domenica 27 gennaio 2019

luoghi insoliti: Uomo senza nome

luoghi insoliti: Uomo senza nome: Sono un uomo, questo lo ricordo. Se posso ricordare il dolore, se posso ricordare gli urli e le bastonate sulle gambe allor...

Uomo senza nome









Sono un uomo, questo lo ricordo.

Se posso ricordare il dolore, se posso ricordare gli urli e le bastonate sulle gambe allora so che sono un uomo.
Ma non ricordo il mio nome.

Se posso vedere i lividi sulle braccia e sulle mani, posso ricordare che sono un uomo.
E quando i lividi sbiadiscono e si confondono col nero della mia pelle, ci pensa il dolore a ricordare.
Ma non ricordo il mio nome.

Sono un uomo, se posso ricordare il male che fanno le pietre appuntite quando non hai scarpe e devi scappare. Se posso pensare che sono vivo solo perché so correre bene, mentre tante donne e i vecchi sono caduti sotto il fuoco dei fucili.
Ma non ricordo il mio nome.

Sono un uomo se posso capire dove si trova lo stomaco anche senza avere studiato, perché è quello il posto che duole e che sembra un pozzo vuoto e asciutto, quando non hai da mangiare.
Ma non ricordo il mio nome.

Sono un uomo perché ho memoria.
Ricordo la pelle calda della mia donna. Ricordo il suo profumo come quello dei fiori freschi. Sento ancora la sua voce mentre canta verso il sole del mattino. Sono un uomo perché so bene di essere stato abbracciato, so di essere stato amato.
Ma non ricordo il mio nome.


Ora tutto è cambiato.
Non ho più nulla.
Mi hanno tolto la casa e la famiglia.
Mi hanno sequestrato i documenti. Non ho più nessuna carta che dica chi sono.

E quando non avevo più nulla mi hanno tolto la dignità.
Alla fine mi hanno privato della speranza.

Si può ancora dire uomo, chi è senza speranza?
Io dico di sì. Sono ancora uomo perché posso scappare, fuggire assieme ad altri su di una barca senza speranza.
Perché non sono riusciti a cancellarla del tutto.
Perché tutti noi abbiamo ancora speranza ed è questo che ci fa ancora uomini.
Allora sono un uomo?
Ora ricordo il mio nome.
Ma le carte, i documenti sono stati distrutti.

Nessuno conoscerà il mio nome.
Dunque non sono più un uomo.
Quando tutto questo blu diventerà più nero della mia pelle. Quando questo sale smetterà di bruciare sulle mie ferite e questa schiuma smetterà di rendere ciechi i miei occhi, quando queste onde m’inghiottiranno, allora, non sarò più nulla.
Diventerò cibo per i pesci.
Mi dissolverò e le mie ossa finiranno sul fondo di questo freddo mare.
Non sarò più nulla perché nessuno saprà il mio nome.
Sarò di nuovo uomo solo se qualcuno si ricorderà di me.
Se ricorderà il mio nome.

Un uomo che ha provato amore, dolore, distacco e disperazione, speranza.
Un uomo con un nome.

E il mio nome è Epher.






domenica 20 gennaio 2019

luoghi insoliti: La contessina

luoghi insoliti: La contessina: La contessina Maria Elena Righini di Pianosa è sempre una donna incantevole. Una donna vestita con gusto, pettinata con cura, ...

La contessina







La contessina Maria Elena Righini di Pianosa è sempre una donna incantevole.
Una donna vestita con gusto, pettinata con cura, profumata e dalle maniere gentili e garbate, abituate da una vita nobile.

Dall’alto dei suoi novantasette anni, osserva tutto e tutti, senza scomporsi. Ha sempre una parola cordiale e un sorriso dolce per chi le passa accanto in casa, persino per il gatto.
Non che per lei faccia la minima differenza.

Oltre a una villa ottocentesca stimata tre milioni e mezzo di euro, una collezione di quadri pregiati e di libri rari che farebbe impazzire di gioia collezionisti in ogni angolo del pianeta, un paio di auto d’epoca chiuse in garage e svariati, preziosi gioielli, la sua demenza è l’unica cosa importante che le resti.
La contessina non ha il minimo ricordo della sua vita passata né possiede la minima connessione con la realtà.
I suoi giorni si ripetono, uguali l’uno all’altro, fatti di riti, come quello di prepararsi per la colazione, di cambiarsi per la cena, farsi asciugare il naso, farsi lavare e così di questo passo.
I suoi unici parenti, il figlio terzogenito di un suo fratellastro, dedito al gioco d’azzardo e prematuramente scomparso, e una giovane cugina di quest’ultimo, con la necessaria collaborazione di un amministratore ottuagenario, canuto e severissimo, fanno in modo che le tre badanti la tengano in modo impeccabile.

Le badanti sono un tasto dolente.
I due nipoti, che a quanto è trapelato, non hanno altre occupazioni ufficiali e vivono, a scrocco, abitando in due delle varie stanze a disposizione, fanno una gran fatica a governare il personale di servizio, e l’amministratore, che è l’unico al momento a poter disporre del patrimonio della contessina e a firmare gli assegni degli stipendi e delle spese di casa, non rende le cose semplici.

Almeno tre, le donne che si alternano alla sorveglianza e alla cura della contessina, per dare modo a queste di riposare a turno e di avere ferie e altre cose simili.
Ogni tanto le donne sono sostituite, perché troppo logorate da un lavoro che richiede di certo attitudine se non vocazione, ma più spesso perché non ritenute idonee al ruolo.

Qualche anno prima la badante diurna, una donna cinquantenne, austera, energica e affidabile fino a quel momento, aveva sviscerato un amore per la collezione di Capodimonte della contessina, ne spolverava continuamente i pezzi, li ammirava e ogni tanto, ne sottraeva uno dalla vetrina. Si era accorta di qualcosa la nipote che, avendo la passione per la matematica, contava periodicamente i pezzi.
Così come contava l’argenteria, i quadri alle pareti e i giorni che la separavano dal godere di quell’enorme ricchezza.
La giovane aveva informato il cugino e senza dire niente all’amministratore erano andati a casa della donna che aveva confessato tutto, piangendo. I quattro pezzi della collezione erano stati riposizionati nella vetrina e la badante aveva dato le dimissioni senza fiatare, grata per la denuncia che le era stata risparmiata.

Trovare una sostituta non era stato facile. Ci aveva pensato l'amministratore grazie all’aiuto di un'agenzia specializzata e i due avidi parenti si erano dovuti rassegnare, rinunciando all'idea di proporre persone di loro fiducia.
Sempre all'insaputa dell'amministratore, i nipoti avevano acquistato un metal detector e periodicamente passavano in rassegna tasche, cappotti e borse delle badanti e della donna delle pulizie col pretesto di fantomatici smarrimenti di orecchini o fermagli, sottoponendo le donne a umiliazioni immeritate.

A dire la verità, la contessina Maria Elena spesso dimenticava in posti improbabili i suoi orecchini o i preziosi monili che amava indossare ma questi erano presto ritrovati e niente entrava o usciva dalla magione che i nipoti ne ignorassero l'esistenza.

Da qualche tempo Irina, la badante più giovane, aveva espresso la preferenza a fare il turno di notte. Era senza dubbio il più pesante e le due collaboratrici non avevano certo sollevato obiezioni.
La scelta aveva dapprima insospettito i nipoti della contessina, sempre alla ricerca del losco in ogni cosa, ma alla fine nessuno si era opposto a quest’organizzazione del lavoro.
Di notte la contessina andava sorvegliata, occorreva portarle l’acqua e bisognava cambiare il pannolino perché, ahimè, di recente era comparsa una sgradevole incontinenza e l’intestino della donna aveva preso l’abitudine a vuotarsi nelle ore notturne.
Irina non era schizzinosa, sopportava l’odore pestilenziale, urina e feci facevano parte della vita, per lei era come cambiare un bebè. Lavorare di notte alla villa le permetteva di seguire suo figlio di giorno, accompagnarlo di mattina a scuola e dopo essersi riposata, seguirlo al pomeriggio con i compiti.
E poi l’odore degli escrementi era sempre meglio che sopportare di giorno la presenza dei nipoti della contessa.

Il nipote della contessina non sopportava Irina, anzi la detestava, provava un’avversione per le persone dell’est ed era sicuro che quella russa avrebbe portato guai.

La contessina andava sorvegliata ai pasti perché la sua demenza l’aveva trasformata in uno struzzo. Inghiottiva, senza pensarci due volte, qualsiasi oggetto lasciato a portata di mano. Una sera aveva mandato giù un bottone della camicia, del diametro di due centimetri. Irina si era spaventata ed era corsa dal nipote ma questi l’aveva presa in giro dicendo: 
-Tutto quello che entra, prima o poi deve uscire… Aveva riso ed era tornato nella sua stanza.

Irina non ci aveva dormito e aveva voluto controllare i giorni successivi il pitale della contessina. Tuttavia il nipote aveva ragione e il parto si era verificato puntuale due notti dopo.

Ultimamente le cose per il personale erano peggiorate. Innervositi dalle ottime condizioni di salute della contessina, i due nipoti si erano incattiviti, litigavano tra loro tutto il tempo e sfogavano il loro astio col personale.
A peggiorare le cose, la scomparsa di un anello che la contessina si ostinava a indossare.
Non un anello qualunque. 
L’anello di diamanti.
Un incantevole oggetto d’oro bianco, dalla pietra purissima di tre carati e dal taglio perfetto, un diamante naturale bianco Extra Superiore, certificato e valutato tra i novantamila e i centoventimila euro.
Erano impazziti tutti. La villa era stata messa a soqquadro e nessuno usciva senza passare sotto ripetuti controlli col metal detector. 
Niente da fare, l’anello era sparito.

Le badanti erano quelle trattate peggio, i nipoti sospettavano di tutti e l’unico a non essere controllato era stato l’amministratore.
Irina si era stancata di quella vita, non valeva la pena subire sempre, sentirsi guardare come una sospettata, una poco di buono, aveva ascoltato l’ultima scenataccia con le mani strette in pugni sotto il grembiule e aveva deciso che sarebbe stata l’ultima volta.

Ma Irina aveva un segreto.

Aveva finito per dare gli otto giorni di preavviso, per il licenziamento.
Il nipote della contessina le aveva ordinato di terminare la settimana col turno di notte e ogni mattina la controllava personalmente, vestiti, tasche, borsetta, niente era tralasciato. 
Il metal detector non suonò mai.

Come ultimo spregio, la incaricò di occuparsi dell’immondizia. Irina avrebbe dovuto portare fuori i sacchetti con i pannolini sporchi della contessa.
Così lei fece.

Ogni mattina, finito il massacrante turno, in cui aveva personalmente ripulito il fondoschiena della contessina, Irina richiudeva il pannolino, lo riponeva in un sacchetto a prova di odore e dopo essere stata minuziosamente controllata dal nipote, uscendo, portava il rifiuto nel bidone al fondo della strada.

La settimana finì. L’anello non fu mai trovato.


La contessa è sempre una donna incantevole.
Per lei le cose sembrano non cambiare mai.
I nipoti fecero storie e riuscirono a non pagare a Irina la liquidazione che le spettava.
Ma lei non se la prese.
Dopo tutto, quello che entra prima o poi deve uscire, no?

Nessuno lo fece ma se avessero controllato il bidone dell’immondizia in fondo alla strada, i due avidi e disonesti nipoti, non ci avrebbero trovato nessun pannolino sporco…









martedì 15 gennaio 2019

luoghi insoliti: alphabetic mode

luoghi insoliti: alphabetic mode: A lmeno una volta la settimana, mi assillano, vuoi smetterla di armeggiare con arcaici intrattenimenti e vuoi scriverlo un post, ...

alphabetic mode









Almeno una volta la settimana, mi assillano, vuoi smetterla di armeggiare con arcaici intrattenimenti e vuoi scriverlo un post, attuale o anacronistico che sia?

Bene, detto fatto, basta attendere, vi accontento, miei bavosi bimbi.   Così mi sono messo alla tastiera e senza cincischiare ho cominciato cocciutamente a battere tasti a caso.   

Di pensieri nella testa non ne mancano, anche se a volte sono distopici e disordinati.

Emozioni affollano il mio cuore e lottano per uscire, vorrei esprimere, equidistanti, rabbia e sdegno per cose che vedo, solidarietà verso persone eroiche, spesso preferisco utilizzare la razionalità e l'equilibrio ma emulo un impiegato privo di empatia e mi esprimo in maniera ordinaria.  
  
Freddo e vuoto oggi si scambiano posto, frenetici  nella mia fiacca mente e la pagina resta forzatamente bianca.    Generalmente vado a fare una corsa e l’idea giusta arriva, con gran giubilo, come pioggia gelida sulla faccia.    

Ho paura che oggi non sarà così facile, finanche l’humour latita.     Ignava è la mia mente e indolente me ne resto inebetito a osservare la tastiera.  

Le labbra lamentose restano serrate e le parole arrivano lente, come provenienti da un labirinto. Manchevole, ecco come mi sento, incapace di movimento, il cervello, solitamente maniacale, trasformato in muco, vuoto, assente e inutile.

Non posso negare il sottile piacere che sta sotto, il nulla che traspare, vorrei nascondermi in una nicchia, non avere responsabilità, nascosto da una fitta nebbia.


Opprimere la gente con idee strampalate e ossessivi, orripilanti pensieri assurdi…  Perché poi, porgere a tutti i costi piagnistei e parole al vento, a quale scopo? 

Quanti sono quelli che non possono fare a meno di leggere, ogni quaranta minuti, questi miei queruli scritti, quanti quelli che non vivono senza rimanersene in quiete?   Richiamo alla memoria un pubblico che resiste alla noia e ride ancora alle mie rade battute, più per reazione isterica che per divertimento reale. 

Saccheggio tra i miei ricordi ma credo di aver saturato la capacità di scelta, sbadiglio e non trovo le lettere da scrivere.    Tastiera infame e traditrice, nascondere a me le parole e i lemmi, le frasi e le trame e mi costringi a temporeggiare, a viaggiare a tentoni. 

Ubbidiente a una pratica che diventa abitudine, scrivo con urgenza e la velocità di un uragano qualcosa che abbia un senso compiuto, un vago umorismo e non mi faccia passare per un ultracentenario demente.     Vedo sfumare la vanagloria e la vanità in un vortice profondo e diventare venefica la mia attitudine alla venerabile arte della scrittura e mi sento inutile come una vedova vergine.  


Zitti, state zitti, miei nemici zelanti e molesti come zanzare. Ridete del mio fallimento e mi trattate da zerbino, seminate zizzania e puzzate di zolfo ma io saprò rialzarmi come uno zombie e coprirò la mia pagina di zucchero, saprò cambiare zona e zumare su un buon argomento e scriverò il prossimo post con aria da zuzzurellone!








venerdì 11 gennaio 2019

luoghi insoliti: Elogio funebre

luoghi insoliti: Elogio funebre: “... qui riuniti a piangere il nostro fratello…”  -Fratello un corno, mica era mio parente quello lì…  L’uomo c...

Elogio funebre









“... qui riuniti a piangere il nostro fratello…” 


-Fratello un corno, mica era mio parente quello lì… 

L’uomo che ha parlato, neanche tanto sottovoce, è Gino, pensionato di settantasette anni, massima attitudine alla cattiveria e nel tempo libero controllore e critico di cantieri. 

-Anche perché un parente così te lo raccomando… 

Chi ha risposto, più sottovoce solo per pusillanimità, è Ludovico. Vicino di casa del fu, pensionato a sua volta e collaboratore in seconda ai cantieri di Gino. 



“... lascia un vuoto incolmabile…” 


La chiesa è piena a metà, o per metà vuota se si preferisce. Qualcuno direbbe che Matteo riesce a fare le cose a metà anche da morto, senza dubbio lo direbbero i due sopra. 

Al centro della navata la bara spicca per pulizia ed eleganza. Legno vero, in certi frangenti mica si sta a risparmiare. 


-Si, il vuoto lo lascia nelle tasche dei fessi che gli sono stati dietro… fa Gino. 


“... un uomo dalle grandi doti imprenditoriali, tutto quello che toccava, si trasformava in oro…” 


-Oh, devono avergli gonfiato ben bene la busta a don Lenza, senti come lo indora… nota Gino. 

-Mi scappa da ridere, commenta Ludovico, ti ricordi quanti affari ha buttato alle ortiche? Era davvero impedito… l’ultima attività era un negozio di scarpe, se il cliente misurava la sinistra, lui era incapace di trovare la destra, quanta gente ha mandato via scalza… l’ultimo cliente fedele che gli era rimasto era Pietro il monco... 


“... aveva una buona parola per tutti…” 


-Sì, quando era di buon umore, ti mandava a quel paese, anche se di solito era sempre incazzato e le bestemmie si sprecavano, sussurra Gino. 

-Se lo salutavi per strada, andava bene quando ti rispondeva con un grugnito da suino, precisa Ludovico. 


Don Lenza che non esce da dietro l’altare, come ultimamente fa sempre per nascondere la pancia di cui si vergogna, oggi sembra veramente addolorato, suda, è tutto rosso, gesticola ma forse ha solo un’altra delle sue crisi ipertensive. 


“... che possa consolare la sua affranta moglie…” 


-L’affranta moglie si è già ampiamente consolata, anche mentre Matteo era in vita, e lo sappiamo tutti, anche tu prete… sibila fra i denti Gino. 

-Col fornaio, col parrucchiere gay che non disdegna ogni tanto cambiare genere, finanche col ragazzo delle pizze… Sottolinea sempre preciso e puntuale Ludovico. 


“... un uomo di cui tutti sentiremo la mancanza…” 


-Più che altro sentiremo la mancanza dei soldi che gli abbiamo prestato… a me li ha restituiti… si... diciamo la metà… si affretta a puntualizzare Gino per non fare brutta figura, poi continua, io non vorrei essere nei panni di tutti i fessi che ancora aspettavano, con le promesse e le parole Matteo ci costruiva un impero e adesso rimangono tutti fregati. 


Ludovico non commenta. Fa finta di intonare un canto ma sembra più il latrato di un cane con il mal di pancia. 


-Ma... non è che anche tu…. fa Gino. 

-Settecentocinquanta. E per favore non fare commenti, eravamo vicini di casa e sua moglie passava sempre a tranquillizzarmi e a promettere che presto li avrei avuti in tasca. E passava con quella camicetta trasparente… aggiunge Ludovico. 


Gino non riesce a soffocare una risata che per sua fortuna è coperta da un inno tortura-orecchie intonato, si fa per dire, dal coro improvvisato delle vecchie della congrega. 

Una donna sui settanta, col cappotto scuro si gira e rimprovera i due pensionati con lo sguardo. Gino pronuncia pronto: Pace anche a lei! 


“ … accompagniamo questo fratello nel suo ultimo viaggio…” 


-Tu che fai, Ludovico, ci vai al cimitero? 

-Non scherziamo! Fa troppo freddo, me ne sto un po’ qui a riposare, fra poco don Lenza inizia le confessioni… 

-Quasi quasi ti faccio compagnia e mi confesso pure io… decide Gino. 

-Tanto si fa presto, aggiunge Ludovico. 


-E perché? Chiede curioso Gino. 

-Perché? Guarda l’ora, lo sai che i preti cenano presto… penserai mica che don Lenza si sia messo a dieta? 


I due pensionati si segnano velocemente mentre passa il feretro. Gino butta un occhio sull’inconsolabile vedova, Ludovico pensa ai settecentocinquanta euro che non rivedrà più. 


Poi si risiedono al fresco, aspettando che la gente esca e torni il silenzio. 








sabato 5 gennaio 2019

luoghi insoliti: Come una famiglia

luoghi insoliti: Come una famiglia: Giacomo è un giovane e brillante trentenne, alle dipendenze di una finanziaria multinazionale, con molte sedi in Italia e in Eu...

Come una famiglia








Giacomo è un giovane e brillante trentenne, alle dipendenze di una finanziaria multinazionale, con molte sedi in Italia e in Europa. 

Single per scelta più altrui che propria, come spesso ripete agli amici, vive in un bell’appartamentino alla periferia di Milano. 

Quando gli proposero un progetto di sviluppo che prevedeva la partecipazione a un lungo corso di perfezionamento presso la sede di Napoli, ebbe l'impulso di rifiutare. Per fortuna non lo seguì, quello che voleva era fare carriera e non poteva permettersi troppi no come risposta. 

Per lui, lombardo di nascita e mai uscito da casa, se non per qualche breve vacanza all'estero, quella trasferta prolungata sarebbe stata un grosso sacrificio ma Giacomo sapeva che la sua azienda avrebbe ricordato. 

Si rivolse a Giorgio, il suo collega e vicino di scrivania che si vantava di essere un gran viaggiatore e di avere parenti in ogni angolo del mondo. 

La durata della trasferta sarebbe stata di tre settimane e il collega si rivelò all'altezza del compito richiesto. 

Giacomo avrebbe potuto contare su una camera singola, con un ingresso autonomo da un ballatoio e un piccolo bagno in comune con l'alloggio di una lontana parente di Giorgio, un'anziana prozia che di solito ospitava studenti universitari che arrivavano da altre città. Ultimamente anche per la cultura erano tempi di crisi e la camera era libera. 

Quando fu il momento, Giacomo preparò bagaglio e documenti, spinse nel borsone un tascabile di Donato Carrisi che non aveva ancora letto e prese il treno. 

Il fascino della città lo colpì d'improvviso, buono come il profumo del ragù di nonna e caldo come una sciarpa fatta a mano da una persona che ti ama. Finite le ore di studio e lavoro, Giacomo non si stancava di camminare per ore, gustando i particolari barocchi dei palazzi, il colore nitido del cielo al crepuscolo e i profumi che uscivano dalle finestre nelle viuzze. Il panorama era la cosa più bella che avesse visto e si sentiva privilegiato di poterne godere tutte le sere. 

La padrona di casa, la famigerata zia del collega, era un donnone estroso e sgradevole, sempre accigliato e che lo trattava con viscida e falsa cortesia. La donna era costretta sulla sedia a rotelle, urlava contro di tutti e puzzava un poco. 

Giacomo le pagò tutto il periodo in anticipo con una molle e sudata stretta di mano come contratto e un sorriso guasto come ricevuta. 

Una donna proprio sgradevole. 

Giacomo vide che c'era una bambina in casa, una dolcissima creatura di due o tre anni ma non capì subito chi fosse la madre. 



Durante la prima settimana, la bimba lo avvicinò con la cautela tipica dei bimbi e dei gatti che vogliono studiare e conoscere qualcuno, poi prese a salutarlo con la manina e con grandi sorrisi quando rientrava alla sera. Giacomo non era abituato ai bambini e quell'esperienza gli piacque. 

La matrona gridava qualcosa in un dialetto strettissimo e incomprensibile e la bimba ubbidiente rientrava. 

Giacomo si chiese presto di chi fosse quella bimba che lo aspettava la sera con commovente calore. 

Poi un giorno lo scoprì. 



Con tutti gli altri colleghi, avevano deciso di prendersi un mattino libero e Giacomo aveva programmato di visitare il porto. 

Si alzò mezz'ora più tardi del solito e si rase. Mise il tascabile nello zaino, era arrivato a metà e non vedeva l'ora di riprendere la lettura. Prese le scale e per poco non andò a sbattere contro una donna con la figlia in braccio. 

Era la bimba che lui conosceva, ma era ancora addormentata. La donna si scusò con gli occhi bassi e gli passò oltre. Lui la vide di sfuggita e fu come un lampo improvviso che rischiara la notte. 

Restò lì come un ebete a fissare la sua nuca, una massa d’indiavolati capelli scuri che si allontanava. 



Durante tutta la seconda settimana partenopea, Giacomo non perse occasione per incrociare quella donna, tardava l'uscita apposta (e per tre mattine la cosa funzionò), ciondolava, perdendo tempo per le scale oppure usciva quando sentiva il pesante portone di legno sbattere. Ogni volta lei sussurrava un timido “buonasera” e lo lasciava sul ballatoio incapace di ogni piccola mossa. 

La “zia” si accorse dello strano comportamento del giovane e ci mise poco a mangiare la foglia. Giacomo non capiva il dialetto ma ci rimase male quando la vide maltrattare la giovane madre che subì come sempre e si ritirò in casa con la bimba in braccio. 



Per Giacomo terminare il corso di formazione fu una pena. 

Tutto era cambiato per lui, non aveva interesse allo studio, sfogliava distratto il romanzo senza capirne più una sola riga, non riuscì più a sentire gli odori né a vedere i colori di quella città magica. 

Tutto quello che sperava, era incontrare la giovane donna e riuscire a parlarci, strappare un sorriso. 

Una sera Giacomo, contrariamente a quanto si era promesso, chiamò il collega Giorgio. 

Da lui seppe che Angela non era la figlia del donnone ma ne aveva sposato il figlio qualche anno prima. Il marito era un poco di buono e usava la sua barca per contrabbandare droga via mare. Era stato ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia e la suocera le aveva “magnanimamente” concesso di restare a vivere con loro. Una grande famiglia allargata. Il collega aveva anche raccontato a Giacomo che lei non era stata più la stessa, si era rinchiusa in quelle poche stanze e faticava anche a provvedere alla bimba. 

Giacomo avendo visto con i propri occhi quali erano i rapporti di forza in quel cortile, pensava di saperne molto più di Giorgio stesso. 

Un mattino della terza settimana Giacomo non andò in ufficio. Uscì dal portone e attese. Angela scese le scale, recuperò il passeggino sotto il portone, sistemò sua figlia e uscì. 

Angela si diresse al mercato coperto, Giacomo non fu stupito poiché lei usciva solo per le commissioni di casa. La seguì con l'intenzione di palesarsi e fare due chiacchiere. Non aveva certo intenzione di spaventarla o di giocare all'agente segreto. 

Si stava avvicinando alla donna quando alcuni ragazzini avendo percepito che si trattava di un “estraneo” lo avevano circondato, cercando di vendergli qualsiasi cosa, da una confezione di fazzoletti a un iPhone. 

Fece appena in tempo a vedere la bimba che sganciava la sicura del passeggino e scendeva per correre verso la strada trafficata. 

Lui la chiamò e la prese delicatamente in braccio per porgerla alla mamma. Lei comprese tutto prima di aprire bocca e nello stesso istante comprese anche quello che gli occhi di Giacomo le stavano comunicando. 



Scesero al porto. Sedettero a un tavolino e parlarono a lungo. 

Lei era incantevole. Giacomo si perse nel suo viso, percorse le rughe, ne comprese il dolore. Continuò a osservare, contò i pori, misurò le ciglia e cascò negli occhi e si smarrì nella bellezza. 

Ma la più grande meraviglia lo avvolse quando capì che anche lei non era indifferente, che anche lei lo aveva osservato, anche lei aveva studiato i suoi movimenti. E sapeva che la bambina aveva fatto altrettanto. 



Il penultimo giorno della formazione per Giacomo fu una tortura. 

Si era fatto dare il numero da Angela con la promessa di non chiamare e di utilizzare solo i messaggi. 

La zia smise di essere gentile e gli rivolse un'occhiata omicida. 

Lui passò un’inutile giornata in ufficio e quando rientrò, la bimba lo salutò con la manina subito richiamata dentro dalla voce inacidita della nonna. 

Giacomo aspettò sul balcone per mezz’ora poi entrò in camera a preparare i bagagli. 

Ficcò tutto in valigia senza attenzione. 

Non aveva voglia di partire, andare via perché, andare dove senza Angela, no, non aveva intenzione di andare da nessuna parte senza di lei. 

Chiuse la valigia e si preparò ad attendere. 



E lei arrivò. 

Bussò alla sua porta a mezzanotte. Arrivò come una ladra nella notte. Arrivò come un regalo desiderato. Arrivò come la nuova vita attesa. Arrivò come un rinnovamento. Lui la fece entrare e sfiorò la sua bocca con labbra leggere. 

Lei era spaventata, eccitata, felice. Atterrita ma decisa. 

Gli chiese di essere pronto a uscire per le sei e di raccogliere le sue cose in silenzio. 

Sarebbe partito con un giorno d'anticipo. Sarebbe partito con lei. 

Provò ad accennargli della figlia, provò a chiedere se si sarebbe sentito di avere una bimba in casa ma lui le chiuse la bocca con gentilezza. 

Le disse: “Vai ora, prepara le cose che ti servono e fai piano.” 

Lei rispose che la donna prendeva tutte le sere un potente sonnifero e che non la svegliavano nemmeno le cannonate ma che avrebbe fatto piano in ogni caso. 



All’ora stabilita due ombre prudenti, uscirono dal portone. 

La donna aveva una bimba addormentata in braccio, l’uomo portava due borse. 



La stazione era vicina, avrebbero preso il primo treno. 

Giacomo mise una borsa a tracolla e prese la sua mano. Tremava un poco. 

Avevano davanti una stazione ferroviaria. Un viaggio. Una vita. 

Giacomo voleva viverla con Angela e sapeva che lei voleva altrettanto. 

Salirono sul treno, si sistemarono nei loro posti e lei si appoggiò sulla spalla di lui con la bambina ancora addormentata, in braccio. 

Poi chiuse gli occhi. 

Torniamo a casa, pensò Giacomo. 

Come una famiglia.