giovedì 27 febbraio 2020

modus operandi al tempo del contagio







Il pessimista: moriremo tutti!

Il depresso: non va niente bene…

L'ottimista: per due linee di febbre…fra una settimana starai benissimo!

Il pratico: mai vista la tangenziale così vuota!

L'ipocondriaco: ho i brividi, guarda che occhiaie, non mi vedi pallido? Avrò preso qualcosa…

Lo sciacallo: un flacone di amuchina? Per lei solo duecento euro!

Il superficiale: cosa vuoi che sia un po' d'influenza…

Il complottista: sono i poteri occulti ad alterare i virus nei loro laboratori segreti!

L'alcolista: l'alcool uccide i germi…

Il fatalista: non ho paura, sarà quel che sarà…

L'egocentrico: e ora come faccio? Io ho da fare, Io ho delle responsabilità, Io... Io... Io…

Il tipo social: devo postare la foto con la nuova mascherina!

Lo scientifico: fammi consultare un momento le banche dati…

L'incoerente: Non ho parole! Ripeto, non ho parole! Ma la gente bla bla bla… perché non vedete che bla bla… non posso credere che bla bla bla…

Lo xenofobo: è colpa dei cinesi!

Il misantropo: quattordici giorni in isolamento? Non chiedo di meglio!

Lo scansafatiche: quattordici giorni sul divano? Non chiedo di meglio!

L'allocco: ma davvero una scopa può stare in piedi da sola?

Il cinefilo: una settimana di cinema chiusi…

Il bibliofilo: una settimana di biblioteche chiuse…

Il fedele: una settimana senza messe…

L’insegnante: una settimana senza i bambini…

L’operatore sanitario: io non ho paura… io non ho paura…

Il confuso: è un mese che prendo l’aspirina per prevenire!



Il virus: mi piace vincere facile...











giovedì 20 febbraio 2020

luoghi insoliti: ricordi...

luoghi insoliti: ricordi...: Domani saranno diciassette anni. Diciassette. Il tempo perché un neonato diventi uomo. Tempo sufficiente a dimenticare tante...

ricordi...










Domani saranno diciassette anni.

Diciassette.

Il tempo perché un neonato diventi uomo. Tempo sufficiente a dimenticare tante cose. Tempo per stringere forte i ricordi importanti.

Ci hai lasciato, come succede in tutte le famiglie, un vuoto doloroso ma a riempirlo le cose che hai fatto, quello che hai mostrato e ciò che sei stato.

Mi hai insegnato molto, non dico tutto per rispetto verso altre persone che ho avuto la fortuna di incontrare. Mi hai trasmesso alcune virtù, dei vizi voglio rivendicare la paternità, e la forza per andare avanti.

Per continuare a vivere, lavorare, amare.

Per continuare a sorridere anche senza di te ma come se ci fossi.

Per continuare a sorridere alla vita.

Proprio come facevi tu.



sabato 15 febbraio 2020

luoghi insoliti: Dalla terra alla luna

luoghi insoliti: Dalla terra alla luna: Gianna posò il vecchio quaderno e, commossa, prese la scatola dei fazzoletti.  Soffiò il naso con gran rumore di t...

Dalla terra alla luna











Gianna posò il vecchio quaderno e, commossa, prese la scatola dei fazzoletti. 

Soffiò il naso con gran rumore di trombone, mentre pensava, sto diventando una vecchia piagnona. Prese subito un altro fazzoletto di carta e si sedette sulla poltrona di fronte alla tivvù. 

Riaprì il vecchio quaderno e rilesse il nome sul tema. 

Franco Guido Parretti. 

L’anziana maestra ricordava la maggior parte dei suoi alunni, sebbene in pensione da oltre vent’anni, e alcuni li ricordasse meglio a causa di particolari meriti o per la precoce personalità che mostravano e che li rendeva più vivaci, originali e luminosi della gran parte dei bambini della scuola. Stelle abbaglianti e ardenti nel firmamento scolastico rispetto ad altri più simili a piccole, veloci meteore. 

Franco Guido era uno di questi. 

Lo speciale del tg sarebbe andato in onda tra pochi minuti, dopo la pubblicità. 

Gianna pensò che avesse il tempo per rileggere quel tema che aveva ritrovato sepolto dalla polvere tra centinaia di quaderni salvati dal macero e conservati senza un particolare motivo. 

Mise gli occhiali e aprì il quaderno. 



“La mia è una vecchia casa, col muro davanti un po’ scrostato e con dietro i campi di granturco. 

Se guardo oltre il campo, lontano duecento metri c’è la cascina dei vicini, con la grande stalla. Loro sono ricchi, dice il mio papà, perché hanno duecento mucche da latte. Ma se guardo verso il cielo, certe sere senza una nuvola, vedo la Via Lattea e osservo anche la luna che, anche se sembra più piccola di una moneta da dieci lire, deve essere grandissima, molto più grande della stalla dei vicini. 

Deve essere grande, perché dieci anni fa, una navicella con due uomini si è posata sulla sua faccia bianca e lei ha sopportato tutto il peso senza spostarsi di una virgola. Di questa cosa non so molto, quello che so l’ho letto su un libro preso in biblioteca. Spero che a Natale i miei mi regalino una copia di questo libro. 

Tornando alla luna, so che è un satellite e che gira attorno a noi, per questo a volte si vede e a volte no, mentre quando se ne vede solo metà, oppure un quarto è perché la terra la mette in ombra, passando davanti al sole. Sul libro c’è anche scritto che influenza alcune cose terrestri, come la semina della frutta e le maree ma non ho ben capito come. Ma i miei genitori devono saperle perché mio papà per la semina guarda sempre come si vede la luna sul calendario e la mia mamma lo fa anche per una cosa semplice come tagliarmi i capelli…”. 

Una lacrima scese sulla guancia e Gianna la tolse con il tovagliolino, smettendo per un momento di leggere. 

Quel tema l’aveva colpita da subito e non lo aveva più dimenticato. Poi, poiché il programma tardava a iniziare, riprese la sua lettura. 

“Ho fatto delle ricerche in biblioteca e, con l’aiuto della signorina Paola, la bibliotecaria, ho scoperto che il posto da dove partono le navicelle si chiama Capo Kennedy, come il presidente americano che è stato ucciso, e si trova vicino a Orlando, una città americana che si chiama con un nome italiano, nello stato della Florida. La signorina Paola mi ha anche detto che da Milano partono degli aerei per la città di New York e che da lì altri aerei decollano verso Orlando. Ho pensato di mettere da parte dei risparmi, perché mi piacerebbe tanto andare a Capo Kennedy a vedere la navicella che arriva fin sulla luna e, chissà, una volta li potrebbero anche farmi salire a bordo. 

Certo, sono solo un bambino e chissà quanti bambini americani vorrebbero salirci prima di me. Intanto, guardo la luna dal campo di granturco e sogno un giorno di poterci arrivare.”. 


Gianna chiuse il quaderno e lo posò sulle gambe. 

Lo speciale del tg iniziò, Gianna si asciugò gli occhi e inforcò gli occhiali. 

Il giornalista introdusse il difficile collegamento con la Stazione Spaziale Europea, orbitante a oltre quattrocento chilometri dalla superficie terrestre. 

Gianna non riuscì a trattenere l’emozione. Fu aperto il collegamento video-audio e il giornalista salutò calorosamente i membri dell’equipaggio, tra tutti il connazionale tenente colonnello Parretti. 

Gianna lo vide galleggiare nella sua tuta blu ricoperta di stemmi e mostrine, con la faccia felice e sognante di un bambino che non ha mai perso la fede nel suo progetto. 

Orgoglio e gratitudine inondarono gli occhi di nuove lacrime e lei si sentì in pace. 

Felice per tutti i bambini cui insegnò qualcosa, consolata per tutti quelli che si arresero davanti alle difficoltà, raggiante di gioia per quelli che le superarono. 

Appagata per i bambini che seppero coltivare un sogno. 

Per Franco Guido e per tutte le generazioni di bambini che tirò su, facendo in modo che dessero ascolto ai loro sogni. 

Per quanto improbabili, per quanto impossibili.












venerdì 7 febbraio 2020

luoghi insoliti: Sus scrofa

luoghi insoliti: Sus scrofa: A Enrico piace camminare.  Anche pedalare non gli dispiace. Ciò che ama è stare all’aria aperta.  Anche quando, ...

Sus scrofa









A Enrico piace camminare. 

Anche pedalare non gli dispiace. Ciò che ama è stare all’aria aperta. 

Anche quando, come ora, l’inverno non è ancora finito e l’aria fredda gli punge le mani e gli screpola la pelle. 

Ha pedalato per una decina di chilometri ed è arrivato alla radura in fondo al percorso, al centro della quale si erge un villino abbandonato e diroccato. L’edificio, in stile barocco, è abbastanza rovinato perché sia vietato l’accesso alle persone e abbastanza bello perché sia un ottimo soggetto per le foto, quando la luce del sole scende e si fa obliqua e dorata. 

Come il solito non c’è nessuno, Enrico ama quel posto anche per questo motivo. Si accomoda sulla panca di legno per riposare e godersi il silenzio. L’inverno è una bella stagione, la tenuta è poco frequentata e non ci sono insetti a molestare la pace del luogo. I raggi del sole scaldano la pelle, Enrico chiude gli occhi e si rilassa. 

Alle spalle gli tengono compagnia i suoni del bosco, cinguettii, schiocchi di rami secchi, fruscii vari. Enrico c’è abituato, visita abitualmente quell’angolo di natura. 

Il rumore che sente lo allarma come uno squillo improvviso nel cuore della notte. Tonfi di passi pesanti e un grufolare profondo e minaccioso. 

Enrico non fa in tempo a voltarsi e a focalizzare la scena, quando un’enorme massa scura colpisce la panca di legno spostandola di un metro e facendo finire il ragazzo con le ginocchia a terra. Enrico si porta le mani al viso e si accorge di aver perso gli occhiali. Anche se non può mettere a fuoco ciò che vede, capisce che non è il caso di soffermarsi a studiare etologia ma è il momento di rimettersi in piedi e scappare. 

I versi si fanno più acuti e minacciosi, quasi uno strillo femminile, il grosso cinghiale che ha caricato la panchina si è rimesso in piedi e sta per ripetere l’attacco. 

Enrico si mette in piedi a fatica, vede di fronte alla panchina, il cancello che chiude l’uscita verso un viale esterno. Se fosse stato aperto… pensa per un attimo, poi i versi dell’animale infuriato gli mettono le ali ai piedi e con due balzi si arrampica sulle sbarre mezze arrugginite del cancello. Scivolando con i piedi sull’inferriata sfiora con le suole la folta pelliccia della scrofa e ne prova repulsione. 

Le dita sono strette alle fredde sbarre, scivolano verso il basso perché ha sanguinato dai palmi delle mani e la cancellata è scivolosa. Scalcia un paio di volte a vuoto e mentre inizia a piangere, si appoggia col piede sinistro su qualcosa di solido. Raccoglie un po’ di coraggio e guarda in basso, si tratta della serratura su cui ora, facendo perno con la gamba sinistra, è riuscito a spingersi verso l’alto, dove il grosso cinghiale non può arrivare. 

Prova a placare il terrore, a calmarsi respirando a lungo e a fondo e piano piano la cosa funziona. 

Il cinghiale sembra più tranquillo, annusa qualcosa al suolo, prova a dare un morso poi, capendo che non si tratta di niente di commestibile, lo inonda con un getto di urina odorosa. 

Enrico non ha gli occhiali, ma teme di aver capito di cosa si tratta. 

Ora, col piede poggiato sulla serratura, abbracciato al montante centrale, si arrischia a liberare la mano destra, che porta veloce alla tasca del pantalone e, trovandola vuota, il suo sospetto diventa realtà. Quello sulla ghiaia è il suo cellulare, non ci sono dubbi. 

L’animale che aveva dato una gran testata al cancello, ora si è calmato, annusa in giro ma non sembra avere nessuna voglia di tornarsene da dove è venuto. 

Enrico è terrorizzato, sa che non potrà stare all’infinito col peso su una gamba e sente il principio di un crampo a peggiorare le cose ma sa che non lascerà il salvifico abbraccio con quel provvidenziale cancello per niente al mondo. 

Non voglio morire, piagnucola e trema scosso dal freddo e dalla paura, percepisce in lontananza un calore alla coscia ma non capisce nemmeno di essersi pisciato addosso. L’animale sotto di lui fa qualche grugnito e lui chiude gli occhi per non vedere la disperazione della situazione in cui è finito. 




Non voglio morire, pensa, mentre lacrime scivolano sulle guance.

La presa sulle sbarre metalliche è sempre più dolorosa.

Non voglio morire, implora, mentre urina inzuppa l’interno dei jeans.

La vista gli si annebbia e inizia a sbattere i denti e a tremare.

Non voglio morire, sussurra con un filo di voce, mentre il cinghiale che ha perso interesse per l’essere umano sposta i suoi duecento chili e in silenzio rientra nel bosco.



Enrico stringe gli occhi per non vedere, contrae allo spasimo i muscoli per smettere di tremare, s’immerge nel nero dei suoi pensieri per fuggire da quella crudele realtà.

Così facendo non si accorge.

Non si accorge che l’animale ha cessato il suo assedio.

Che in fondo al vialone tre tizi si stanno avvicinando in bici.

Che i tre l’hanno visto e stanno dirigendo verso di lui.

Enrico apre gli occhi quando sente il rumore delle ruote sulla ghiaia e voci umane che ridono sguaiate.

-Che ci fai arrampicato lassù, tipo? Urla il primo.

-Stava tentando di evadere! Risponde il secondo.

-Scendi deficiente. Lo apostrofa il terzo.

Enrico si accorge di due cose, l’animale selvatico che l’ha immerso nel panico non c’è più ma al suo posto ci sono tre tipi che non hanno un aspetto rassicurante, anzi sembrano in qualche modo più selvatici del cinghiale stesso.

Si stacca dall'inferriata e cerca di saltare giù con disinvoltura ma la gamba sinistra, già sofferente per il crampo, lo tradisce e cede facendolo rotolare a terra. Cerca e trova gli occhiali graffiati, ma prima prova ad asciugarsi le lacrime col solo risultato di sporcarsi la faccia di sangue.

-Questo sembra mezzo matto, inizia uno dei tre, lasciamolo andare…

-Prima voglio capire cosa ci faceva aggrappato al cancello, poi lo lasciamo stare. Risponde perentorio il tizio più alto e mentre lo dice, si fa avanti.

Enrico, ancora sotto shock, cerca di parlare la inizia un balbettio incoerente misto a singhiozzi e senza capire ciò che sta per fare si lancia in avanti e cerca riparo abbracciando quel giovane che l’ha salvato.

Il tipo reagisce molto male.

-Che cazzo fai? Non vedi che mi hai imbrattato il piumino? Ma che, sei frocio? Urla spingendolo lontano.

Il secondo ragazzo gli indica i pantaloni, divertito e schifato assieme.

-Guardate! Se l’è fatta addosso! E gli assesta una nuova spinta, mandandolo di nuovo tra le braccia del tizio alto.

-Ma allora è vero, sei proprio frocio! E gli allunga un gancio, assestato da professionista, che colpisce Enrico in piena faccia e gli spezza un incisivo.

Enrico è confuso, un migliaio di aghi gli infuocano la faccia, pensa: speriamo che sia il dente cariato, così risparmio sull’estrazione, e questo pensiero gli fa scappare un sorriso isterico.

-Capo, questo ride, ci sta prendendo per il culo. Diamogli una lezione.

Appena finita la poco edificante frase, il teppista fa partire un gran calcio, si nota che è allenato, ed Enrico torna nella ghiaia ferendosi nuovamente mani e ginocchi.

-Razza di frocio, ti cancello quel sorriso sulla bocca da fighetta.

I calci arrivano da tre lati diversi.

Lo colpiscono sulle spalle, sul sedere, sulle costole, sembrano non finire mai. I tipi non parlano, riservano tutto il loro fiato per pestare, fare male, provocare danno. Sono forti, giovani, possono andare avanti molto molto tempo.



Enrico non piange più, non ha aria nei polmoni per farlo, sputa sangue e saliva, assorbe i colpi stringendo gli occhi come prima li aveva stretti per non vedere la bestia.

Ripensa al cinghiale, quanto sarebbe contento se tornasse ora, sul sentiero, di sicuro farebbe scappare i tre picchiatori da codardi quali sono. Di sicuro si fermerebbe lì a fissarlo con i suoi occhi piccoli e neri.

Enrico sarebbe contento di quello sguardo animale. Di certo non ci troverebbe odio, non leggerebbe rabbia e rancore.

Solo un antico istinto animale di sopravvivenza.

Il cinghiale, ora che ha visto lo sguardo delle vere bestie, non gli farebbe più così tanta paura.

















































sabato 1 febbraio 2020

luoghi insoliti: Coro di voci

luoghi insoliti: Coro di voci: Dalla cucina al pian terreno giunge un borbottio, abbastanza forte da essere udito fin da quaggiù. -Sono anni ormai che mi ritrovo...

Coro di voci











Dalla cucina al pian terreno giunge un borbottio, abbastanza forte da essere udito fin da quaggiù.

-Sono anni ormai che mi ritrovo a spentolare la stessa minestra, senza che succeda niente.

La voce è di una donna rancorosa e inacidita dall'attesa.

Mi arriva inaspettata e anche se è solo poco più di un sussurro, mi coglie impreparato.

Come un fantasma apparso dal nulla una seconda voce, questa volta più squillante, arriva dalle finestre della dirimpettaia, una certa Norma, no, Irma, Irma Pagani, così mi pare che si chiami, non me ne ricordo nemmeno più, ma a quanto pare lei si ricorda bene di me.

-Comodo fare lo scrittore della domenica, ma una volta che siamo in gioco, ci lascia al nostro destino, relegati nelle nostre stanze, ad aspettare che cosa? L’ispirazione, forse?

-Si, l’ispirazione… allora stiamo freschi. Questo non ha nessuna intenzione di mettersi al lavoro. Ha sempre una scusa, la verità è che noi non siamo tra le sue priorità.

Questo lo riconosco, è il tassista, quello del primo piano. Non posso lamentarmi se appare così violento, e nemmeno mi sorprende il tono aggressivo della sua voce, sono stato io a deciderlo.

La Pagani dal piano di sotto si sporge per guardare su e incalza:

-Quello non solo non ha l’ispirazione, non ha nemmeno voglia di riprendere in mano le nostre vite e di dare un seguito. Non siamo nessuno per lui…



Sono allibito.

Di più, sono sconcertato e spaventato. Mai più avrei potuto immaginare di meritare questo, mai più mi sarei aspettato tale insurrezione da persone, ma che dico, personaggi che non avevano parlato da anni.

Dal cortile dietro al condominio giungono suoni di calci a un pallone e schiamazzi di bambini. Loro almeno sanno come passare il tempo, sanno come divertirsi giocando una partita che dura almeno da cinque sei anni e che se dipendesse da me potrebbe durare per sempre.

-Ma non è colpa mia, ho un lavoro, una famiglia reale della quale occuparmi…

Il mio tentativo vano di discolparmi li fa infuriare.

-Anche io sono vera, anch'io ho diritto ad avere una vita! Vorrei poter muovermi, parlare, amare qualcuno, avere opportunità, vivere fallimenti, piangere e ridere… anch'io…

Lei non l’avevo dimenticata, Roberta Corino, la giovane moglie del tassista.

Bella di una bellezza ultraterrena, una meraviglia in mano a un rozzo ignorante. L’avevo messa in una posizione scomoda e lì l’avevo lasciata senza nessuna possibilità di riscatto.

Quanto mi sono sentito in colpa per quella ragazza, per quanto fosse anche lei solo un personaggio.

-Potrò anche essere solo un personaggio per te, ma non mi puoi lasciare in questo limbo, senza darmi una speranza, anche i personaggi hanno diritto a sperare.

Sono affranto, mi sento come deve sentirsi un pugile alle corde e non ho la minima idea di come uscirne.

Rimettermi a scrivere, rispolverando il vecchio file chissà da quale cartella, non è nei miei piani e so benissimo che, essendo nella mia testa, tutti loro l’hanno saputo non appena il pensiero è stato formato.

Potrei distrarmi, fare altre cose, dedicarmi ad altri progetti ma le voci di questa gente, cavolo, le loro voci, sono una cosa che non posso evitare di sentire.

-Cough, cough

La tosse è inconfondibile.

Questo è Pino, Pino La Terra. Il portinaio di sessantasei anni, il marito di Maria Buonocore detta sora Schiffer… non pensavo a lui da anni.

-La verità, esordisce la voce arrochita da mille grappini e mille sigari toscani, seppure virtuali, la verità è che non siamo che burattini. Lui muove i fili e noi camminiamo, lui batte sui tasti e noi parliamo, lui decide e noi moriamo… cosa dovrei dire io, che mi ha lasciato lì, con un dolore al petto e un sogno allucinato e da anni sento la sirena dell’ambulanza senza poter sapere se riuscirò a cavarmela o se dovrò morire e uscire dalla scena. Preferirei mille volte questa soluzione, che si sappia, una bella uscita onorevole, magari sporcando di sangue e vomito tutto il pronto soccorso dell’ospedale, che rimanere così, in bilico sul ciglio di un capitolo che non sarà mai completato!



Queste ultime parole mi hanno ferito.

Mi hanno scavato un buco nel cuore e ora capisco di avere una responsabilità, non posso lasciare quella gente nel limbo, chiusi dentro la loro prigione costituita da una cinquantina di pagine times new roman carattere dodici, spazi compresi, ho il dovere di dare loro delle risposte, di farli vivere o morire ma di terminare in qualche modo le loro esistenze.

Appena giunto a tale considerazione le voci si placano, piano piano il silenzio copre anche i rumori di fondo della partita di calcio e degli schiamazzi dei bambini nel cortile.

Il piccolo Giordano Tucci. Marco Rossi e la sua fame incontrollabile. I gemelli Carli. Jacopo Vatta, il figlio del dentista.

Non ho bisogno di rileggere, sono tutti li, che mi guardano in silenzio, che aspettano.

Forse meritano di più, meritano qualcuno che dia loro una vita.

Devo decidere. Devo trovare il tempo.



So in quale cartella è salvato il file word.

Devo mettere mano alla tastiera.