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https://www.lafeltrinelli.it/dalla-tastiera-alla-ribalta-libro-giorgio-papa/e/9788892394650?queryId=9b872d8e4c4f57c671c94e9ac11f8984
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Schröder cammina con
passo pesante e deciso. Non ha paura d’inciampare nonostante i suoi settanta
anni. Non ha paura di scivolare, nonostante la neve copra il marciapiede
sudicio.
Schröder ha solo un
pensiero che lo angustia.
È dicembre.
Un bambino lo osserva
dall’altra parte della strada e tira con la manina, la manica di sua madre. Lei
non lo degna di attenzione, mentre continua a starnazzare al cellulare. La
vetrina alle spalle dei due è piena d’inutile ciarpame. Paccottiglia dorata e
luccicante, che sarà scartata da persone annoiate e andrà presto a prendere
polvere sui ripiani delle cantine.
Schröder procede senza
curarsi della gente che deve evitarlo per non esserne urtata, di quelli che si
girano a guardarlo storto, degli insulti che ogni tanto giungono alle sue
orecchie. Perché dovrebbe curarsene, in fondo sono sconosciuti e a lui non importa
neanche dei parenti.
Oggi se ne sarebbe
stato al caldo della sua stanza, sulla poltrona dalla stoffa lisa e puzzolente
di antichi peti, a leggersi il giornale ma purtroppo è dicembre. Non che se ne
sia scordato, lo sa già da un pezzo ma ormai siamo a metà del mese e non può
più far finta di niente.
Per questo lo vediamo
camminare col suo modo risoluto di fare le cose, tipico del vecchio acido qual
è, a camminare, quasi a correre, sul marciapiede innevato di fresco.
La voce di suo figlio
gli risuona ancora nella testa. “Lo sai che ci teniamo ad averti a casa, il
giorno di Natale, anche Roberta, sicuro. Non è importante che porti un regalo,
già la tua presenza lo sarà”.
Si ferma di botto! Per
poco non si accorgeva del semaforo rosso e stava per attraversare l’incrocio,
immerso nei suoi pensieri.
Certo, sarebbe stato un
vero colpo di fortuna, pensa Schröder, farmi investire, battere la testa ed
entrare in coma. Dormire per tutto il periodo delle feste e svegliarmi in pieno
anno nuovo. Magari in primavera. Gli scappa mezza risata ad alta voce e una
ragazzina lo guarda come si guardano i mentecatti.
Schröder si sta
dirigendo al centro commerciale. Altro luogo che odia con tutte le sue forze.
La sola cosa positiva è che le commesse sono troppo impegnate a passare i
prodotti sul nastro e non si prendono la briga di guardare negli occhi i
clienti. E poi basta una telefonata e gli consegnano la spesa a casa.
Schröder non ha tempo
da perdere con l’internet o come diavolo si chiama quella roba li.
Così anche quest’anno
gli toccherà di passare il pranzo di Natale con quell’inetto di suo figlio e
quella sciacquetta della moglie, Roberta. Bella coppia. Li ha visti nemmeno
tanto tempo prima, sarà stato fine settembre o ottobre. Ha dovuto firmare dei
documenti della banca e Giacomo l’ha voluto accompagnare a tutti i costi.
È stato un pomeriggio impegnativo.
Un taxi gli sarebbe costato di più ma sarebbe stato più piacevole. Giacomo era
andato a prenderlo e gli aveva fatto la sorpresa della presenza di Roberta, quell’acciuga
ossuta. Tutto il tempo aveva dovuto rintuzzare continui inviti a essere più
presente nelle loro vite, a partecipare a qualche domenica gioiosa in famiglia,
magari a giocare a carte.
A Schröder il gioco
delle carte faceva schifo.
Ma più ancora, gli dava
il voltastomaco passare un giorno con quei due e il padre di lei, Antonio, che
non vedeva l’ora di fare l’amicone e di dargli sui nervi col suo sgradevole alito
e le sue odiose pacche sulla schiena.
Che fosse Natale o
meno.
Sentiva il duro del
portadocumenti nella tasca interna del cappotto. Il libretto degli assegni
avrebbe parlato per lui. Già si vedeva trattare con il confuso commesso, che
non avrebbe capito il suo gioco al rialzo.
“Non avete qualcosa di
più costoso?” il garzone avrebbe sgranato gli occhi e questo lo avrebbe fatto
somigliare a una triglia. “Vorrei un articolo più ricercato, se non ne avete,
andrò da un'altra parte”!
Nessuno si era mai
fatto sfuggire un cliente come lui, anche se si ostinava a impiegare quell’antiquato
sistema di pagamento.
L’anno prima era venuto
a sapere che l’amicone del consuocero aveva acquistato come regalo di Natale
per i ragazzi, un frullatore. Schröder aveva riso per un’ora, poi si era
organizzato e aveva scelto, nel negozio più caro della città, una specie di
mostro, un robot che cuoceva, impastava, friggeva, sminuzzava, omogeneizzava,
pastorizzava, surgelava ogni tipo di alimento. Lo avevano solo alcuni
ristoranti stellati e pochi chef lo sapevano usare. Certo era costato la sua
cifretta ma il Natale era un gioco al massacro e Antonio avrebbe capito che non
ci si mette contro Schröder, mai, nemmeno a Natale!
Quest’anno l’amicone si
era impegnato e la sua scelta era caduta su un computer portatile, utile sul
lavoro e in casa, Di certo aveva salassato il suo conto. Antonio aveva un
difetto oltre all’alito orribile, amava chiacchierare e Schröder si era fatto
confidare la notizia.
Non sapeva ancora cosa
avrebbe acquistato in uno dei lussuosi negozi del centro commerciale ma di
sicuro il suo regalo avrebbe fatto presto dimenticare l’utilità di un banale
laptop.
Attraversò il
parcheggio e nell’entrare non si accorse che aveva calpestato qualcosa. Un
pezzo di cartone si era appiccicato alla suola bagnata.
Una debole voce
protestava e lamentava la proprietà del cartone.
Schröder lo staccò
dalla scarpa. Vi lesse una scritta.
A ME BASTA UNA MONETINA. PER TE LA PREGHIERA
PER UN NATALE SANTO.
Schröder guardò alle
sue spalle.
Un omino segaligno quanto
lui ma sporco e puzzolente, reclamava il suo messaggio sul cartone. Schröder si
chiese come quell’essere avesse la supponenza, il coraggio di poter pregare per
qualcuno.
Represse una smorfia di
disgusto per l’odore di urina che proveniva dall’uomo e diede un calcio al
cartone, poi un altro, fino a farlo finire in una grata del parcheggio
sotterraneo.
Il barbone si girò con
il capo chino e se ne tornò al suo posto, sugli stracci.
Aveva capito, pensò Schröder,
che non era il caso di mettersi contro di lui.
Che fosse Natale o
meno.
Visti dalla copertina,
tutti i libri felici si assomigliano. Quando si aprono e si legge l’incipit,
ognuno è felice o meno a modo suo.
Questo, senza voler
mancare di rispetto al celebre Tolstoj, rende ogni libro unico.
La prima pagina è la
più difficile. La più complicata. La più ostica.
La prima pagina è il
terrore di ogni scrittore. Nessuno è immune, non esistono vaccini che
proteggano dal terribile morbo chiamato blocco.
La mia giornata è una
pagina bianca.
Ogni sera, quando gli
occhi si chiudono per la stanchezza, comprendo di avere attraversato un luogo
mai visitato prima. Ogni giorno è nuovo, è diverso. È una foresta fitta e
oscura, un mare a volte burrascoso e nero, un’isola misteriosa, con un tesoro
al termine di un arcobaleno.
Ogni giorno è una
pagina da riempire con creatività, con fantasia, con pazienza…
Il lavoro da fare è
molto, ponti da costruire, strade da riparare, luci da accendere. Ci sono
persone da connettere e riconnettere, argomenti da spiegare, libri da leggere e
amici da ascoltare.
La sera la pagina è
piena. Ci troviamo errori cancellature, è vero, ma ci sono anche frasi riuscite
meglio, parole eleganti e appropriate, piene di amore e di speranza.
Attraversiamo le nostre
giornate come si valicano luoghi insoliti, col cuore pieno di timore e
incertezza ma anche colmo di curiosità e gratitudine per i doni che ogni giorno
la vita ci regala.
Così, spaventato,
incerto ma grato chiudo gli occhi sereno e attendo il domani.
Per scrivere la pagina
successiva.
Era
una notte buia e tempestosa... la suggestione della scrittura mi riporta non
solo al celebre bracchetto Snoopy disegnato da Schulz, sul tetto della cuccia,
alle prese con la sua personale lettera
22, ma anche ad altre storie. Le storie della vita reale che si dipana, le
storie che spingono per essere raccontate.
Storie
che sono a volte autobiografiche, altre fantastiche o misteriose. Racconti che
sono riflessi di verità oppure parto della fantasia.
E
questa suggestione conduce presto alla magia che trasforma le storie narrate e
le rende vive: il teatro.
Quando,
per la prima volta, i dialoghi da me scritti sulla tastiera sono stati recitati
da attori in carne e ossa, su un palco, ho provato una sensazione come di un
miracolo. Stavo assistendo al mio personale Golem, fatto di lettere e
punteggiatura, che si stava sollevando e camminava sulle sue gambe, dotato di
vita.
È stato amore immediato.
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/642920/dalla-tastiera-alla-ribalta/
Un giorno, stavo
passeggiando con un mio amico e attraversando la strada sulle strisce pedonali,
ho sollevato la mano e ho sorriso, ringraziando l’automobilista che si era
bloccato per farci passare.
L’uomo ha ricambiato
con un’alzata appena accennata delle dita, lo scambio muto non manca mai di
darmi soddisfazione.
Il mio amico ha
iniziato scuotere la testa e con tono contrariato mi ha detto:
“Non sei tenuto a
ringraziare. Ai sensi del codice stradale lui si deve fermare davanti alla
presenza di pedoni sulle strisce!”
Io non rispondo ma lo
guardo con stupore. C’è qualcosa che non capisco, qualcosa che stona.
Lui si premura di
spiegare:
“Questo non sarà mai un
paese civile, se si deve ringraziare uno che segue il codice e si ferma a un
passaggio pedonale”.
Sembra tutto
soddisfatto della precisazione.
Io replico:
“Sì, ma questo non sarà
mai un paese educato se nessuno sarà capace di dire grazie.”
La risposta non sembra
piacergli.
“Cerca di capire, provo
a chiarire mentre camminiamo, oggi tutti conoscono molto bene quali sono i
propri diritti, chiunque può elencare ciò che gli spetta, nei più diversi
ambiti ma la maggioranza sembra dimenticare il proprio dovere. Ci rivolgiamo
agli altri senza usare, non dico amore e tantomeno tenerezza ma almeno empatia.
La persona dietro allo sportello è considerata un’estensione del computer e se
non soddisfa velocemente le nostre esigenze siamo pronti a sbranarla. Davanti
agli intoppi siamo pronti a diventare scortesi e aggressivi e non ci facciamo
problemi a insultare uno sconosciuto che ha l’unica colpa, quella di non
piacerci e di averci incontrato nel giorno sbagliato”.
Il mio amico non si
convince. “Che cosa devo fare se trovo un incompetente? Ringraziare?”
Io sorrido, il sarcasmo
e l’ironia non sono il suo forte ma capisco le sue obiezioni.
“Per esempio si
potrebbe salutare, dimostrare che lo riconosciamo come essere umano e che in
quanto tale è fallibile…”.
“Sì, e ci faccio anche
amicizia…”
“Se vuoi, puoi farlo…
io suggerivo solo un briciolo di compassione”.
Lui ormai è distratto,
pensa ad altro. Capisco che vuole cambiare argomento. Ecco che all’improvviso l’argomento
arriva sotto forma di feci canine che lui non accorgendosi, calpesta. Inizia a
sbraitare un elenco d’imprecazioni, non necessariamente in ordine alfabetico. A
me scappa da ridere e lui mi guarda malissimo.
“Che cosa vuoi farci,
ormai le strade e gli spazi verdi sono diventati una vasta toilette per
animali. Anche questa è questione di educazione, proprio come quelle auto ferme
in doppia fila che stanno bloccando l’autobus e quei monopattini messi di
traverso sul marciapiede, che abbiamo dovuto scavalcare…”.
Lui è arrabbiatissimo e
sfrega ripetutamente la suola a terra. “Quindi questa è colpa delle persone
allo sportello che perdono la pazienza? Oppure di chi ti attraversa davanti al
muso dell’auto e non ti degna di uno sguardo?”
Io sorrido. Forse non è
il momento adatto.
Forse dovrei attendere
che abbia le scarpe pulite.
Ma non posso aspettare,
penso che forse sì, un fenomeno sia figlio dell’altro. Che non ci siano diritti
senza doveri. Che bisognerebbe trattarci reciprocamente con più umanità e
rispetto. Che l’educazione vada insegnata ai più piccoli ma anche gli adulti
possono imparare.
Che l’empatia può
essere un rimedio.
Che l’educazione può
essere una soluzione.
“Certo che i cani sono
carini ma la roba che hai sotto la scarpa manda un odore…”.
Il mio amico scoppia a
ridere, mi dà una pacca e si gira.
Sono certo che per lui
esista salvezza.
Piove.
Oggi è giornata da
nutella.
Mangiata col cucchiaio
da minestra, direttamente dal barattolo.
O con i grissini.
O con le dita.
Un chilo di nutella per
addolcire la domenica.
Sono solo, mia moglie
sfoga il suo trauma da cambiamento in corso, con il lavoro e sono giorni che
pulisce e lustra tutto quello che le passa tra le mani, in tre case diverse.
Io scelgo la tastiera
di questo tablet, anche se mi fa impazzire…
Per farmi ancora più
male, metto sul piatto il vinile di Dalla, quello con "La sera dei miracoli" e presto mi accorgo che mi mette
voglia di piangere. Così lo tolgo.
Perché dovrei piangere,
mi dico, dopotutto sono felice. Cambiare casa è una svolta positiva, traslocare
in un bell'appartamento, comprare mobili alla moda, moderni elettrodomestici, è
quello che tutti sognano.
E andare a convivere
col compagno che si è scelto, è il coronamento del sogno.
Convivere: vivere con.
Ecco, è chiaro il
significato del termine. Ma implica un'altra cosa. Implica con chi non vivere
più. E oggi tu sei uscita da casa, portando il tuo cuscino, per vivere col tuo
compagno, sia chiaro, di questo sono contento ma da qualche parte del mio cuore
una voce ripete con petulanza: da oggi tua figlia non vive più con te, da
stasera non dorme più nella tua casa.
Per avere la certezza
che la voce non stia mentendo, vado a vedere la cameretta e trovandola mezza
vuota, capisco che è tutto vero.
Ci sono già passato, mi
dico, non è così drammatico, la prima volta non è stata una passeggiata ma è
andata bene. Col senno del poi sono sereno.
Dunque, perché questa
inquietudine?
Sono contento, perché
so che siete felici e la consapevolezza, in quest’attimo eterno di solitudine,
mi conforta e mi rende salde le gambe.
Lo so che siete felici,
non serve altro.
Allora mi asciugo
l'angolo dell'occhio, ripongo tra gli altri il disco di Lucio Dalla, apro la
dispensa e tiro fuori il barattolo.
Oggi piove e ci vuole
la nutella.
Ce ne vuole tanta.
Come vorrei…
Gioele ha lo sguardo
alcolico, diretto all’orizzonte. Forse oltre.
Come vorrei, cosa? Che
cosa vorresti? Chiede divertito e un po’ spazientito Luigi.
Come vorrei avere una
macchina del tempo.
Gioele sgrana gli occhi e
gli si dilatano le pupille. Come se avesse ricevuto un'illuminazione proprio in
quel momento.
Luigi sa che quando
l’amico è al terzo prosecco, diventa una fonte. Di idee geniali come di
cazzate, ma il tempo per ascoltarle lo si trova sempre.
E cosa te ne faresti? Lo
stuzzica, alzando la mano per attirare l’attenzione del cameriere.
Gioele resta in silenzio
un momento, cercando forse di trovare le parole giuste.
Luigi tace. Sa che il
cervello dell’amico ormai è in moto, basta aspettare.
Cos’altro ci puoi fare
con una macchina del tempo, Luigi, mi sembra ovvio no? Tornerei indietro nel
tempo, ogni volta che ne avrei bisogno.
Giusto, precisa Luigi,
cos'altro ci puoi fare con una macchina del tempo…
Il cameriere arriva con
due flûte di vino bianco perlato e anche lui pare annuire alla logicità
dell’asserzione.
E quando ne avresti
bisogno, se è lecito? Rincara Luigi, con sincera curiosità, mentre solleva il
bicchiere per l’ennesimo giro.
Gioele beve un sorso, poi
la sua espressione diventa triste e solenne.
Quando qualcuno mi
abbandona. Quando qualcuno inizia a poter fare a meno di me. Di certo sarebbe
qualcuno che consideravo un amico, per chi sennò. Tornerei immediatamente ai
tempi d’oro, quando ci si divertiva insieme, quando non si faceva niente se non
era coinvolto pure quell’altro. Tornerei a quei giorni e lo ammonirei… gli
tirerei un pugno sul naso, non di quelli cattivi ma che fanno solo un po’male.
Gli direi, sveglia imbecille, attento che questi giorni finiranno se non stiamo
attenti, stai all’erta che le amicizie sono come certe piante delicate, se non
dai acqua o se ne dai troppa, muoiono.
Ah, riesce solo a dire
Luigi.
Gioele torna a guardare
l’orizzonte ma stavolta attraverso il bicchiere di vino.
Poi prosegue.
E tornerei indietro ogni
volta che una persona mi ferisce e mi delude. Tornerei al giorno prima e gli
direi, attento che quello che hai intenzione di fare mi ferirà, e quello si
stupirebbe che io sappia in anticipo le sue intenzioni. Allora gli direi,
guarda che tu sei una persona preziosa per me, un tuo tradimento mi farebbe
troppo male, non lo sopporterei…
La voce di Gioele sembra
farsi più forte, nonostante il vino.
Perché hai notato? Chi è
che ci ferisce e di delude meglio delle persone più care, non credi?
Luigi resta mutacico, non
perché non sappia cosa dire ma perché ha sperimentato sulla sua pelle ciò che
l’amico gli sta dicendo.
E quando scopro che
qualcuno mi ha mentito o non mi ha detto tutta la verità, tornerei nel passato
per dichiarare che io conosco come stanno le cose, che so bene quello che
succede e che può risparmiarsi di spiegare. Passerei per il saputello di turno,
certo. Ma eviterei all’altro di mentirmi. E io non sopporto quando qualcuno mi
mente.
Luigi sente che nel tono
dell’amico non c’è solo euforia o tristezza alcolica, ma un timbro malinconico
che mai aveva percepito prima. Sente le lacrime salire verso la superficie
degli occhi.
Ho perso amici, caro
Luigi, e ho rotto rapporti importanti, per colpa di quella fottuta macchina del
tempo che non esiste…
Luigi vorrebbe rincuorare
l’amico e prova con la prima banalità che gli viene in mente. I rapporti si
possono ricucire.
Certo che si possono
ricucire ma tu hai mai visto un paio di pantaloni con una cucitura? è brutta da
vedersi e comunque rimane una zona fragile, alla prima occasione si strappa di
nuovo. Poi com’era quella storia del vaso rotto che si può incollare e che
torna bello ma se lo guardi le crepe si vedono e sembrano delle cicatrici?
Si, mi sembra di averla
sentita. Risponde Luigi.
Gioele prosegue. Vorrei
tanto avere una macchina del tempo e tornare a quando il mio cuore non era un
vaso rotto e pieno di segni.
Vuota il bicchiere, tira
fuori un fazzoletto e si soffia il naso.
Luigi chiede il conto e
non ha il coraggio di guardare Gioele negli occhi.
Poi si sforza e parla.
Gioele a me le cose le
puoi dire anche dopo, finché non trovi la tua macchina del tempo, dimmi pure se
ho sbagliato, se ti sembra che abbia mentito. Se ti ho deluso.
Gioele sembra non
sentire, perso com’è nel suo delirio.
Anzi, continua a parlare.
E vorrei possedere una
macchina del tempo per la cosa più fondamentale.
Luigi lo fissa attento.
Per tornare indietro
dalle persone importanti che ho perso all’improvviso. Per correggere le ultime
cose che ci siamo detti. Per dire quello che abbiamo taciuto. Perché non lo
sappiamo, non sappiamo quando sarà l’ultima volta che abbiamo la possibilità di
parlare con qualcuno. Ci salutiamo con poco interesse, ci scambiamo qualche sciocchezza.
Se potessimo sapere che non ci sarà data un’altra occasione, ci diremmo ben
altro.
Ecco a cosa servirebbe la
macchina del tempo, ti è chiaro Luigi?
A dirci, ti voglio bene.
Sei inestimabile per me. Anche se hai sbagliato le parole, le scelte, ti
perdono. Sei una persona preziosa.
Poter tornare indietro
per dire le cose non dette, sei convinto?
Ma Luigi non risponde.
Perché non c’è.
Gioele guarda il riflesso
nella vetrina sporca di un bar chiuso da anni e ci vede sé stesso, solo, seduto
a un tavolino arrugginito che nemmeno i ladri o i vandali prendono in
considerazione.
Ritorna a guardare
l’orizzonte. Si sta alzando un vento freddo, che punge.
Allora si alza e se ne
va.
Cinque settembre.
La ragazza dagli occhiali dorati sopra la mascherina, capelli in ordine e trucco preciso da universitaria, non stacca lo sguardo dal proprio cellulare. Mi ricorda mia figlia. L’anziano al suo fianco, sembra irrequieto, ha appena cambiato il suo posto a sedere per la terza volta. Il giovane in completo blu e tablet, su cui legge articoli di finanza, è sceso a Milano, dove se no?
Alla mia destra, oltre il corridoio, una coppia di sudamericani e un nordafricano scambiano saluti cortesi in inglese scolastico. Alle mie spalle due voci femminili e giovanissime discutono di programmazione scolastica e di interrogazioni.
Di fronte, la bella donna con i capelli freschi di tinta rosso mogano, sonnecchia con la testa che ciondola di lato.
Compagna di una vita e compagna dell'ennesimo viaggio.
Il verde tra Milano e Reggio Emilia è infinito e piatto. Più avanti, in Toscana, ci attendono terreni più arrotondati.
Al termine del viaggio, appena dopo mezzogiorno, ci attende Roma, lì da sempre, prima e dopo di noi.
Maremma maiala, neanche a Firenze e ho già terminato il libro di Lucarelli. Pensare che lo avevo iniziato da due giorni e pensavo di leggerlo in vacanza...
Primo giorno: Amatriciana e Coda
Un turbinio di emozioni, ecco quello che si prova visitando una città per la prima volta. La frenesia di non vedere tutte le cose importanti, l'ansia di trovare velocemente l'orientamento e non perdersi... Il calore di amici che si prendono cura di te e la loro utilità pratica nello stabilire una scaletta di priorità.
Entriamo nelle mura di Città del Vaticano e siamo per la prima volta davanti alla basilica di San Pietro. Non sappiamo cosa dire e ci guardiamo sorridere.
Scoprire che si è capaci di piangere anche per la troppa bellezza, sopraffatti dalla grandezza di una scultura che ti toglie letteralmente il fiato.
Restare a corto di questo per i troppi scalini e per il panorama.
E la sera scaldarsi nell'accoglienza di una casa nuova, all'ombra del cupolone!
Secondo giorno: Cacio e pepe o Gricia
Quanto è bello fare i turisti in casa propria. Vestirsi con sneakers e cappellino, come un americano, fotografare tutto ma proprio tutto come un giapponese. Castel Sant'Angelo al di là del ponte, piazza di Spagna a bocca aperta, sudati sulla scala di Trinità dei monti, stanchi e accaldati e con il batticuore per la felicità. Camminare mette appetito e menomale perché nel pomeriggio ci attende la Cappella Sistina e quell'immenso capolavoro fa venire un nodo alla gola che non passa nemmeno un olivetta... appena le gambe reggono, decidiamo di fare una capatina alla fontana di Trevi per gettare la nostra moneta, incapaci di aspettare anche solo un altro giorno!
Quarto giorno: Carciofi alla romana
Sotto un cielo carico di nuvole scure, si parte freschi per visitare la basilica di San Giovanni in Laterano, ennesimo luogo da ammirare in silenzio e con la bocca spalancata. la pace del chiostro interno è incantevole e rapisce l'anima. Conclusa la visita si riparte per una lunga camminata, bagnati da una pioggia mai invadente, da piazza Barberini, costeggiando la magnifica fontana di Trevi, per una volta non soffocata dai turisti a causa della pioggia, per un dedalo di vie strette arricchite da negozietti e ristorantini, fino a sbucare nella piazza che ospita il Panteon, dove una lunga fila ci suggerisce di proseguire. Passiamo davanti palazzo Madama e arriviamo bagnati dalla pioggia a piazza Navona, stupenda e lucida d'acqua, visitiamo la chiesa di Sant'Agnese, per poi proseguire fino a piazza Campo dei Fiori dove la severa statua di Giordano Bruno scruta il caratteristico mercato. Finalmente, dopo aver pranzato, riusciamo a visitare il Panteon, ennesimo bellissimo monumento in una città ricca all'esagerazione di storia e fascino. Non soddisfatti e mai domi, camminiamo in salita fino al colle del Quirinale per vedere i palazzi della politica. Anche se il presidente Mattarella non è in casa... Al rientro non posso resistere a una capatina alla libreria Feltrinelli!
La sera, con gli amici, ceniamo da Toni e Dino, una trattoria rustica che più romana non si può, dove non sei tu che scegli il cibo ma è il cibo che viene da te e il vino freddo scorre veloce e ci si perde tra i flutti.
Quinto giorno: Bonus, seppie e piselli
Dal momento che è stato cancellato il treno che ci avrebbe riportato a casa (e abbiamo già lasciato la stanza), dopo un momento di disperazione si ritrova la razionalità e riusciamo a comprare dei biglietti per il giorno successivo e gli amici ci lanciano un salvagente offrendoci riparo e ristoro a casa loro. Dovendo restare in città un giorno in più approfittiamo per visitare il quartiere di Trastevere che diversamente ci saremmo persi. E' stata una fortuna come può capire chi lo conosce, vagare tra i vicoli colorati e rumorosi di giovani ai tavolini, anche in pieno pomeriggio. Attraversiamo il ponte Garibaldi e rivediamo l'altro lato dell'isola Tiberina, ci troviamo sotto la sinagoga e il quartiere ebraico, ricco di storia.
La sera ci vede stanchi e storditi dall'abbuffata di reperti antichi, monumenti, religione e mangiate. La cena con i nostri amici e calda e accogliente e ristoratrice. Quello che ci voleva per chiudere la vacanza perfetta.
Scoprire, anche grazie a loro, angoli nascosti e poco conosciuti, bere alla fontanella degli innamorati, posare davanti la fontana delle tartarughe, ballare per strada al suono di una vecchia fisarmonica, è stato emozionante e appagante. C'è chi cerca emozioni intense scalando alte vette, cercando di scoprire i limiti del proprio fisico, chi esplora gli abissi del mare, con immersioni estreme, noi ci siamo estasiati qui, salendo e scendendo scalinate tra i sette colli, in un tripudio di arte e gastronomia, storia e spiritualità e sempre tanta emozione!
Domani si torna a casa, non senza il giusto piacere.
Ma come dice la celeberrima canzone:
Arrivederci Roma!
In piazza dei Sogni c’è
spesso vento.
Ma il vento è una cosa
buona.
Sposta le foglie sui
cubetti di porfido, gira le pagine dei libri dimenticati sulle panchine, trasporta
i sogni delle persone che passano e si riflettono sulle vetrine dei negozi.
Il vento non da
fastidio, qui, in piazza dei Sogni.
Preparo le sedie
pieghevoli, davanti alla piccola libreria. Cinque file con quattro sedie da un
lato, altri venti posti dall’altro e in mezzo un corridoio immaginario.
Sedie bianche, di
legno, che andrebbero bene per un ricevimento di nozze in un giardino privato o su una spiaggia.
Credo che basteranno, quaranta posti sono più che sufficienti davanti una
libreria che ospita talvolta, autori che non conosce nessuno, salvo i propri
parenti.
Oggi è il turno di una
poetessa, una donna semplice e limpida che scrive versi brevi, a volte pungenti,
che vanno dritto al cuore. Li ho letti.
Leggo sempre le opere
degli autori che ospito, non si sa mai.
I titoli possono trarre
in inganno e le copertine sanno essere illusorie, così curate e variopinte.
Quello che importa è il contenuto ma spesso oltre al titolo roboante e all’immagine
affascinante, il contenuto manca. Meri elenchi di frasi. Nomi, verbi,
aggettivi, articoli e preposizioni, quando va meglio, come oggi, qualche
azzardo a similitudini, timide metafore e discreti ossimori.
Le figure retoriche
utilizzate dalla poetessa sono educate e gentili, come lei. E’ una persona garbata,
che non vuole invadere lo spazio altrui, sono sicuro che stabilire di
presentare il suo libretto in pubblico sia stata una decisione sofferta.
Lo spazio davanti alla
libreria è esiguo e immagino che faccia
gola al gestore del bar di fronte, raddoppierebbe i tavolini del dehor ma la
vita non è fatta solo di caffè e aperitivi.
Mentre termino di sistemare
le sedie, entrano due potenziali clienti. Faccio loro cenno di essere a
disposizione e li lascio liberi.
Il cliente di una
libreria non gradisce pressioni, preferisce girovagare tra i generi, sfogliare
i tomi più pesanti, leggere quante più possibili quarte di copertina, dare
anche una sbirciata al prezzo, se si tratta di un regalo, perché questo sia
proporzionato al destinatario… quando è trascorso il giusto tempo, allora entro
e mi sistemo discreto, dietro alla cassa. Loro apprezzano la libertà concessa e
ricambiano comprando due tascabili in offerta. Li invito alla presentazione che
si terrà nel pomeriggio e mi rispondono che forse verranno. Non so se li
rivedrò ma almeno sono stati gentili.
La mia poetessa avrà il
suo pubblico, se la sua famiglia si dimostrerà magnanima. Del resto è risaputo
che nel nostro paese sono in molti a scrivere ma non legge quasi più nessuno.
Forse venderà qualche
copia ma sono certo che non le importi.
Avrà il suo posto in
vetrina, per qualche tempo, poi tornerà a scrivere nella penombra anonima della
sua camera.
Ho scelto Trieste ma
avrei potuto finire in qualsiasi altra cittadina. Non c’è un motivo se non il
caso. Per quanti anni ho sognato un posto così.
Una piccola libreria,
un negozio modesto che basta appena a coprire le proprie spese. Ma quanto ho
sognato di essere libero, chiuso in una cella buia, e questo sogno mi ha
mantenuto in vita.
Mi sento fortunato. Ho
i miei libri, viaggi tascabili, contenitori di universi e scrigni pieni di
magie.
Ho questo angolo
ventoso e il sole che sbatte sulle sedie bianche.
Ho una poetessa che
verrà a leggere i suoi versi.
C’è spesso il vento in
piazza dei Sogni.
Un vento che ha il
dolce gusto della libertà.