sabato 21 novembre 2020

Dodici passi











Dodici passi. 

Dodici da sud a nord e dodici da nord a sud. 

Dodici passi circumnavigando il letto. Dodici dalla finestra alla porta d’ingresso. Sempre dodici dalla cassettiera alla scarpiera. 

Inutile ricontare, inutile insistere. 

Questo è tutto quanto io possa camminare. Sempre stando attento a non avvicinarmi né a stazionare troppo nella prossimità dell’ingresso per non contaminare l’aria. 

Sempre che ce la faccia, perché anche  solo camminare con la testa che sembra un pallone è arduo e questa febbre rende faticoso anche fare qualche passo. Mi è stato suggerito di arieggiare di frequente la stanza ed io eseguo ma dopo pochi minuti i brividi e il freddo mi consigliano di chiudere. Durante il giorno provo a uscire sul balcone ma è una cosa che al posto di rincuorarmi, m’intristisce. 

Nella stanza l’aria forse sa di chiuso, forse no, dopo qualche giorno non lo capisco perché tutto sa di alcol. Alla sera abbasso le tapparelle in modo che il vicinato non osservi e non si faccia troppe domande, vedendomi cenare, solo, al tavolino del computer. 

Faccio fatica a scrivere e anche solo dopo poche righe devo interrompere… 



Dieci giorni, per dodici passi sono centoventi passi, troppo poco perché non giri la testa, troppo poco perché possa tornare qualche energia, allora mi rivolgo alla chimica. 

La vertigine è quella di chi non vede il cielo da tempo, di chi si affaccia sul vuoto e tutto comincia a girare sotto ai piedi, dei postumi di una sbornia, che ti spinge da tutti i lati per farti cadere e non è esattamente qualcosa di piacevole. 

E quando la febbre scende, perché la chimica funziona, perché dopo più di dieci giorni deve scendere o finisci per sentire che la tua testa vive dentro un forno a microonde perennemente acceso, quando il sudore diventa freddo, ghiacciato sulla pelle, montano i brutti pensieri; quante cose avrei potuto fare in queste settimane, di quanta libertà si sono dovuti privare i miei cari, sfortunati compagni di sventura, rinchiusi loro malgrado, senza avere commesso nulla. Come migliaia di altri in quest’anno nero. 

Ma la tachipirina, col suo sudore freddo, lava via anche i brutti pensieri. 



Cibarsi come fa un animale, non per il piacere del momento conviviale ma per nutrirsi, sostentare fisico e spirito e superare la malattia. Questo è l’atto quotidiano, dovuto, consumato davanti alla tastiera, compreso nello spazio dei dodici passi. 


E la sera, quando il buio preme alla finestra e all’anima, come in uno scadente film dell’orrore, arrivano i fantasmi. 
Perché arrivano, ci crediate o no, fantasmi di tanti tipi, quelli delle paure più nascoste, quelli dei pensieri incoerenti e irrazionali che stanno assopiti durante il giorno ma con la sera prendono coraggio. I fantasmi delle personali paure, quelle più intime e inconfessabili, la consapevolezza che tutto questo è niente, niente se paragonato a chi sta male sul serio, a chi deve essere ricoverato, a chi per respirare ha bisogno di un tubo in gola, a chi non ce la fa più e a casa non ci torna ma sapere che c’è chi sta peggio non è che faccia stare meglio e i fantasmi sono molto cattivi in questo.


Piuttosto leggere i commenti di chi ironizza, di chi minimizza, di chi incolpa il governo, di chi vorrebbe mostrare conoscenza e cultura e al contrario denuda una profonda ignoranza, quello si che fa stare ancora peggio.

Di giorno viene in aiuto la lettura, non quella impegnata e costruttiva dello studio di cose serie, no. Quel tipo di lettura richiederebbe una febbrile attività cerebrale, una fatica insopportabile. L’unica possibile lettura ora è quella di romanzi d’evasione, che se scritti bene fanno quello che è richiesto loro, appunto evadere dalla stanza, dai dodici passi e scoprirsi per qualche ora liberi. 

Quando poi la testa esce finalmente dal forno a microonde, e i pensieri tornano possibili e razionali è bello vedere che oltre i dodici passi c’è chi ti ama e si prende cura di te, anche se non può entrare nella stanza, anche se non potete cenare assieme, anche se non può sfiorarti la mano e si limita ogni tanto a guardarti dalla porta proprio come il goloso si affaccerebbe alla vetrina delle torte e si accontenta di stare li, a guardare, senza dire niente. 

Ed è altrettanto bello sentire che tante persone, amici, ti chiamano, ti scrivono messaggi, ti chiedono come stai e si sente che queste premure arrivano da molto oltre i dodici passi e ti finiscono dritte nel cuore. 

Alla fine, perché si sa, tutto ciò che comincia, trova sempre la sua fine, succede che la malattia com’è comparsa, sparisce e non resta che pulire la stanza, cambiare l’aria e raccogliere le briciole, facendo attenzione affinché niente sia stato inutile e perché nulla di questi giorni vada perso. 

E raccogliendo le forze e anche, perché no, un po’ di coraggio, ringraziare il cielo per la salute, bene primario, e contare i passi, questa volta senza doversi interrompere a dodici, senza arrestarsi alla barriera imposta durante gli ultimi ventuno giorni e andare verso un tenero abbraccio. 

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici… TREDICI… 














lunedì 16 novembre 2020

Lo scemo del villaggio e l'ufficio relazioni col pubblico











Vedo arrivare da distante, un uomo panciuto e sorridente. Sembra portare il sole con sé. Felice Beati è detto “la felicità negli occhi di chi guarda”. Tenendo fede al proprio nome lui non si arrabbia mai, ama incondizionatamente cose, persone e animali. Nei suoi occhi innamorati della vita si specchiano, e arricchiscono, le persone che incontra, individui i quali, senza sapere perché o percome, si ritrovano la giornata migliorata e iniziano a sorridere senza sapere come mai, a chiunque incontrino a loro volta. 

Non tutti in paese però subiscono lo stesso influsso positivo alla vista del signor Felice. 

Più avanti sta passando l’URP del paese. L’ufficio relazioni col pubblico è costituito da tre, a volte quattro, vecchine, tutte vestite di panno scuro. Si muovono in gruppo come un unico organismo vivente che gira per le strade e si nutre d’informazioni ed è voracissimo, a ogni angolo incontra qualcuno di conosciuto e lo ferma per carpire, con poche chirurgiche domande, le notizie fresche di giornata come si raccoglierebbero le uova appena deposte nella stia. 

Le vecchie dell’URP sono appena uscite dal confessionale, quello vero di don Lurio, dove, a turno, lasciano il loro deposito d’informazioni, quelle già datate, espletamento necessario a tenere liberi i pochi gigabyte disponibili nelle loro vetuste memorie. 

Fatto questo reset, ora sono pronte a immagazzinare le novità della bella giornata, da poco iniziata. 

Cambio velocemente percorso. 

Purtroppo il signor Felice non fa in tempo e viene puntualmente intercettato. 

-Buon giorno Felice. Fanno le arpie nerovestite. 

-Giorno Felice a voi. Risponde l’uomo con un gran sorriso recitando la sua poco originale battuta. Una garanzia dagli anni ottanta… 

-Che ci racconta oggi di nuovo… Le vecchie vanno subito al dunque. 

-Che è una bella giornata per fare una passeggiata in piazza, non credete? 

All’URP queste domande retoriche non piacciono per niente, loro vorrebbero qualcosa di più prosaico, dove stia andando, cosa stia facendo, chi ha incontrato e chi vedrà dopo… non sono fuori a fermare i compaesani per parlare del clima! 

Felice non riesce a smettere di sorridere e commette l’errore di dare loro un appiglio: 

-Ora torno a casa a preparare qualcosa, oggi da me pranzano i ragazzi… 

I ragazzi sono sua nipote Miriana e il fidanzato, un certo Fedele, uno che arriva da un'altra provincia. 

Le vecchie non si fanno scappare l’occasione. 

-Ma è vero che non si sono ancora sposati? Comincia una. 

-Eppure vivono assieme! Aggiunge un'altra. 

-E non sanno di fare peccato? Aggrava la terza. 

Felice non si arrabbia nemmeno e risponde sereno. 

-Vedete, sono giovani e non la pensano come noi… eppure sono due bravi ragazzi, non fanno niente di male e hanno la testa sul collo. 

-Eh, non fanno niente di male, lo dice lei, noi siamo preoccupate, cosa diventerà questo paese se andiamo avanti così… 

Intanto il signor Felice si è già voltato e sollevando il cappello saluta le megere e se ne torna per la sua strada. 

Perché anche a uno sempre col sorriso pronto e sempre gentile, quando si esagera nel rendergli la vita impossibile, magari un po’ di bava alla bocca poi gli viene. 

Ho fatto in tempo a sedere al tavolino del bar della piazza e a ordinare il mio aperitivo. Assumo un’espressione scema che più scema non si può e mentre sorseggio dal mio bicchiere, le tre streghe mi passano davanti e non mi trovano degno di saluto. 

Meno male. 

Meglio passare per lo scemo del villaggio che dover rispondere alle domande inquisitorie di quel trio immondo. 

Quanto a Felice, spero che passi una bella giornata in compagnia della nipote e del suo fidanzato, quello che arriva da un altro paese. 

Alzo il calice e brindo a Felice. E perché no, anche all’Urp del paese! 

Ma prima, togliamoci dalla faccia questa espressione…