lunedì 19 dicembre 2022

Promozione: Dalla tastiera alla ribalta

 



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giovedì 15 dicembre 2022

Schröder e lo spirito del Natale

 




 

Schröder cammina con passo pesante e deciso. Non ha paura d’inciampare nonostante i suoi settanta anni. Non ha paura di scivolare, nonostante la neve copra il marciapiede sudicio.

Schröder ha solo un pensiero che lo angustia.

È dicembre.

Un bambino lo osserva dall’altra parte della strada e tira con la manina, la manica di sua madre. Lei non lo degna di attenzione, mentre continua a starnazzare al cellulare. La vetrina alle spalle dei due è piena d’inutile ciarpame. Paccottiglia dorata e luccicante, che sarà scartata da persone annoiate e andrà presto a prendere polvere sui ripiani delle cantine.

Schröder procede senza curarsi della gente che deve evitarlo per non esserne urtata, di quelli che si girano a guardarlo storto, degli insulti che ogni tanto giungono alle sue orecchie. Perché dovrebbe curarsene, in fondo sono sconosciuti e a lui non importa neanche dei parenti.

Oggi se ne sarebbe stato al caldo della sua stanza, sulla poltrona dalla stoffa lisa e puzzolente di antichi peti, a leggersi il giornale ma purtroppo è dicembre. Non che se ne sia scordato, lo sa già da un pezzo ma ormai siamo a metà del mese e non può più far finta di niente.

Per questo lo vediamo camminare col suo modo risoluto di fare le cose, tipico del vecchio acido qual è, a camminare, quasi a correre, sul marciapiede innevato di fresco.

La voce di suo figlio gli risuona ancora nella testa. “Lo sai che ci teniamo ad averti a casa, il giorno di Natale, anche Roberta, sicuro. Non è importante che porti un regalo, già la tua presenza lo sarà”.

Si ferma di botto! Per poco non si accorgeva del semaforo rosso e stava per attraversare l’incrocio, immerso nei suoi pensieri.

Certo, sarebbe stato un vero colpo di fortuna, pensa Schröder, farmi investire, battere la testa ed entrare in coma. Dormire per tutto il periodo delle feste e svegliarmi in pieno anno nuovo. Magari in primavera. Gli scappa mezza risata ad alta voce e una ragazzina lo guarda come si guardano i mentecatti.

Schröder si sta dirigendo al centro commerciale. Altro luogo che odia con tutte le sue forze. La sola cosa positiva è che le commesse sono troppo impegnate a passare i prodotti sul nastro e non si prendono la briga di guardare negli occhi i clienti. E poi basta una telefonata e gli consegnano la spesa a casa.

Schröder non ha tempo da perdere con l’internet o come diavolo si chiama quella roba li.

Così anche quest’anno gli toccherà di passare il pranzo di Natale con quell’inetto di suo figlio e quella sciacquetta della moglie, Roberta. Bella coppia. Li ha visti nemmeno tanto tempo prima, sarà stato fine settembre o ottobre. Ha dovuto firmare dei documenti della banca e Giacomo l’ha voluto accompagnare a tutti i costi.

È stato un pomeriggio impegnativo. Un taxi gli sarebbe costato di più ma sarebbe stato più piacevole. Giacomo era andato a prenderlo e gli aveva fatto la sorpresa della presenza di Roberta, quell’acciuga ossuta. Tutto il tempo aveva dovuto rintuzzare continui inviti a essere più presente nelle loro vite, a partecipare a qualche domenica gioiosa in famiglia, magari a giocare a carte.

A Schröder il gioco delle carte faceva schifo.

Ma più ancora, gli dava il voltastomaco passare un giorno con quei due e il padre di lei, Antonio, che non vedeva l’ora di fare l’amicone e di dargli sui nervi col suo sgradevole alito e le sue odiose pacche sulla schiena.

Che fosse Natale o meno.

Sentiva il duro del portadocumenti nella tasca interna del cappotto. Il libretto degli assegni avrebbe parlato per lui. Già si vedeva trattare con il confuso commesso, che non avrebbe capito il suo gioco al rialzo.

“Non avete qualcosa di più costoso?” il garzone avrebbe sgranato gli occhi e questo lo avrebbe fatto somigliare a una triglia. “Vorrei un articolo più ricercato, se non ne avete, andrò da un'altra parte”!

Nessuno si era mai fatto sfuggire un cliente come lui, anche se si ostinava a impiegare quell’antiquato sistema di pagamento.

L’anno prima era venuto a sapere che l’amicone del consuocero aveva acquistato come regalo di Natale per i ragazzi, un frullatore. Schröder aveva riso per un’ora, poi si era organizzato e aveva scelto, nel negozio più caro della città, una specie di mostro, un robot che cuoceva, impastava, friggeva, sminuzzava, omogeneizzava, pastorizzava, surgelava ogni tipo di alimento. Lo avevano solo alcuni ristoranti stellati e pochi chef lo sapevano usare. Certo era costato la sua cifretta ma il Natale era un gioco al massacro e Antonio avrebbe capito che non ci si mette contro Schröder, mai, nemmeno a Natale!

Quest’anno l’amicone si era impegnato e la sua scelta era caduta su un computer portatile, utile sul lavoro e in casa, Di certo aveva salassato il suo conto. Antonio aveva un difetto oltre all’alito orribile, amava chiacchierare e Schröder si era fatto confidare la notizia.

Non sapeva ancora cosa avrebbe acquistato in uno dei lussuosi negozi del centro commerciale ma di sicuro il suo regalo avrebbe fatto presto dimenticare l’utilità di un banale laptop.

Attraversò il parcheggio e nell’entrare non si accorse che aveva calpestato qualcosa. Un pezzo di cartone si era appiccicato alla suola bagnata.

Una debole voce protestava e lamentava la proprietà del cartone.

Schröder lo staccò dalla scarpa. Vi lesse una scritta.

 A ME BASTA UNA MONETINA. PER TE LA PREGHIERA PER UN NATALE SANTO.

Schröder guardò alle sue spalle.

Un omino segaligno quanto lui ma sporco e puzzolente, reclamava il suo messaggio sul cartone. Schröder si chiese come quell’essere avesse la supponenza, il coraggio di poter pregare per qualcuno.

Represse una smorfia di disgusto per l’odore di urina che proveniva dall’uomo e diede un calcio al cartone, poi un altro, fino a farlo finire in una grata del parcheggio sotterraneo.

Il barbone si girò con il capo chino e se ne tornò al suo posto, sugli stracci.

Aveva capito, pensò Schröder, che non era il caso di mettersi contro di lui.

Che fosse Natale o meno.

 

 




sabato 26 novembre 2022

La mia giornata è una pagina bianca

 




 

Visti dalla copertina, tutti i libri felici si assomigliano. Quando si aprono e si legge l’incipit, ognuno è felice o meno a modo suo.

Questo, senza voler mancare di rispetto al celebre Tolstoj, rende ogni libro unico.

La prima pagina è la più difficile. La più complicata. La più ostica.

La prima pagina è il terrore di ogni scrittore. Nessuno è immune, non esistono vaccini che proteggano dal terribile morbo chiamato blocco.

La mia giornata è una pagina bianca.

Ogni sera, quando gli occhi si chiudono per la stanchezza, comprendo di avere attraversato un luogo mai visitato prima. Ogni giorno è nuovo, è diverso. È una foresta fitta e oscura, un mare a volte burrascoso e nero, un’isola misteriosa, con un tesoro al termine di un arcobaleno.

Ogni giorno è una pagina da riempire con creatività, con fantasia, con pazienza…

Il lavoro da fare è molto, ponti da costruire, strade da riparare, luci da accendere. Ci sono persone da connettere e riconnettere, argomenti da spiegare, libri da leggere e amici da ascoltare.

La sera la pagina è piena. Ci troviamo errori cancellature, è vero, ma ci sono anche frasi riuscite meglio, parole eleganti e appropriate, piene di amore e di speranza.

Attraversiamo le nostre giornate come si valicano luoghi insoliti, col cuore pieno di timore e incertezza ma anche colmo di curiosità e gratitudine per i doni che ogni giorno la vita ci regala.

Così, spaventato, incerto ma grato chiudo gli occhi sereno e attendo il domani.

Per scrivere la pagina successiva.





giovedì 24 novembre 2022

Dalla tastiera alla ribalta







Era una notte buia e tempestosa... la suggestione della scrittura mi riporta non solo al celebre bracchetto Snoopy disegnato da Schulz, sul tetto della cuccia, alle prese con la sua personale lettera 22, ma anche ad altre storie. Le storie della vita reale che si dipana, le storie che spingono per essere raccontate.

Storie che sono a volte autobiografiche, altre fantastiche o misteriose. Racconti che sono riflessi di verità oppure parto della fantasia.

E questa suggestione conduce presto alla magia che trasforma le storie narrate e le rende vive: il teatro.

Quando, per la prima volta, i dialoghi da me scritti sulla tastiera sono stati recitati da attori in carne e ossa, su un palco, ho provato una sensazione come di un miracolo. Stavo assistendo al mio personale Golem, fatto di lettere e punteggiatura, che si stava sollevando e camminava sulle sue gambe, dotato di vita.

È stato amore immediato.


 https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/642920/dalla-tastiera-alla-ribalta/



giovedì 10 novembre 2022

educazione

 





Un giorno, stavo passeggiando con un mio amico e attraversando la strada sulle strisce pedonali, ho sollevato la mano e ho sorriso, ringraziando l’automobilista che si era bloccato per farci passare.

L’uomo ha ricambiato con un’alzata appena accennata delle dita, lo scambio muto non manca mai di darmi soddisfazione.

Il mio amico ha iniziato scuotere la testa e con tono contrariato mi ha detto:

“Non sei tenuto a ringraziare. Ai sensi del codice stradale lui si deve fermare davanti alla presenza di pedoni sulle strisce!”

Io non rispondo ma lo guardo con stupore. C’è qualcosa che non capisco, qualcosa che stona.

Lui si premura di spiegare:

“Questo non sarà mai un paese civile, se si deve ringraziare uno che segue il codice e si ferma a un passaggio pedonale”.

Sembra tutto soddisfatto della precisazione.

Io replico:

“Sì, ma questo non sarà mai un paese educato se nessuno sarà capace di dire grazie.”

La risposta non sembra piacergli.

“Cerca di capire, provo a chiarire mentre camminiamo, oggi tutti conoscono molto bene quali sono i propri diritti, chiunque può elencare ciò che gli spetta, nei più diversi ambiti ma la maggioranza sembra dimenticare il proprio dovere. Ci rivolgiamo agli altri senza usare, non dico amore e tantomeno tenerezza ma almeno empatia. La persona dietro allo sportello è considerata un’estensione del computer e se non soddisfa velocemente le nostre esigenze siamo pronti a sbranarla. Davanti agli intoppi siamo pronti a diventare scortesi e aggressivi e non ci facciamo problemi a insultare uno sconosciuto che ha l’unica colpa, quella di non piacerci e di averci incontrato nel giorno sbagliato”.

Il mio amico non si convince. “Che cosa devo fare se trovo un incompetente? Ringraziare?”

Io sorrido, il sarcasmo e l’ironia non sono il suo forte ma capisco le sue obiezioni.

“Per esempio si potrebbe salutare, dimostrare che lo riconosciamo come essere umano e che in quanto tale è fallibile…”.

“Sì, e ci faccio anche amicizia…”

“Se vuoi, puoi farlo… io suggerivo solo un briciolo di compassione”.

Lui ormai è distratto, pensa ad altro. Capisco che vuole cambiare argomento. Ecco che all’improvviso l’argomento arriva sotto forma di feci canine che lui non accorgendosi, calpesta. Inizia a sbraitare un elenco d’imprecazioni, non necessariamente in ordine alfabetico. A me scappa da ridere e lui mi guarda malissimo.

“Che cosa vuoi farci, ormai le strade e gli spazi verdi sono diventati una vasta toilette per animali. Anche questa è questione di educazione, proprio come quelle auto ferme in doppia fila che stanno bloccando l’autobus e quei monopattini messi di traverso sul marciapiede, che abbiamo dovuto scavalcare…”.

Lui è arrabbiatissimo e sfrega ripetutamente la suola a terra. “Quindi questa è colpa delle persone allo sportello che perdono la pazienza? Oppure di chi ti attraversa davanti al muso dell’auto e non ti degna di uno sguardo?”

Io sorrido. Forse non è il momento adatto.

Forse dovrei attendere che abbia le scarpe pulite.

Ma non posso aspettare, penso che forse sì, un fenomeno sia figlio dell’altro. Che non ci siano diritti senza doveri. Che bisognerebbe trattarci reciprocamente con più umanità e rispetto. Che l’educazione vada insegnata ai più piccoli ma anche gli adulti possono imparare.

Che l’empatia può essere un rimedio.

Che l’educazione può essere una soluzione.

“Certo che i cani sono carini ma la roba che hai sotto la scarpa manda un odore…”.

Il mio amico scoppia a ridere, mi dà una pacca e si gira.

Sono certo che per lui esista salvezza.

 





lunedì 31 ottobre 2022

limiti

 







Un limite che so di avere è l'avversione per il conflitto.

Non so mai come gestire l’ostilità, il litigio. Cerco di non averne, scegliendo o meglio preferendo tenere un atteggiamento cauto e moderato. Cerco di assumere posizioni da mediatore, prediligo la diplomazia.

Certe volte mi chiedo se non sia un atteggiamento pavido, se non sarebbe meglio discutere, alzare la voce, accettare il conflitto e gestire questo come momento di crescita. Altre volte, invece, vedo che la mia scelta è quella giusta e passato il momento "critico" le cose poi vanno bene, le questioni si risolvono.



Un limite esterno a me, sono certe decisioni che hanno una ricaduta sul nostro comportamento e sul nostro lavoro. Indicazioni di un dirigente, un capo, un direttore, che contrastano con quello che io reputo più giusto o più adatto. So superare questo limite (anche se non tollero l’incompetenza a certi livelli) e accettare queste disposizioni e riesco ad aspettare la giusta occasione di confronto, quando questa si presenta, con chi ha preso tali scelte così come posso accettare che qualcuno abbia un punto di vista diverso dal mio.



Un limite che subisco è quello di avere poco tempo per fare le cose che mi piace fare.

Sono tante, sia in ambito lavorativo sia nella vita privata e sono costretto a dosare i tempi dividendo e bilanciando ogni minuto, come farebbe un alchimista nel preparare una pozione.



Un limite che so di avere superato è ciò che faccio talvolta, condividendo e leggendo ad alta voce qualcosa di mio. Non mi è mai piaciuto leggere in pubblico, sebbene sia un lettore vorace, ora so di poterlo fare.



Accetto di non resistere in un luogo chiuso, cosa che ogni volta mi mozza il respiro.



Accetto, con dolore, di non poter rivedere le persone che mi sono mancate.



Accetto di andare avanti, nonostante le fatiche e le difficoltà.



Accetto, anche se dovrei lavorare di più sulla mimica facciale, di incontrare anche le persone che mi piacciono meno.



Accetto di non essere perfetto, anzi, di essere imperfetto.



Accetto i miei tanti limiti.



M’impongo di non avere limiti.





domenica 9 ottobre 2022

Nutella e convivenze

 






Piove.

Oggi è giornata da nutella.

 

Mangiata col cucchiaio da minestra, direttamente dal barattolo.

O con i grissini.

O con le dita.

Un chilo di nutella per addolcire la domenica.

 

Sono solo, mia moglie sfoga il suo trauma da cambiamento in corso, con il lavoro e sono giorni che pulisce e lustra tutto quello che le passa tra le mani, in tre case diverse.

Io scelgo la tastiera di questo tablet, anche se mi fa impazzire…

Per farmi ancora più male, metto sul piatto il vinile di Dalla, quello con "La sera dei miracoli" e presto mi accorgo che mi mette voglia di piangere. Così lo tolgo.

Perché dovrei piangere, mi dico, dopotutto sono felice. Cambiare casa è una svolta positiva, traslocare in un bell'appartamento, comprare mobili alla moda, moderni elettrodomestici, è quello che tutti sognano.

E andare a convivere col compagno che si è scelto, è il coronamento del sogno.

Convivere: vivere con.

Ecco, è chiaro il significato del termine. Ma implica un'altra cosa. Implica con chi non vivere più. E oggi tu sei uscita da casa, portando il tuo cuscino, per vivere col tuo compagno, sia chiaro, di questo sono contento ma da qualche parte del mio cuore una voce ripete con petulanza: da oggi tua figlia non vive più con te, da stasera non dorme più nella tua casa.

Per avere la certezza che la voce non stia mentendo, vado a vedere la cameretta e trovandola mezza vuota, capisco che è tutto vero.

Ci sono già passato, mi dico, non è così drammatico, la prima volta non è stata una passeggiata ma è andata bene. Col senno del poi sono sereno.

Dunque, perché questa inquietudine?

Sono contento, perché so che siete felici e la consapevolezza, in quest’attimo eterno di solitudine, mi conforta e mi rende salde le gambe.

Lo so che siete felici, non serve altro.

Allora mi asciugo l'angolo dell'occhio, ripongo tra gli altri il disco di Lucio Dalla, apro la dispensa e tiro fuori il barattolo.

 

Oggi piove e ci vuole la nutella.

 

Ce ne vuole tanta.

 

 




sabato 1 ottobre 2022

Time machine

 






Come vorrei…

Gioele ha lo sguardo alcolico, diretto all’orizzonte. Forse oltre.

Come vorrei, cosa? Che cosa vorresti? Chiede divertito e un po’ spazientito Luigi.

Come vorrei avere una macchina del tempo.

Gioele sgrana gli occhi e gli si dilatano le pupille. Come se avesse ricevuto un'illuminazione proprio in quel momento.

Luigi sa che quando l’amico è al terzo prosecco, diventa una fonte. Di idee geniali come di cazzate, ma il tempo per ascoltarle lo si trova sempre.

E cosa te ne faresti? Lo stuzzica, alzando la mano per attirare l’attenzione del cameriere.

Gioele resta in silenzio un momento, cercando forse di trovare le parole giuste.

Luigi tace. Sa che il cervello dell’amico ormai è in moto, basta aspettare.

Cos’altro ci puoi fare con una macchina del tempo, Luigi, mi sembra ovvio no? Tornerei indietro nel tempo, ogni volta che ne avrei bisogno.

Giusto, precisa Luigi, cos'altro ci puoi fare con una macchina del tempo…

Il cameriere arriva con due flûte di vino bianco perlato e anche lui pare annuire alla logicità dell’asserzione.

E quando ne avresti bisogno, se è lecito? Rincara Luigi, con sincera curiosità, mentre solleva il bicchiere per l’ennesimo giro.

Gioele beve un sorso, poi la sua espressione diventa triste e solenne.

Quando qualcuno mi abbandona. Quando qualcuno inizia a poter fare a meno di me. Di certo sarebbe qualcuno che consideravo un amico, per chi sennò. Tornerei immediatamente ai tempi d’oro, quando ci si divertiva insieme, quando non si faceva niente se non era coinvolto pure quell’altro. Tornerei a quei giorni e lo ammonirei… gli tirerei un pugno sul naso, non di quelli cattivi ma che fanno solo un po’male. Gli direi, sveglia imbecille, attento che questi giorni finiranno se non stiamo attenti, stai all’erta che le amicizie sono come certe piante delicate, se non dai acqua o se ne dai troppa, muoiono.

Ah, riesce solo a dire Luigi.

Gioele torna a guardare l’orizzonte ma stavolta attraverso il bicchiere di vino.

Poi prosegue.

E tornerei indietro ogni volta che una persona mi ferisce e mi delude. Tornerei al giorno prima e gli direi, attento che quello che hai intenzione di fare mi ferirà, e quello si stupirebbe che io sappia in anticipo le sue intenzioni. Allora gli direi, guarda che tu sei una persona preziosa per me, un tuo tradimento mi farebbe troppo male, non lo sopporterei…

La voce di Gioele sembra farsi più forte, nonostante il vino.

Perché hai notato? Chi è che ci ferisce e di delude meglio delle persone più care, non credi?

Luigi resta mutacico, non perché non sappia cosa dire ma perché ha sperimentato sulla sua pelle ciò che l’amico gli sta dicendo.

E quando scopro che qualcuno mi ha mentito o non mi ha detto tutta la verità, tornerei nel passato per dichiarare che io conosco come stanno le cose, che so bene quello che succede e che può risparmiarsi di spiegare. Passerei per il saputello di turno, certo. Ma eviterei all’altro di mentirmi. E io non sopporto quando qualcuno mi mente.

Luigi sente che nel tono dell’amico non c’è solo euforia o tristezza alcolica, ma un timbro malinconico che mai aveva percepito prima. Sente le lacrime salire verso la superficie degli occhi.

Ho perso amici, caro Luigi, e ho rotto rapporti importanti, per colpa di quella fottuta macchina del tempo che non esiste…

Luigi vorrebbe rincuorare l’amico e prova con la prima banalità che gli viene in mente. I rapporti si possono ricucire.

Certo che si possono ricucire ma tu hai mai visto un paio di pantaloni con una cucitura? è brutta da vedersi e comunque rimane una zona fragile, alla prima occasione si strappa di nuovo. Poi com’era quella storia del vaso rotto che si può incollare e che torna bello ma se lo guardi le crepe si vedono e sembrano delle cicatrici?

Si, mi sembra di averla sentita. Risponde Luigi.

Gioele prosegue. Vorrei tanto avere una macchina del tempo e tornare a quando il mio cuore non era un vaso rotto e pieno di segni.

Vuota il bicchiere, tira fuori un fazzoletto e si soffia il naso.

Luigi chiede il conto e non ha il coraggio di guardare Gioele negli occhi.

Poi si sforza e parla.

Gioele a me le cose le puoi dire anche dopo, finché non trovi la tua macchina del tempo, dimmi pure se ho sbagliato, se ti sembra che abbia mentito. Se ti ho deluso.

Gioele sembra non sentire, perso com’è nel suo delirio.

Anzi, continua a parlare.

E vorrei possedere una macchina del tempo per la cosa più fondamentale.

Luigi lo fissa attento.

Per tornare indietro dalle persone importanti che ho perso all’improvviso. Per correggere le ultime cose che ci siamo detti. Per dire quello che abbiamo taciuto. Perché non lo sappiamo, non sappiamo quando sarà l’ultima volta che abbiamo la possibilità di parlare con qualcuno. Ci salutiamo con poco interesse, ci scambiamo qualche sciocchezza. Se potessimo sapere che non ci sarà data un’altra occasione, ci diremmo ben altro.

Ecco a cosa servirebbe la macchina del tempo, ti è chiaro Luigi?

A dirci, ti voglio bene. Sei inestimabile per me. Anche se hai sbagliato le parole, le scelte, ti perdono. Sei una persona preziosa.

Poter tornare indietro per dire le cose non dette, sei convinto?

Ma Luigi non risponde.

Perché non c’è.

Gioele guarda il riflesso nella vetrina sporca di un bar chiuso da anni e ci vede sé stesso, solo, seduto a un tavolino arrugginito che nemmeno i ladri o i vandali prendono in considerazione.

Ritorna a guardare l’orizzonte. Si sta alzando un vento freddo, che punge.

Allora si alza e se ne va.

 



sabato 24 settembre 2022

Roma

 





Cinque settembre.


La ragazza dagli occhiali dorati sopra la mascherina, capelli in ordine e trucco preciso da universitaria, non stacca lo sguardo dal proprio cellulare. Mi ricorda mia figlia. L’anziano al suo fianco,  sembra irrequieto, ha appena cambiato il suo posto a sedere per la terza volta. Il giovane in completo blu e tablet, su cui legge articoli di finanza, è sceso a Milano, dove se no?

Alla mia destra, oltre il corridoio, una coppia di sudamericani e un nordafricano scambiano saluti cortesi in inglese scolastico. Alle mie spalle due voci femminili e giovanissime discutono di programmazione scolastica e di interrogazioni.

Di fronte, la bella donna con i capelli freschi di tinta rosso mogano, sonnecchia con la testa che ciondola di lato. 

Compagna di una vita e compagna dell'ennesimo viaggio.

Il verde tra Milano e Reggio Emilia è infinito e piatto. Più avanti, in Toscana, ci attendono terreni più arrotondati.

Al termine del viaggio, appena dopo mezzogiorno, ci attende Roma, lì da sempre, prima e dopo di noi.


Maremma maiala, neanche a Firenze e ho già terminato il libro di Lucarelli. Pensare che lo avevo iniziato da due giorni e pensavo di leggerlo in vacanza...


Primo giorno:  Amatriciana e Coda


Un turbinio di emozioni, ecco quello che si prova visitando una città per la prima volta. La frenesia di non vedere tutte le cose importanti, l'ansia di trovare velocemente l'orientamento e non perdersi... Il calore di amici che si prendono cura di te e la loro utilità pratica nello stabilire una scaletta di priorità.

Entriamo nelle mura di Città del Vaticano e siamo per la prima volta davanti alla basilica di San Pietro. Non sappiamo cosa dire e ci guardiamo sorridere.

Scoprire che si è capaci di piangere anche per la troppa bellezza, sopraffatti dalla grandezza di una scultura che ti toglie letteralmente il fiato.

Restare a corto di questo per i troppi scalini e per il panorama.

E la sera scaldarsi nell'accoglienza di una casa nuova, all'ombra del cupolone!


Secondo giorno: Cacio e pepe o Gricia


Quanto è bello fare i turisti in casa propria. Vestirsi con sneakers e cappellino, come un americano, fotografare tutto ma proprio tutto come un giapponese. Castel Sant'Angelo al di là del ponte, piazza di Spagna a bocca aperta, sudati sulla scala di Trinità dei monti, stanchi e accaldati e con il batticuore per la felicità. Camminare mette appetito e menomale perché nel pomeriggio ci attende la Cappella Sistina e quell'immenso capolavoro fa venire un nodo alla gola che non passa nemmeno un olivetta... appena le gambe  reggono, decidiamo di fare una capatina alla fontana di Trevi per gettare la nostra moneta, incapaci di aspettare anche solo un altro giorno!


Terzo giorno: Trippa


Il mattino ha l'oro in bocca, si esce pieni di energia e voglia di camminare.Via del Tritone, largo Chigi, via del Corso, non ci ferma più nessuno tranne l'Altare della Patria! Quello si, grande e maestoso sul suo colle capitolino. Da quel momento entrare nella Roma antica è cosa semplice.
Mettere la salsa barbeque al posto della crema idratante... penso di essere spiritoso ma qui c'è poco da scherzare. Sarebbe opportuno invece, mostrare rispetto, qui la gente moriva davvero. A mia discolpa cito il colpo sole e il caldo di un estate che non vuole mollare... Maestoso, enorme, colossale, appunto! Il Colosseo è un opera incredibile, inutile apprezzarla nei video o sulle foto. Occorre percorrerlo in lungo e in largo, salire e scendere i suoi ripidi scaloni interni e lasciarsi portare in dietro nel tempo. Appena le gambe lo permettono, dopo un attesa interminabile alla fermata di un bus che sembra non comparire mai, ci aspetta un lungo chilometro che termina direttamente con la mano infilata nella fessura della bocca della verità. Speriamo di essere stati (quasi) sempre sinceri...
Prima di rientrare attraversiamo in Tevere e siamo sull'isola Tiberina davanti alla trattoria storica "Sora Lella" che è chiusa ma la gelateria di fianco invece no.

Quarto giorno:  Carciofi alla romana


Sotto un cielo carico di nuvole scure, si parte freschi per visitare  la basilica di San Giovanni in Laterano, ennesimo luogo da ammirare in silenzio e con la bocca spalancata. la pace del chiostro interno è incantevole e rapisce l'anima. Conclusa la visita si riparte per una lunga camminata, bagnati da una pioggia mai invadente, da piazza Barberini, costeggiando la magnifica fontana di Trevi, per una volta non soffocata dai turisti a causa della pioggia, per un dedalo di vie strette arricchite da negozietti e ristorantini, fino a sbucare nella piazza che ospita il Panteon, dove una lunga fila ci suggerisce di proseguire. Passiamo davanti palazzo Madama e arriviamo bagnati dalla pioggia a piazza Navona, stupenda e lucida d'acqua, visitiamo la chiesa di Sant'Agnese, per poi proseguire fino a piazza Campo dei Fiori dove la severa statua di Giordano Bruno scruta il caratteristico mercato. Finalmente, dopo aver pranzato, riusciamo a visitare il Panteon, ennesimo bellissimo monumento in una città ricca all'esagerazione di storia e fascino. Non soddisfatti e mai domi, camminiamo in salita fino al colle del Quirinale per vedere i palazzi della politica. Anche se il presidente Mattarella non è in casa... Al rientro non posso resistere a una capatina alla libreria Feltrinelli!

La sera, con gli amici, ceniamo da Toni e Dino, una trattoria rustica che più romana non si può, dove non sei tu che scegli il cibo ma è il cibo che viene da te e il vino freddo scorre veloce e ci si perde tra i flutti. 


Quinto giorno:  Bonus, seppie e piselli


Dal momento che è stato cancellato il treno che ci avrebbe riportato a casa (e abbiamo già lasciato la stanza), dopo un momento di disperazione si ritrova la razionalità e riusciamo a comprare dei biglietti per il giorno successivo e gli amici ci lanciano un salvagente offrendoci riparo e ristoro a casa loro. Dovendo restare in città un giorno in più approfittiamo per visitare il quartiere di Trastevere che diversamente ci saremmo persi. E' stata una fortuna come può capire chi lo conosce, vagare tra i vicoli colorati e rumorosi di giovani ai tavolini, anche in pieno pomeriggio. Attraversiamo il ponte Garibaldi e rivediamo l'altro lato dell'isola Tiberina, ci troviamo sotto la sinagoga e il quartiere ebraico, ricco di storia. 

La sera ci vede stanchi e storditi dall'abbuffata di reperti antichi, monumenti, religione e mangiate. La cena con i nostri amici e calda e accogliente e ristoratrice. Quello che ci voleva per chiudere la vacanza perfetta.

Scoprire, anche grazie a loro, angoli nascosti e poco conosciuti, bere alla fontanella degli innamorati, posare davanti la fontana delle tartarughe, ballare per strada al suono di una vecchia fisarmonica, è stato emozionante e appagante. C'è chi cerca emozioni intense scalando alte vette, cercando di scoprire i limiti del proprio fisico, chi esplora gli abissi del mare, con immersioni estreme, noi ci siamo estasiati qui, salendo e scendendo scalinate tra i sette colli, in un tripudio di arte e gastronomia, storia e spiritualità e sempre tanta emozione!

Domani si torna a casa, non senza il giusto piacere. 

Ma come dice la celeberrima  canzone: 

Arrivederci Roma!





venerdì 26 agosto 2022

Linda

 







Linda si guarda allo specchio e conta le nuove rughe. 
Le conferiscono un tono da antica prof di matematica. Certo, è sempre stata una donna attraente e ora ha un viso bellissimo e un'espressione importante.

Pensa che avrebbe potuto fare l'attrice.

Avrebbe potuto anche essere in carcere oppure morta.

Questo pensiero le fa distogliere lo sguardo dallo specchio. Non vuole guardarsi mentre piange, mentre una smorfia di amarezza le accartoccia i lineamenti.

Sono trascorsi quarant'anni dalla sua vita passata ma questa non ha mai smesso di farle male, di torturare la sua anima.

Aveva appena compiuto diciotto anni ed era in rotta con suo padre. Odiava il mondo intero, per dirla tutta. I suoi erano dei borghesi rigidi e bacchettoni. Democristiani convinti, retrogradi conservatori della peggior specie, avevano fatto quattro soldi con un negozio di merceria, vendendo stoffe alle poveracce costrette a cucirsi gli abiti da sé. Alla prima occasione Linda era fuggita a cavallo di una moto, guidata da quello che le sembrava un cavaliere misterioso.

Erano gli anni dell'amore libero, della nascita di movimenti estremi e bizzarri. Aveva iniziato a fumare dapprima sigarette leggere, poi erba che le passavano da ogni parte. Aveva camminato a piedi nudi e indossato coroncine di fiori. E conosciuto diversi altri cavalieri.

Niente sembrava saziare la sua fame di vita, la sua sete di ribellione e vendetta, di cosa poi non era chiaro neppure a lei stessa.

Era entrata a far parte di un gruppo politico, convinta dal suo amico del tempo, un giovane magro e nervoso, con la folta barba e gli occhialetti che lo facevano assomigliare a John Lennon, fatto che lo rendeva ancora più nervoso. Non facevano che complottare contro lo stato dittatore, il potere forte della politica, della ricca borghesia, banchieri, notai, senatori che muovevano i fili del paese. Occorreva fare qualcosa e occorreva farlo subito.

Linda scoprì presto che i soldi per comprare fumo, generi alimentari e di conforto, provenivano da attività illegali, furti e piccole rapine. Il suo compagno giustificava quegli atti, raccontandole che le vittime erano scelte sulla base di criteri etici, persone vicine ai potenti, con posizioni politiche criticabili. Insomma gente da punire. Lei aveva bevuto quella scusa ignorando il vero significato così come ignorava l'olezzo che proveniva da tutti.

Evidentemente a quei rivoluzionari non stava simpatico il sapone.

Alla fine si era fatta convincere dagli altri a dare un contributo attivo alle attività della banda.

Era entrata con altri due in una gioielleria, lei e un suo compagno avevano finto di essere una coppia in cerca di un anello da regalare, poi avevano coperto il terzo mentre minacciava con un coltellino svizzero la commessa e le avevano impedito qualunque reazione.

Una manciata di collane e anelli, un rotolo di banconote da centomila lire e poco altro, aveva fruttato la rapina, poca roba, da tirare avanti una settimana, ma Linda si era eccitata come mai in passato e quello stato era durato diversi giorni.

Aveva chiesto e ottenuto di entrare a far parte di azioni del genere un altro paio di volte.

Nel frattempo il sosia di Lennon si era stufato e aveva abbandonato il gruppo. Ma a Linda quella vita stava piacendo. Non partecipava alle riunioni politiche, dove la partecipazione era quasi totalmente maschile ma aveva sentito parlare di alzare i toni, cominciare a fare sul serio, puntare più in alto. Lei non aveva idea di cosa si stesse organizzando nel gruppo e neppure le interessava. Come se la cosa non la riguardasse.

Un mattino la sua compagna di camera, le porse un sacchetto di carta, di quelli scuri per il pane. Le disse solo, questa è per te.

Linda prese il sacchetto, sorpresa del peso dello stesso. Infilò la mano e ci tirò fuori una pistola. Per poco non la fece cadere dalla sorpresa.

Poi la guardò non senza provare una sorta di fascino perverso.

Guardò a lungo la pistola. La soppesò e alla fine la rispose nel sacchetto.

Poco dopo uscì dalla casa, senza sapere bene cosa fare ma sapendo che non sarebbe tornata indietro.

Non voleva ritornare a casa e chiese temporaneo asilo a una cugina.

Il giorno dopo i suoi compagni tentarono di rapire un senatore. Uno di loro sparò un colpo in aria, non aveva intenzione di fare del male a qualcuno, non ne avevano mai fatto prima, ma la scorta armata privata del politico rispose al fuoco e uccise due giovani del suo gruppo. Una terza fu arrestata, era la compagna di stanza di Linda.

La notizia la riempì di sgomento e la fece piombare in uno stato di depressione da cui fece fatica a uscire. Lentamente provò a costruirsi una vita fatta di cose normali, di valori che non le avrebbero fatto mettere a rischio la propria e l’altrui incolumità, che non le facessero rischiare l’arresto.

Non tornò dai suoi genitori, le cose che si erano rotte quando era ragazza non si sarebbero messe a posto, né chiese mai il loro perdono. Pensava che semmai sarebbero stati loro due a doverlo chiedere a lei.

Non capì mai che cosa le fece posare il sacchetto con la pistola, e le fece decidere di uscire per sempre da quel giro che l’avrebbe portata alla rovina.

Anche oggi che si guarda allo specchio, con le sue rughe, la sua bellezza antica che ancora fa girare gli uomini, il suo sguardo profondo, si chiede a volte chi o cosa sia stato.

Non lo sa.

Quello che sa è che le sue azioni, i passi che fece quel giorno furono guidati da qualcuno che le voleva bene e che non avrebbe permesso che le accadesse qualcosa di brutto.

Linda non è mai diventata religiosa o credente ma sa di dover ringraziare.

Solo non sa chi.















mercoledì 10 agosto 2022

L'avvocato

 


                                                                                                       





Il secondino fa roteare il pesante mazzo di chiavi attorno al pollice.

Buriani! Urla, pensando di svegliarmi, ma io sono già sveglio da due ore.

Ha un’aria allegra, lavorare all’alba lo deve mettere di buon umore.

Da che sono in gabbia non ho mai dormito più di quattro ore per notte e sono passati quasi undici anni. Non è stata una passeggiata di salute. Il secondino è nuovo, lavora qui da non più di sei mesi. Loro sì che non ce la fanno, occorre cambiarli spesso altrimenti si bruciano. Si chiama Aldo Morozzi, ma l’ultimo che l’ha chiamato per nome è finito in infermeria con la mano rotta, meglio chiamarlo Signore.

Buriani, sveglia! A colloquio con l'avvocato tra dieci minuti!

Stavolta si che sono sorpreso. Non ho chiesto nessun colloquio. Ma se c'è una cosa che s’impara subito qui dentro è che non si discute con le guardie. Men che meno con questa.

Sì, signore! Urlo io di rimando e reprimo un sorriso quando vedo che c’è rimasto male.

Il molosso che russa sulla branda sotto la mia, non si è spostato di un millimetro. Perde bava come un mastino di centotrenta chili e più che addormentarsi, sembra che vada in coma. Forse lo è davvero in coma, visto che è diabetico e che divora tutti i dolci che trova.

Sebastiano, così si chiama il molosso, è dentro per spaccio. Organizzava da casa, con la madre ottantenne, una rete di velocissimi corrieri, che con bici e monopattini coprivano tutte le esigenze della provincia. Altro che Glovo…

Lui sconta qualcosa come quattro o cinque anni, l’ho detto, reati di droga.

Io sono dentro per omicidio.

Ci vogliono due minuti per infilare i calzoni e allacciare i bottoni della camicia azzurra, che andrebbe larga anche al molosso che continua a russare. La barba è di un giorno e non devo radermi, sciacquo il viso nel piccolo lavabo arrugginito e mi pettino i capelli appena bagnati. Poi mi metto davanti alle sbarre per mostrare la mia sollecitudine.

Evito di poggiare le mani, come hanno imparato tutti. A Morozzi piace usare il manganello. Mi vede, apre la piccola inferriata e con un cenno m’invita a uscire. Porgo i polsi e lui annuisce soddisfatto. Conosco la procedura, quindi meglio non perdere tempo. Mentre mi ammanetta, mi scruta ma non sorride, sa bene che con quelli come me è inutile la maschera. Io faccio in modo che non abbia problemi di lavoro e lui in cambio mi lascia intatte le ossa. Mi sembra un vantaggio per tutti. Per me lo è di sicuro.

Cammino guardando la schiena muscolosa della guardia. Due chiazze scure si vanno allargando dalle sue ascelle, scendendo sui fianchi fin quasi alla cintura. Sono solo le sette e fa già un caldo insopportabile. Morozzi cammina veloce, ascolta i miei passi che lo seguono come fossi il suo cagnolino. Non ha paura di voltarmi le spalle, Qui è lui quello forte, quello che ha il potere, quello che comanda. E poi ho già scontato undici anni, me ne rimangono tre scarsi, fatti di permessi per buona condotta e inserimenti in progetti per lavori sul territorio. Sono sulla strada della riabilitazione, sarei un bello stupido a cercarmi guai con un fottuto secondino.

Lui lo sa, io lo so. Discorso chiuso.

Arriviamo al primo cancello. Morozzi chiama il collega di guardia. Gli mostra il pass, attende lo scatto della serratura e mi tiene la porta come farebbe con la sua donna a un appuntamento galante. Poi ride e la risata si trasforma presto in un accesso di tosse catarrosa.

Imbocchiamo un lungo corridoio in penombra.

Chi può essere l’avvocato che ha chiesto di parlarmi e perché a un orario così strano? Il mio avvocato, se così posso definirlo, visto che non lo pago da anni, si è sentito qualcosa come cinque o sei anni fa, per una richiesta che lui mi proponeva di fare. Trasferirmi in un altro istituto di pena. Perché poi, per avvicinarmi alla famiglia? Gli ho detto di non farsi più vedere e lui ha eseguito gli ordini. Non ho un avvocato, qui non mi serve, ho tutto, il molosso che dorme sotto di me e divide cella e le giornate, i secondini, il cortile col campo da basket, un avvocato? Davvero non saprei che farmene.

Ci avviciniamo alla zona del parlatorio, non che lo usi spesso, ma ricordo bene la strada.

Morozzi mi conduce nella stanza, vicino al tavolo è seduto un tizio magro come un chiodo e pallido come un fantasma. Sul tavolo vi è poggiata una borsa di pelle. Da avvocato.

Sono l’avvocato Guidoni. L’esordio dell’omino non è dei più felici. Timido, imbarazzato, la voce di chi vorrebbe essere da tutt’altra parte.

Vorrei dirglielo ma la curiosità è più forte.

Rappresento la famiglia Butera.

Faccio per alzarmi ma Morozzi mi preme una mano grossa quanto un badile, sulla spalla e mi rimette a sedere.

Cerca di fare il bravo, mi intima Morozzi in un orecchio, sta seduto e ascolta quello che ti deve dire l’avvocato, io vado a prendere un caffè ma sono sicuro che non darai problemi. Tranquillo avvocato, Buriani qui non è una testa calda. Poi strizza gli occhi a entrambi ed esce dalla stanza.

Non mi resta che ascoltare e poi tornarmene in cella dove Sebastiano il molosso mi aspetta.

Mi chiamo Andrea Guidoni. Ricomincia a dire il giovane in giacca e cravatta. Almeno è educato.

Deve perdonare la visita senza preavviso ma così mi è stato suggerito di fare dai miei clienti. Hanno anche detto che lei non avrebbe accettato di parlare con un rappresentante della famiglia di Leonardo Butera, se lo avesse saputo in anticipo.

Leonardo Butera.

Solo sentire nominare il nome di Leonardo mi dava come una scossa dentro, dalle parti della colonna vertebrale, al centro del petto. Leonardo che era morto da dodici anni e che non aveva mai smesso di tormentarmi.

Rimorso, senso di colpa, peccato mortale. Leonardo mi aveva costretto a diventare un assassino. A diventare un galeotto dall’età di trent’anni e lo sarei rimasto per tutta la vita.

Sapevo cosa aveva da dirmi l’avvocato Guidoni. Avevo già ascoltato la stessa richiesta da altri. E avevo sempre rifiutato.

I fratelli Butera, Antonio e Maria Angela avrebbero molto piacere di incontrarla durante il suo prossimo permesso. Per loro è importante poterla vedere, dirle che hanno perdonato il suo gesto, il crimine da lei commesso. Sono molto credenti e hanno pregato tanto per lei.

Guidoni ha preso confidenza col ruolo, parla più speditamente. Sono contento per lui, la stoffa c’è e magari un giorno diventerà un avvocato di grido. Ha una specie di tic, strizza ripetutamente l’occhio sinistro e gli si forma una ragnatela di rughe. Ci dovrà lavorare ma è giovane, avrà tempo.

Fa una pausa, mi crede meditabondo ma io osservo solo il suo occhio. Riprende.

Comprendo il suo timore ma le posso assicurare che nell’animo dei fratelli di Leonardo non c’è nessun intento di vendetta. Vorrebbero solo che lei sentisse il loro perdono.

Resto in silenzio.

Dopotutto l’agente Morozzi mi ha intimato di ascoltare. Non di dare una risposta. L’avvocato rimane in attesa ma il mio silenzio lo atterrisce. Non è preparato, penso io, non sa cosa fare ed io non ho intenzione di aiutarlo. Deve capire che venire in carcere a parlare con un omicida non è una passeggiata, non gli offrirò un aperitivo.

Non ha niente da chiedermi? Prova lui speranzoso. Io faccio cenno di si con il capo. Lui spalanca gli occhi, quasi famelico ed io riconosco di nuovo la stoffa dell’avvocato.

Vorrei tornare in cella. Mi chiama il secondino, per favore?

La delusione del giovane avvocato Andrea Guidoni mi lascia indifferente.

Mentre torno in cella, scortato da Morozzi che ora sembra piuttosto annoiato, penso che vada bene così. Ho fatto quello che ho fatto perché non avevo scelta. Leonardo Butera non mi ha dato alternative. Forse è stato un errore, anzi, di sicuro lo è stato. Pagherò quell’errore, non solo con la pena, lo pagherò tutta la vita.

Non è affare che riguardi i fratelli devoti.

Non voglio il loro perdono. Non lo merito.

Non li incontrerò mai.

Sarò sempre Buriani, quello che si è fatto il carcere per omicidio e nessun perdono potrà cancellare questo.

Dietro l’inferriata, Sebastiano il molosso mi chiede con voce gentile, da innamorato, se ho una sigaretta.

Il suo sorriso marcio fa sparire temporaneamente la faccia di Leonardo dai miei pensieri.

Fino al prossimo permesso.







sabato 23 luglio 2022

piazza dei Sogni

 






In piazza dei Sogni c’è spesso vento.

Ma il vento è una cosa buona.

Sposta le foglie sui cubetti di porfido, gira le pagine dei libri dimenticati sulle panchine, trasporta i sogni delle persone che passano e si riflettono sulle vetrine dei negozi.

Il vento non da fastidio, qui, in piazza dei Sogni.

Preparo le sedie pieghevoli, davanti alla piccola libreria. Cinque file con quattro sedie da un lato, altri venti posti dall’altro e in mezzo un corridoio immaginario.

Sedie bianche, di legno, che andrebbero bene per un ricevimento di nozze in un giardino privato o su una spiaggia. Credo che basteranno, quaranta posti sono più che sufficienti davanti una libreria che ospita talvolta, autori che non conosce nessuno, salvo i propri parenti.

Oggi è il turno di una poetessa, una donna semplice e limpida che scrive versi brevi, a volte pungenti, che vanno dritto al cuore. Li ho letti.

Leggo sempre le opere degli autori che ospito, non si sa mai.

I titoli possono trarre in inganno e le copertine sanno essere illusorie, così curate e variopinte. Quello che importa è il contenuto ma spesso oltre al titolo roboante e all’immagine affascinante, il contenuto manca. Meri elenchi di frasi. Nomi, verbi, aggettivi, articoli e preposizioni, quando va meglio, come oggi, qualche azzardo a similitudini, timide metafore  e discreti ossimori.

Le figure retoriche utilizzate dalla poetessa sono educate e gentili, come lei. E’ una persona garbata, che non vuole invadere lo spazio altrui, sono sicuro che stabilire di presentare il suo libretto in pubblico sia stata una decisione sofferta.

Lo spazio davanti alla libreria  è esiguo e immagino che faccia gola al gestore del bar di fronte, raddoppierebbe i tavolini del dehor ma la vita non è fatta solo di caffè e aperitivi.

Mentre termino di sistemare le sedie, entrano due potenziali clienti. Faccio loro cenno di essere a disposizione e li lascio liberi.

Il cliente di una libreria non gradisce pressioni, preferisce girovagare tra i generi, sfogliare i tomi più pesanti, leggere quante più possibili quarte di copertina, dare anche una sbirciata al prezzo, se si tratta di un regalo, perché questo sia proporzionato al destinatario… quando è trascorso il giusto tempo, allora entro e mi sistemo discreto, dietro alla cassa. Loro apprezzano la libertà concessa e ricambiano comprando due tascabili in offerta. Li invito alla presentazione che si terrà nel pomeriggio e mi rispondono che forse verranno. Non so se li rivedrò ma almeno sono stati gentili.

La mia poetessa avrà il suo pubblico, se la sua famiglia si dimostrerà magnanima. Del resto è risaputo che nel nostro paese sono in molti a scrivere ma non legge quasi più nessuno.

Forse venderà qualche copia ma sono certo che non le importi.

Avrà il suo posto in vetrina, per qualche tempo, poi tornerà a scrivere nella penombra anonima della sua camera.

Ho scelto Trieste ma avrei potuto finire in qualsiasi altra cittadina. Non c’è un motivo se non il caso. Per quanti anni ho sognato un posto così.

Una piccola libreria, un negozio modesto che basta appena a coprire le proprie spese. Ma quanto ho sognato di essere libero, chiuso in una cella buia, e questo sogno mi ha mantenuto in vita.

Mi sento fortunato. Ho i miei libri, viaggi tascabili, contenitori di universi e scrigni pieni di magie.

Ho questo angolo ventoso e il sole che sbatte sulle sedie bianche.

Ho una poetessa che verrà a leggere i suoi versi.

C’è spesso il vento in piazza dei Sogni.

Un vento che ha il dolce gusto della libertà.

 




mercoledì 29 giugno 2022

This is a man's world

 





"This is a man's world"


Questo è un mondo di uomini, sembra un grido di disperazione, ma la voce di James Brown, proveniente dal 1966, non è mai stata così graffiante, così attuale!


Perché è vero, baby, questo è un mondo di uomini.

Con buona pace dei perbenisti, degli inclusivi, dei moderati.


Questo è il mondo che ci siamo costruiti, il mondo in cui gli uomini creano e distruggono. Stringono patti e fanno guerre.

Il mondo in cui uomini fanno i soldi stipulando affari con altri uomini, sordi alle voci indignate e agli slogan, ciechi alle marce ai femminismi.

Indifferenti al dolore e assuefatti alle violenze e ai soprusi.


Da “Non è un paese per vecchi”, il romanzo di McCarthy allo stereotipo non è un gioco per signorine! il passo è breve e ci riporta indietro di decenni, nemmeno tanto lontano, quando alle donne era concesso di parlare solo dopo il consenso del padre o del marito!


E dunque?

Questo è il mondo che vogliamo?

Lo ripeto, è veramente questo il mondo che vogliamo?


Siamo del 2022 o negli anni venti del ventesimo secolo?

E’ in questo mondo che vogliamo far vivere le nostre mogli e le nostre sorelle?

E’ davvero questa l’inaccettabile eredità che vogliamo lasciare alle nostre figlie?

Lasciamo che James Brown canti forte dal passato, perché lo fa con maestria e anche perché lui aveva già trovato la risposta:


But it wouldn't be nothing, nothing, not one little thing, without a woman or a girl…


anche questo mondo non sarebbe niente, niente, non una piccola cosa, senza una donna o una ragazza da amare.


E dalla quale essere amati.