottor Di Somma. 

Il dottore risponde con un gesto della mano. Nell’altra tiene la borsa, sempre la stessa da un quarto di secolo. E’ un bravo medico, appassionato, fin troppo. Entra talmente tanto in empatia con i suoi assistiti che ne assume anche le caratteristiche e i sintomi. Quando c’è stata l’epidemia di varicella a scuola ha girato con i puntini fino a estate inoltrata. Quando visita qualcuno con nausea e inappetenza, perde peso mentre se va a vedere i diabetici gli sale la glicemia. Lui lo sa e organizza le visite in modo tale da ottenere l’equilibrio. Pensate che il dottor Di Somma si chiama Tiziano e la gente alle sue spalle lo chiama Dottor Di Somatizziamo. 

In lontananza si sentono gli schioppi della marmitta del Garelli di Forchetta mentre la sua mamma si aggiusta i capelli sulla fronte ossuta. 

Wilma fa un sospiro e per poco non le saltano due bottoni. 

Don Lurio si volta e cerca la redenzione tirando fuori un rosario dalla tasca. 

Mortadella si scaccola e si pulisce le dita sulla canottiera facendomi prendere in seria considerazione il vegetarianismo. 

Il dottore è scomparso, in cammino verso la sua prossima patologia. 



La fila fa un passo in avanti, la bolla temporale deve essere scoppiata oppure hanno aperto un’altra cassa, forse non si farà così tardi, e se non si ritarda del tempo ne rimane. 

A quest’ora c’è sempre qualcuno al bar. 

Ed è sempre tempo di uno Spritz, giusto? 









mercoledì 23 settembre 2020

luoghi insoliti: Sono già stato qui

luoghi insoliti: Sono già stato qui:   Sono a casa, finalmente!  Chiudo la porta sbattendola, lascio cadere lo zaino sul pavimento e lancio il giaccone sul letto.  Il cane mi gu...

Sono già stato qui

 










Sono a casa, finalmente! 

Chiudo la porta sbattendola, lascio cadere lo zaino sul pavimento e lancio il giaccone sul letto. 

Il cane mi guarda senza avvicinarsi, forse riesce a sentire l’odore della follia. 

Così devo apparire, un pazzo scappato dal manicomio, sudo, tremo e mi muovo a scatti. 

Non mi sento bene e corro in cucina a bere un bicchiere d’acqua, sperando di calmarmi ma ne rovescio metà sul pavimento. Billy è scappato a nascondersi sotto il letto, non lo faceva da quando era cucciolo. 

Entro in bagno a lavarmi la faccia, apro il rubinetto e aspetto che l'acqua sia gelida. La sferzata sembra funzionare. Mi osservo allo specchio, mi sembra di vedere un estraneo, un tipo pallido e sudato con gli occhi fuori dalle orbite, uno che non vorrei incontrare all’uscita di un sottopasso buio o in una strada poco frequentata. 

Faccio spavento, così inizio a contare, tenendo gli occhi chiusi e le mani appoggiate al lavandino. Il respiro si fa via via più lento e quando arrivo a cento, mi sento strano quanto prima ma notevolmente più calmo. 

Che cosa è successo da ridurmi in questo stato? Tra poco proverò a spiegare, prima, però devo scendere in cantina a cercare una cosa, è fondamentale che la trovi se voglio preservare un briciolo di sanità mentale. 

Eccomi, missione compiuta, ho trovato ciò che cercavo. 

Sono maniacale in questo, conservo gli oggetti in scatole di cartone con anno e contenuto scritto col pennarello, quindi se cerco un diario scolastico di terza superiore, mi basta individuare la scatola giusta e il gioco è fatto. 

Questo mi sembra tante cose, tutto, tranne che un gioco. 

Forse ora è meglio che vi racconti cosa è successo questo pomeriggio. 



Oggi sono andato a leggere il giornale nel parco. Sono andato in bici, lo faccio da una vita. 

Percorro circa cinque chilometri di viali alberati, scelgo una panca vicino ai tavoli di legno e, se non ha piovuto e questi sono asciutti, dispiego il quotidiano e mi concedo un’ora di silenzio. 

In autunno qui è bellissimo, un’esplosione di colori, le foglie e le piante incendiano il panorama. 

Certo, non è più come una volta, quando ci venivo a correre, una volta i casolari erano abitati e i recinti pieni di cavalli, era tutto un trafficare di persone che potavano gli alberi, un via vai di trattori che trasportavano carri carichi di fieno. 

Qui ci venivo da studente, a far finta di studiare, perché le ragazze della scuola facevano su e giù tra i viali e si poteva provare a rimorchiare o almeno a guardare loro le gambe. 

Sono passati molti anni, ora nel parco sono cambiate tante cose, non ci vive nessuno e tutta l’attività legata a allevamento ed equitazione è scomparsa. 

Ero li, a leggere il giornale rabbrividendo perché la temperatura era scesa all’improvviso, quando sento il rumore di ruote sulla ghiaia, un ragazzino si avvicina e si piazza al tavolo a circa dieci metri da dove sono io. Poggia la bici, il modello Graziella non lo vedevo in giro da un secolo, alla panca, toglie un libro dallo zainetto e si accomoda per leggere o studiare. Non riesco a vederlo bene in faccia, c’è un pioppo sulla linea visiva, ha una corporatura esile, più o meno sembra alto quanto me e nel complesso ha un’aria familiare. 

Mi dico, con un mezzo sorriso, che se avessi avuto un figlio sarebbe potuto essere proprio come quel ragazzo. 

Continuo a leggere il giornale ma sono distratto, attratto senza un perché dall’attività del ragazzino, mi piacerebbe sapere cosa sta studiando, perché non è a scuola, da quanto tempo frequenta il grande parco, cosa si prova a essere così giovani, con una lunga vita davanti, ma so che non sono affari miei e mi guardo bene dal distogliere gli occhi dalle pagine che il vento gira in autonomia senza aspettare che abbia finito l’articolo. 

Ho la sensazione che anche il ragazzo sia distratto dalla mia presenza e che ogni tanto alzi lo sguardo dal libro per spiare i miei movimenti. Mi sento osservato. 

Poi è successa una cosa. 

Un corvo si è venuto a posare sul bordo del tavolo facendomi sobbalzare dallo spavento, d’istinto ho fatto uno scatto in dietro urlando, ho sbattuto la gamba sul legno con dolore e l’ho scacciato col giornale. Nel saltare ho urtato con l’anca il manubrio della bici che si è schiantata a terra con un frastuono di ferraglia e per finire ci stavo cascando sopra. 

Ho sempre avuto la fobia di quei pennuti e l’incidente mi ha raggelato il sangue. 

Mentre tiravo su la bicicletta, ho sentito il suono distante di una leggera risata e mi sono vergognato. 

Il ragazzo, forse appagato dallo spettacolo e perché in quel posto non era riuscito a trovare la pace adatta a leggere il suo libro, ha inforcato la sua Graziella e pedalando come un forsennato si è allontanato veloce come un razzo. 

Io, che almeno quarant’anni prima, avevo avuto una Graziella blu, uguale a quella, ho deciso che appena fosse passato il tremore alle gambe, sarei tornato a casa, a cercare una cosa in cantina. 

Il corvo mi aveva fatto una gran paura ma il tremore era qualcosa di peggio, lo sgomento di aver perso la ragione. 



Il diario di terza superiore. 

Certo che scrivevo male, quasi non comprendo alcune parole. 

Ma l’abitudine di annotare frasi e pensieri era già radicata. 

Il piacere di scrivere, di appuntare ricordi e sensazioni l’ho sempre avuta e usavo il diario poco per le cose di scuola e molto di più per la scrittura creativa. 

Il ricordo mi doleva nella mente come sale su una ferita e quando lo trovai, nero su bianco, sulle pagine del diario scolastico, per la seconda volta quel giorno le gambe non ressero. 

Sulla pagina del ventitré settembre, anno scolastico millenovecentottantadue/ottantatré avevo scritto: 

“Oggi niente scuola, sciopero insegnanti! FIGO!!! Sono andato al parco per leggere un po’ e stare al sole ma d’improvviso ha fatto un gran freddo. Poi sentite questa, c’era un tipo anziano seduto a un tavolo poco lontano ed è stato AGGREDITO da un corvo, ha lanciato un urletto stridulo e per poco non si ammazza da solo cadendo sulla sua bici. Morire dal RIDERE… Sono dovuto andare via perché non volevo ridergli in faccia e poi quel tipo aveva qualcosa di INQUIETANTE, come se da un momento all’altro volesse dirmi qualcosa, meglio pedalare e raggiungere i compagni al biliardo!”. 

Sotto: “Micaela 0109366521” 



Io e la mia mania di non buttare via niente. 

Di andare al parco, di pedalare, di scrivere. 

Basta! Meglio non scrivere più, meglio dimenticare. Come avevo dimenticato Micaela, come avevo scordato il corvo… 

Forse è meglio bere un tè e prenotare una visita dal dottore, ma cosa posso raccontargli? Penserà che abbia le allucinazioni nel migliore dei casi o che mi stia venendo l’Alzheimer… 

Il freddo ora si è attenuato ma il tremore è rimasto, lo sento dentro, parte dalla pancia, scende alle gambe per poi tornare su. Sfoglio il vecchio diario consumato, nella mano, con le firme degli amici e gli scarabocchi e i disegni osceni che ci lasciavamo a vicenda per scherzo. Mi strappano un sorriso ma dentro non rido. 

Sono atterrito. 

Oggi, dopotutto, quando ho pedalato nel parco e ho poggiato la bici alla panca, lo avevo pensato: 

Sono già stato qui tante altre volte. Già. 

Sono già stato qui.