martedì 19 marzo 2019

luoghi insoliti: sono stato bravo?

luoghi insoliti: sono stato bravo?: Visto papà come sono stato bravo oggi? Ho corso undici chilometri. Non senza fatica, certo, né senza fiato corto. Ma è ...

sono stato bravo?









Visto papà come sono stato bravo oggi?

Ho corso undici chilometri.
Non senza fatica, certo, né senza fiato corto.
Ma è stato così bello percorrere i viali di questo nostro grande parco.
È stato così speciale correre sulla ghiaia che tante volte è stata solcata dalle ruote delle nostre bici, quando facevamo le nostre pedalate, come quella volta che tua nipote si addormentò sul seggiolino e dovetti reggere, fino a casa, il manubrio con una mano e la sua testolina con l'altra.

Vedessi com'è azzurro il cielo stamattina e com’è fredda e pungente l'aria.
Un azzurro che sembra un dipinto e quasi ferisce gli occhi con la sua perfezione.

Visto come sono stato bravo a correre tutta questa strada, e mentre la ghiaia scricchiola sotto le suole vedo, ai lati, sfilare i rami pieni di gemme e di fiori, rami ingannati da questa precoce e falsa aria di primavera. Vedessi come sono belli questi alberi che si ripetono infiniti sul lungo vialone e che sembrano spettatori di una gara, che fanno il tifo per un atleta che vola verso il traguardo.

Vedessi come sono bianche quelle nuvole che galleggiano placide e come sembrano soffici, che mi piacerebbe poterle toccare.

Sono stato bravo, vero papà? a percorrere tutta questa strada da solo e a non rallentare il passo, a non cedere durante momenti difficili e le giornate storte e a capire quando è il momento di rifiatare e lasciare il passo ai più veloci. Tutto questo correre, a volte mi chiedo se sia il modo migliore di affrontare la vita, anche se l’istinto mi dice di sì.

Come sono verdi i prati. Come lo erano quando ci portavi col vecchio pallone e si passavano i pomeriggi a sudare e correre inventando nuove geometrie davanti a porte invisibili.

Vedi come sono stato bravo, oggi?
Corro e sudo e ogni passo mi regala un metro in più e dolore al ginocchio e fiato corto e stanchezza ma anche gioia e felicità per il calore del sole e la bellezza del paesaggio e la nitidezza dell’orizzonte. Corro e sono contento perché questa è la vita e non mi rimane che correre.

Sono stato bravo oggi, vero papà? Perché corro e vivo e sono felice di farlo perché sento che correre è una buona cosa.

Ogni passo mi avvicina a casa, al riposo, alla doccia, e al ristoro.


So che ogni passo mi avvicina di più a te.






domenica 17 marzo 2019

luoghi insoliti: prede e predatori

luoghi insoliti: prede e predatori: Vittorio, che si chiamava così perché suo padre era un nostalgico e suo nonno aveva fermamente creduto nella vittoria finale e ...

prede e predatori











Vittorio, che si chiamava così perché suo padre era un nostalgico e suo nonno aveva fermamente creduto nella vittoria finale e all'affermazione dell'impero italiano, era un uomo senza mezze misure.

Per lui tutto era nero o bianco, non c'era spazio per toni intermedi. Non sapeva cosa fosse la moderazione, non gli piacevano i tipi tranquilli, quelli che preferivano la diplomazia.
Vittorio non era mai dovuto ricorrere alla diplomazia. Fin dalla tenera età di sei anni era stato il più alto e grosso della classe. Gli altri bambini erano terrorizzati, erano spinti, minacciati, graffiati. Le bambine piangevano al solo sguardo e lui si divertiva a farle soffrire.
Nessuna maestra aveva trovato il metodo giusto e lui sembrava refrattario sia a lusinghe e premi sia a punizioni e castighi.

Alle medie Vittorio era alto un metro e ottanta per settantacinque chili. Si radeva con regolarità ogni due giorni. Un pacchetto di Marlboro gli durava qualche giorno ma non gli mancavano mai i soldi perché i compagni erano costretti a investire i soldi delle paghette per pagarsi l’incolumità.
Il suo fisico notevole e la sfrontatezza lo aiutavano a uscire con le ragazze facili del vicino istituto tecnico. Senza motivo scatenava una rissa un giorno sì e l’altro pure.
Aveva bisogno di provocare e picchiare qualcuno, non frequentando palestre. A dire il vero con due ganci e un diretto stendeva chiunque ma spesso la prendeva per le lunghe con spintarelle e pizzicotti che prolungavano il divertimento. Era come un gatto che si diverte col topolino prima di finirlo.
Gli insegnanti avrebbero preferito allontanarlo dalla scuola ma si limitavano a bocciarlo per non averlo più in classe.
Finite a fatica le scuole medie, Vittorio si iscrisse al Tecnico più che altro per avere a disposizione sigarette, ragazze e imbranati da spremere e pestare.

Ripeté diversi anni senza mai avere una concreta possibilità di raggiungere il diploma.
In ogni caso a Vittorio il diploma non sarebbe servito.
Negli ambienti giusti la manodopera era sempre ricercata. Buttafuori in locali malfamati ma anche autista, guardia del corpo, fattorino per consegne particolari, insomma tutto ciò che a un certo mondo oscuro necessitava.

Tutto questo per spiegare chi e cosa fosse Vittorio.
Un predatore.
Uno che la vita la sbranava, ne dilaniava le carni da quando era al mondo. Uno che non si fermava davanti a niente e a nessuno, abituato a vincere sempre tutti gli incontri e le sfide.
Uno davanti cui era meglio levarsi e lasciar passare, se non si voleva essere schiacciati.
Un re della giungla.

Finché un giorno, un tizio non decise di usare una mazza da baseball, sentendosi un piccolo Joe Di Maggio e facendo una battuta valida sulla testa di Vittorio.


La jeep corre a velocità folle non perdendo nemmeno una buca di quest’assurda e secca savana. Un africano, dall’aria stupida, guida senza curarsi di tenere gli occhi sulla strada anche perché la strada non esiste. Vittorio si tiene al sedile, grida: vai piano, così ci ammazziamo, ma la guida fa finta di non sentire. Tutto attorno è giallo e asciutto, sabbia, arbusti, erba secca. Al centro dell’orizzonte un albero enorme, come si chiama, baobab, un mostro che sarà alto almeno venti metri con un tronco poderoso e rami che sembrano voler abbracciare il mondo. Vittorio si sta arrabbiando, vorrebbe tirare giù dall’auto quell’idiota a calci ma d’improvviso sente uno scoppio, come una fucilata, il fuoristrada sbanda con violenza e si rovescia, Vittorio abbraccia il cruscotto prima che questo si spacchi in due, è investito da una pioggia di frammenti di vetro da ogni lato del corpo e mentre il cielo e la terra scambiano più volte di posto, picchia la testa e chiude gli occhi.
Quando li riapre, prova un dolore lancinante alla nuca, uno strato appiccicoso di sangue gli chiude l’occhio destro e ha una spalla incastrata nella lamiera.
Prova a girarsi, l’auto è messa su un fianco, il lato che guarda verso il cielo è squarciato, una scimmietta lo osserva incerta se scappare. La guida non si vede, di certo sbalzata fuori nell’incidente.
Se lo trovo vivo, lo ammazzo io, pensa Vittorio con un certo prurito.
Si alza a fatica, gli sembra di avere il braccio rotto e sente la testa in fiamme. Il babbuino scappa facendo rumore, lui esce dai rottami. Per fortuna le gambe sono sane, ha diverse ferite e non muove il braccio ma poteva andare peggio. Occorre chiamare i soccorsi, pensa mentre cerca quel subumano… trova la sterrata e la percorre per una cinquantina di metri in direzione del grosso albero. Non ha nessuna idea di come sia finito in quel pasticcio, la botta alla testa deve avergli fatto perdere la memoria, poi sente un verso, come un ringhio basso e prolungato che gli fa accapponare la pelle, aumenta il passo ma ha dolori ovunque, cerca di correre tenendosi in braccio e vede un movimento poco lontano. Si avvicina, tra l’erba giace supino il corpo dilaniato dell’africano, ha gli occhi aperti verso il cielo che sta per imbrunire, ma non può vedere più nulla. Sono atterrati sulla carcassa due uccellacci, forse sparvieri, di sicuro voraci e famelici, Vittorio pensa: sono contento di non essere io al tuo posto… Poi sente di nuovo il brontolio, questa volta più vicino. Non vuole finire mangiato, quindi cerca di correre verso l’albero.
L’ha quasi raggiunto quando sente rumore di ali che sbattono, si gira e vede che due leonesse hanno spaventato gli uccelli per cibarsi di quel disgraziato e alla vista gli si vuota la vescica nei pantaloni.
Vittorio raggiunge i rami più bassi dell’albero, a fatica, usando il solo braccio sinistro, si issa e cerca con le poche forze rimaste di salire più possibile in alto. E’ stremato, trema di freddo e di paura, si chiede se i leoni sappiano arrampicarsi sugli alberi, sente lo stridio degli uccelli cui sta invadendo il territorio, un ruggito spaventoso e per niente lontano, vede il cielo che si tinge di colori straordinari, ma non riesce a coglierne la bellezza.
Trema Vittorio, sa che fra poco scenderà la notte, il freddo lo avvolgerà e sarà un nero sudario, non potrà reggersi in equilibrio per molto, le bestie saranno presto affamate e lui sarà inerme, preda di un predatore molto più forte, vittima di una natura che non aveva mai considerato, lui che si era sempre sentito forte, invincibile, lui che aveva sottovalutato come un uomo fosse così piccolo davanti al creato e alla bestiale forza di altri esseri. Poi, così come aveva previsto, nel cuore di una nera notte africana, Vittorio in preda a un folle delirio di terrore e senza più forze per aggrapparsi alla vita, perde la presa sul ramo al quale è aggrappato per scivolare giù per alcuni metri e picchiare nuovamente la testa, precipitando in un luogo di buio senza fine.


Quando Vittorio si sveglia non vede leoni né avvoltoi né babbuini. Una donna in camice bianco gli sta cambiando la benda attorno alla testa.
Gli sussurra di stare fermo ma lui vorrebbe alzarsi, scappare, uscire da quel letto. Lei finisce il lavoro e Vittorio non sa cosa dire, poi sussurra un flebile grazie.
Nei giorni successivi Vittorio, grazie alle infinite risorse di un fisico giovane e forte, si riprende con una velocità che sorprende tutti. Il più sorpreso però è lui, sorpreso di non sentire rabbia, sorpreso di poter dire grazie a chi lo aiuta, sorpreso di non avere voglia di vendetta, di aggredire qualcuno, di essere come nato a una nuova vita, fatta di cose buone, di tranquillità e pacatezza.
Vittorio capisce che esiste qualcosa a metà strada dell’essere preda o predatore, qualcosa che non comprende necessariamente stare agli estremi ma che la vita si può vivere anche in un territorio neutrale, un posto dove ci si può rilassare, in cui è facile apprezzare la bellezza di un cielo africano ma anche la quotidianità della città.

Un posto in cui non bisogna avere il terrore di essere sbranati o vivere la violenza di sopraffare qualcuno.

Vittorio è grato per quella botta in testa, grato per non essere più un predatore.

Grato per non avere più timore di diventare preda.






sabato 9 marzo 2019

luoghi insoliti: Lui e Lei

luoghi insoliti: Lui e Lei: Lui guarda la foto. La ingrandisce allontanando pollice e indice sul display con un gesto quotidiano e familiare a milioni d...

Lui e Lei










Lui guarda la foto.

La ingrandisce allontanando pollice e indice sul display con un gesto quotidiano e familiare a milioni di persone.
Ripensa, con un malinconico sorriso, a quando il fotografo poneva domande quali: carta lucida? Formato 13x18?
Cose che le attuali generazioni non sentiranno più.
Nello scatto lei ha un sorriso incantevole.
Le labbra sono colorate di rossetto sui denti bianchissimi. Occhi allegri e due rughe d'espressione di chi ride spesso.
Lui sa che il sorriso è sincero.
Lei non è capace di fingere, è troppo onesta e, osservando la foto, si capisce che il sorriso è autentico.
Gli anni passano inesorabili e, come per tutti, i segni sul fisico non possono mancare ma lavoro, stanchezza, preoccupazioni e tensioni non hanno intaccato quel sorriso.
La foto è stata scattata sul posto di lavoro e lui sa che il sorriso è quello rivolto alla clientela e ne soffre un poco ma questa è la vita.


Lei a volte gli nega quel sorriso. Quella mancanza alimenta il suo amore.
Hanno tante cose in comune, certo. Ma spesso le cose non prendono la piega desiderata e si discostano da ciò che vogliamo. Lei a volte nega quel sorriso e lui capisce bene il perché.
Capisce molte cose, anche se non ne parlano, ma non per questo lui impedisce che accadano, non può o a volte non vuole.
Qui, come in tutte le coppie, i conflitti nascono rigogliosi come le felci in una foresta, alcune volte sono rimossi, altre no e li si deve attraversare.
Ma anche questa è la vita.


Lui poi, capisce anche altre cose. Ci sono enormi differenze tra i due, opposte visioni e punti di vista antitetici, persino stili di vita diversi.
Quando una vuole dormire, l'altro è sveglio e pimpante. Se lui vuole correre, lei preferisce passeggiare. Se lei ama i luoghi affollati e giocosi, lui preferisce i posti isolati e introspettivi.
Lei spesso s’intrattiene con programmi e spettacoli che lui odia e nessuno dei due può fare qualcosa per risolvere questo problema e anche questa è la vita.


Quel sorriso è forse la cosa più bella che lei abbia ed è spesso sfoggiato agli amici. Lui è felice di questo, non ne è geloso, al contrario è contento e orgoglioso che lei sorrida agli amici e che sia felice quando loro sono in compagnia.
I momenti di condivisione sono rare perle e tengono lontano le tensioni.
Anche se lui sa bene che al momento meno opportuno queste torneranno come un branco di lupi affamati torna all'ovile del paese.
E questa purtroppo è la vita.

Lei è raggiante nella foto ma, lui la conosce molto bene, è anche caparbia e ostinata. Se ha un'opinione, difficilmente cambia idea. Se progetta una cosa, non è tipo da rinunciare. Quando ci si muove in sintonia, non ci sono problemi ma con gli anni lui ha iniziato a fare di testa sua e a non cercare il compromesso, così anche lei si è indurita e ha mostrato un'inedita espressione priva del suo sorriso.
Lui è lacerato dalla mancanza di quel sorriso e sente una lama fredda trapassare il ventre e anche questo, purtroppo, è un evento della vita.


Ora lui chiude l'applicazione e spegne il cellulare.
Non ha bisogno della foto per vedere il suo sorriso.
Non ha bisogno di un’immagine.
Lei tornerà a casa, dopo il lavoro, e sarà lì, in carne e ossa, tornerà e si guarderanno negli occhi.
Parleranno di tante cose, com’è andata la giornata, hai sentito i figli, è finito il riso, cosa facciamo nel fine settimana… Visti da fuori sono sempre apparsi una coppia esemplare.
Faranno e parleranno di cose semplici e forse banali ma che in una coppia sono indispensabili. Cose utili e altre messe lì per riempire degli spazi vuoti.


Lui sa che deve impegnarsi e spera che anche lei lo sappia.
Lui sa che a volte gli basta poco, una sciocchezza o una battuta scherzosa perché sul viso di lei torni ad affiorare quel suo sorriso.
E sa che dopo tutto anche lei ha voglia di sorridergli, perché la vita non è sempre facile e questi momenti sono un dolce rifornimento, quando i chilometri da fare sono tanti.

La sera è arrivata e lui la vede sorridere.
E questa sì che è vita, ragazzi.
Questa sì che è vita.






domenica 3 marzo 2019

luoghi insoliti: Occhi nel tempo

luoghi insoliti: Occhi nel tempo: Gli occhi. Era quello il posto, dove persi la strada e la ragione. Mi bastò un attimo, uno sguardo innocente, e fu come ...

Occhi nel tempo










Gli occhi.

Era quello il posto, dove persi la strada e la ragione.

Mi bastò un attimo, uno sguardo innocente, e fu come cadere in trappola. Una dolcissima ragnatela in cui finii per rotolare, per rimanere incollato, inerme, ad aspettare, come la mosca, una sorte inevitabile.

Ma andiamo in ordine.
Avevo quindici anni. La guerra era finita da un decennio o poco più ma tante erano le cose ancora da ricostruire e molto era stato abbandonato per mancanza di soldi.
Cumuli di macerie dove prima c’erano case, fabbriche, ponti e piazze. Lo ricordo come un mondo triste, che faceva fatica a tirarsi su, ho memoria di tanti particolari ma li ricordo come guardare una vecchia foto, consumata e opaca, tutto in bianco e nero.
La scuola era ripresa, i miei ci tenevano che riuscissi a diplomarmi. Eravamo in pieno boom economico e nei campi ci andava sempre meno gente.
A scuola ci andai volentieri, capivo che era importante per il mio futuro. Prendevo la vecchia bici di famiglia. Tutti andavamo in bici, allora. Erano rare le automobili e quelle poche sfrecciavano a tutta velocità, strombazzando il clacson e rischiando di far cadere dalla sella le persone anziane.

Fu proprio andando a scuola che la conobbi. 
Era la ragazza più bella del liceo, il mio primo, vero ricordo a colori. Fu il mio primo amore, mi rese cieco e sordo, diventai stupido e testardo.
Passai quasi l’intero anno scolastico senza fare niente, la guardavo sempre all’uscita di scuola, lei non alzava mai gli occhi, sempre seria e composta com’erano allora le brave ragazze. Ma una volta lo fece, una volta mi guardò e questo fu sufficiente per farmi perdere la ragione.
Mi ci volle un coraggio da leone e un pomeriggio riuscii a fermarla, le dissi qualcosa, è trascorso troppo tempo per ricordare, rammento però che lei sorrise e scappò dalla sua compagna.
La seconda volta che la incontrai, fu dietro la scuola, avevo un fuoco dentro che mi consumava, le mani tremavano ed ero deciso a tutto. Le sue amiche non c’erano, pensai che fosse l’occasione per baciarla, così mi avvicinai alle sue labbra, vi poggiai le mie e trovai il paradiso.
Qualcuno ci vide perché al mio ingresso in classe il professore mi riservò una generosa dose di bacchettate sulle mani, allora si poteva, e quando tornai a casa il maestro, si prese la briga di venire con la sua bicicletta a trovare i miei genitori per informarli del fatto e anche mio padre si sentì in dovere di darmi due scappellotti e di mandarmi a letto saltando la cena.
La storia era chiusa, non avevo il permesso d’innamorarmi, dovevo studiare o lavorare.
Lei la vidi di sfuggita, un paio di volte, poi più nulla. Forse cambiò scuola, forse rimase a casa a imparare un mestiere, come si usava a quei tempi.
Non la dimenticai, non scordai i suoi bellissimi occhi, le sue labbra calde, e non dimenticai come il solo guardarla camminare da lontano, mi faceva tremare d’amore.

Non dimenticai il suo nome, si chiamava Marta.
Mio padre e il mio insegnante diventarono inflessibili. Mi feci perdonare, tornai sui libri e ottenni il diploma.
Passarono gli anni e dopo aver trovato un buon lavoro, conobbi una brava ragazza che frequentava casa nostra, con le mie sorelle, per imparare a cucire. Le feci una breve corte formale e, con il consenso di tutti, ci sposammo.


È stato un buon matrimonio, intendiamoci, solido e tranquillo. Ci siamo voluti bene e mai ho pensato ad altre donne, abbiamo avuto tre figli e sono nonno da tanti anni. La mia cara moglie se n’è andata ormai da cinque anni e ora vivo in questo mondo troppo veloce, fatto di telefonini, comunicazioni elettroniche e rapporti virtuali, un mondo che non capisco e non riconosco. A volte mi sento un alieno piombato su una terra ostile con la sua navicella, non comprendo la lingua, non capisco la gente.
Ma non sono qui a raccontare questo.

Dopo la morte di mia moglie, il mio motore ha cominciato a perdere qualche colpo.
Mi hanno diagnosticato un problema di ritmo, se ho capito bene, non che m’importi molto. Comunque, figli e nipoti si aspettano che mi curi e faccio del mio meglio per vederli contenti.
Sono ricoverato in ospedale da un paio di giorni, per controlli di routine.
Il reparto è molto pulito e sono tutti gentili, tranne la mia cardiologa che mi ricorda, con la sua severità, un vecchio insegnante…
Ieri pomeriggio sono stato invitato dall’infermiera di turno, in una saletta, per eseguire un prelievo di sangue. Mentre lei si è voltata per prendere le sue cose da un cassetto, mi è caduto lo sguardo su di una lavagna.
Col pennarello blu, erano scritti i nomi di pazienti ricoverati.
Sono rimasto senza fiato a leggere nome e cognome di Marta.
Per fortuna l’infermiera era concentrata sul mio braccio, perché non so proprio che faccia ho fatto. E' stato come vedere un fantasma riemerso dal passato e la cosa mi ha tolto il fiato.
Certo, avrebbe potuto essere un’omonimia, ne ero consapevole, dopo sessant’anni poteva non essere lei! Ma qualcosa mi diceva di sì.
Era lei ed io dovevo vederla, salutarla.


Tornai in camera, era orario di visita. Sarebbero arrivati tutti, figli con le loro ansie e preoccupazioni e nipoti spensierati che mi avrebbero regalato i loro infantili disegnini raffiguranti enormi cuori e fatti con lo stesso organo.
Ma il mio traballante muscolo ora batteva per una persona in un letto, solo sei camere più avanti.
Finito il tempo delle visite, rimasi solo e aspettai che passasse il carrello della terapia. Dopo, il personale si sarebbe ritirato per cenare e per le consegne attorno a un caffè.

Quando la corsia fu deserta, raggiunsi la camera. Ricordavo il numero di letto.
La donna adagiata sotto il lenzuolo era più pallida della biancheria. Anche i capelli erano sottili e bianchissimi, Il copriletto non bastava a nascondere una magrezza estrema. Sussurrai il suo nome.
Marta.
Quando aprì gli occhi, ebbi un brivido e fui sicuro che fosse lei, anche se non avevo mai nutrito dubbi.
Marta mi osservò in silenzio.
Non mi chiese cosa facessi lì, ma quando sorrise il mio cuore si aprì in due lasciando sgorgare un lago di dolcezza infinita, mi aveva riconosciuto.
Poi parlò: “Ricordo come tremavi fuori dalla scuola. Mi sono sempre accorta di come mi guardavi, quanto tempo mi hai fatto aspettare per un piccolo e casto bacio…”.
Mi vennero le lacrime agli occhi, vedendo quanta fatica faceva a parlare, anche solo a tenere gli occhi aperti. Ma sapevo che quell’istante stava regalando felicità a entrambi.
Sapevo che non ci rimaneva molto tempo, presto sarebbe passato qualcuno del personale e mi avrebbe rimandato in camera come un maestro mi avrebbe spedito in classe.
Lei mi strinse la mano con poca forza e allora capii che tutto ciò che rimaneva da fare era baciarla. Dopo sessant’anni le mie labbra si poggiarono sulle sue e la sensazione di tutte le cose che avrebbero potuto essere, fu allo stesso tempo terribile e dolcissima.

Uscii dalla stanza sussurrando un semplice ciao, la mia gola era serrata dall’emozione e lei aveva richiuso gli occhi. Ma il sorriso sulla sua bocca era rimasto.
Tornai alla mia stanza sotto lo sguardo attento di un infermiere, che mi fece sentire in colpa.
Non lo credevo possibile ma riuscii a dormire bene e il mio battito fu regolare, ai ripetuti controlli che mi fecero, fino al mattino.
Il giorno successivo ero in dimissione, la cardiologa era soddisfatta dei miei esami. Preparai la borsa e poi, facendo finta di niente, arrivai fino alla stanza di Marta.

Due giovani ragazze in divisa stavano rifacendo il letto vuoto.
Le guardai interrogativo e una delle due si avvicinò e senza parlare mi fece capire che la paziente era deceduta.

Ressi bene, ringraziai la ragazza e mi voltai per evitarle lo spettacolo di un vecchio che piange.

Poi, dentro di me, ringraziai il cielo per avermi concesso di rivederla, di averle potuto lasciare un altro piccolo bacio, prima che lei andasse via.

Ringraziai per aver potuto rivedere i suoi occhi, bellissimi come un tempo, un tempo perduto tanti anni prima, dietro il muro di una vecchia scuola.