sabato 23 aprile 2022

Raccogliere fiori

 







Stanco, ecco come mi sento.

Sono stanco e sporco e sudato.

La fame no, quella non la sento più.

Il soldato davanti a noi è perduto e lo sa. Gli hanno, con falsa pietà, messo una benda davanti agli occhi ma non basta a zittire il suo grido di rabbia e impotenza. E di disperazione.

Faccio parte di questo plotone non per scelta, con questa divisa niente è una scelta personale. Ci sbraitano di marciare, ci abbaiano nelle orecchie ordini che non capiamo ma che osserviamo con ostentata lealtà, ci viene urlato quando mangiare, quando dormire, quando svegliarci e perfino quando cagare.

L’ufficiale ci mette sugli attenti, legge la sentenza al prigioniero e ordina di sparare.

Io imbraccio il mio Garand col mirino sbilenco, carico, l’otturatore si chiude, colpo in camera e sparo come faccio sempre in questi casi, verso il muro in alto a destra rispetto le spalle del condannato. Non sarà il mio fuoco a giustiziare un nemico.

Non importa perché lui muore lo stesso.

Questa volta qualcosa va storto, perché l’ufficiale ci corre incontro e, sempre gridando, indica i colpi sulla parete di cemento. Si vede che siamo in molti ad aver fatto la stessa pensata.

Non capisco bene la sua lingua ma quello che è chiaro è che ora saremo noi a passare da quella parte, con le spalle al muro e nemmeno una benda sugli occhi.

Non so cosa mi prende ma il mio braccio si muove in autonomia. Alzo il fucile, miro e gli pianto un colpo in mezzo alla fronte facendogli volare via il berretto e mezza calotta cranica. I miei compagni apprezzano il silenzio improvviso, poi cominciano a stringermi e a strattonarmi.

-Cosa hai fatto? Ora ci uccideranno tutti…

Spiego loro, o almeno tento, che siamo già morti, morti che camminano e che non abbiamo mai avuto un’alternativa.

Da distante si sentono voci concitate e capiamo che stanno arrivando pattuglie richiamate dai colpi. Potrebbero arrestarci ma tutti noi sappiamo che ci falceranno direttamente con le loro mitragliatrici e ripuliranno il cortile senza pensarci due volte appena visto il cadavere del loro ufficiale.

A proposito del cadavere, mi chino a prendere la Luger dalla fondina, a lui tanto non serve più.

-Presto, dobbiamo nasconderci, grido ai miei compagni, presto… raccogliamo tutte le munizioni che troviamo… dobbiamo raccogliere… raccogliere… poi chiudo gli occhi

 

 apro gli occhi.

Gli amici stanno giocando a pallavolo due metri più giù. Adriana mi guarda come fossi ammattito.  –Cos’è che dobbiamo raccogliere? Ti senti bene?

Non mi sento molto bene, in effetti. Mi duole la schiena, non va bene addormentarsi sull’erba umida di una collina. Qualche nuvola scorre davanti al sole come il sipario manovrato da un tecnico dispettoso. Le voci non sono disperate e cattive ma allegre e concitate, di chi si sta divertendo. Io mi rendo conto di non indossare una divisa e di non stare per morire ma la cosa non riesce a cancellare lo sgomento sul mio volto.

La mia ragazza intuisce di essere davanti ad un mezzo matto.

-Dobbiamo raccogliere fiori, un bel mazzetto da regalare a tua madre. Le dico.

Allora lei capisce di avere a che fare con un matto completo.

Io le sorrido e la rassicuro. – E’ solo che ho fatto un brutto sogno e ora ho voglia di cose belle. Raccogliere dei fiori di campo, di ascoltare le risate dei nostri amici che giocano, e di un tuo bacio.

Lei mi accontenta, solerte.

E mentre mi bacia, comprendo che occorre affrettarci a riconoscere le cose belle.

Prima di dimenticarci come sono fatte, o prima di darle per scontate e non vederle più, prima di non essere più in grado di distinguerle.

Dobbiamo ritornare a saperle raccoglierle, le cose belle e quelle buone.

Dobbiamo affrettarci. Oggi, subito.

Per esempio a raccogliere fiori.