Stanco, ecco come mi
sento.
Sono stanco e sporco e
sudato.
La fame no, quella non
la sento più.
Il soldato davanti a
noi è perduto e lo sa. Gli hanno, con falsa pietà, messo una benda davanti agli
occhi ma non basta a zittire il suo grido di rabbia e impotenza. E di
disperazione.
Faccio parte di questo
plotone non per scelta, con questa divisa niente è una scelta personale. Ci sbraitano
di marciare, ci abbaiano nelle orecchie ordini che non capiamo ma che
osserviamo con ostentata lealtà, ci viene urlato quando mangiare, quando
dormire, quando svegliarci e perfino quando cagare.
L’ufficiale ci mette
sugli attenti, legge la sentenza al prigioniero e ordina di sparare.
Io imbraccio il mio
Garand col mirino sbilenco, carico, l’otturatore si chiude, colpo in camera e sparo
come faccio sempre in questi casi, verso il muro in alto a destra rispetto le
spalle del condannato. Non sarà il mio fuoco a giustiziare un nemico.
Non importa perché lui
muore lo stesso.
Questa volta qualcosa
va storto, perché l’ufficiale ci corre incontro e, sempre gridando, indica i
colpi sulla parete di cemento. Si vede che siamo in molti ad aver fatto la
stessa pensata.
Non capisco bene la sua
lingua ma quello che è chiaro è che ora saremo noi a passare da quella parte,
con le spalle al muro e nemmeno una benda sugli occhi.
Non so cosa mi prende
ma il mio braccio si muove in autonomia. Alzo il fucile, miro e gli pianto un
colpo in mezzo alla fronte facendogli volare via il berretto e mezza calotta
cranica. I miei compagni apprezzano il silenzio improvviso, poi cominciano a
stringermi e a strattonarmi.
-Cosa hai fatto? Ora ci
uccideranno tutti…
Spiego loro, o almeno tento,
che siamo già morti, morti che camminano e che non abbiamo mai avuto un’alternativa.
Da distante si sentono
voci concitate e capiamo che stanno arrivando pattuglie richiamate dai colpi.
Potrebbero arrestarci ma tutti noi sappiamo che ci falceranno direttamente con
le loro mitragliatrici e ripuliranno il cortile senza pensarci due volte appena
visto il cadavere del loro ufficiale.
A proposito del cadavere,
mi chino a prendere la Luger dalla fondina, a lui tanto non serve più.
-Presto, dobbiamo
nasconderci, grido ai miei compagni, presto… raccogliamo tutte le munizioni che
troviamo… dobbiamo raccogliere… raccogliere… poi chiudo gli occhi
apro gli occhi.
Gli amici stanno
giocando a pallavolo due metri più giù. Adriana mi guarda come fossi ammattito. –Cos’è che dobbiamo raccogliere? Ti senti
bene?
Non mi sento molto
bene, in effetti. Mi duole la schiena, non va bene addormentarsi sull’erba
umida di una collina. Qualche nuvola scorre davanti al sole come il sipario
manovrato da un tecnico dispettoso. Le voci non sono disperate e cattive ma
allegre e concitate, di chi si sta divertendo. Io mi rendo conto di non indossare
una divisa e di non stare per morire ma la cosa non riesce a cancellare lo
sgomento sul mio volto.
La mia ragazza intuisce
di essere davanti ad un mezzo matto.
-Dobbiamo raccogliere
fiori, un bel mazzetto da regalare a tua madre. Le dico.
Allora lei capisce di
avere a che fare con un matto completo.
Io le sorrido e la
rassicuro. – E’ solo che ho fatto un brutto sogno e ora ho voglia di cose
belle. Raccogliere dei fiori di campo, di ascoltare le risate dei nostri amici
che giocano, e di un tuo bacio.
Lei mi accontenta,
solerte.
E mentre mi bacia,
comprendo che occorre affrettarci a riconoscere le cose belle.
Prima di dimenticarci
come sono fatte, o prima di darle per scontate e non vederle più, prima di non
essere più in grado di distinguerle.
Dobbiamo ritornare a
saperle raccoglierle, le cose belle e quelle buone.
Dobbiamo affrettarci.
Oggi, subito.
Per esempio a
raccogliere fiori.