martedì 19 marzo 2019
luoghi insoliti: sono stato bravo?
luoghi insoliti: sono stato bravo?: Visto papà come sono stato bravo oggi? Ho corso undici chilometri. Non senza fatica, certo, né senza fiato corto. Ma è ...
sono stato bravo?
Visto papà come sono
stato bravo oggi?
Ho corso undici
chilometri.
Non senza fatica, certo,
né senza fiato corto.
Ma è stato così bello
percorrere i viali di questo nostro grande parco.
È stato così speciale
correre sulla ghiaia che tante volte è stata solcata dalle ruote delle nostre
bici, quando facevamo le nostre pedalate, come quella volta che tua nipote si
addormentò sul seggiolino e dovetti reggere, fino a casa, il manubrio con una
mano e la sua testolina con l'altra.
Vedessi com'è azzurro
il cielo stamattina e com’è fredda e pungente l'aria.
Un azzurro che sembra
un dipinto e quasi ferisce gli occhi con la sua perfezione.
Visto come sono stato
bravo a correre tutta questa strada, e mentre la ghiaia scricchiola sotto le
suole vedo, ai lati, sfilare i rami pieni di gemme e di fiori, rami ingannati
da questa precoce e falsa aria di primavera. Vedessi come sono belli questi
alberi che si ripetono infiniti sul lungo vialone e che sembrano spettatori di
una gara, che fanno il tifo per un atleta che vola verso il traguardo.
Vedessi come sono bianche
quelle nuvole che galleggiano placide e come sembrano soffici, che mi
piacerebbe poterle toccare.
Sono stato bravo, vero
papà? a percorrere tutta questa strada da solo e a non rallentare il passo, a
non cedere durante momenti difficili e le giornate storte e a capire quando è
il momento di rifiatare e lasciare il passo ai più veloci. Tutto questo
correre, a volte mi chiedo se sia il modo migliore di affrontare la vita, anche
se l’istinto mi dice di sì.
Come sono verdi i
prati. Come lo erano quando ci portavi col vecchio pallone e si passavano i
pomeriggi a sudare e correre inventando nuove geometrie davanti a porte
invisibili.
Vedi come sono stato
bravo, oggi?
Corro e sudo e ogni passo
mi regala un metro in più e dolore al ginocchio e fiato corto e stanchezza ma
anche gioia e felicità per il calore del sole e la bellezza del paesaggio e la
nitidezza dell’orizzonte. Corro e sono contento perché questa è la vita e non
mi rimane che correre.
Sono stato bravo oggi,
vero papà? Perché corro e vivo e sono felice di farlo perché sento che correre
è una buona cosa.
Ogni passo mi avvicina
a casa, al riposo, alla doccia, e al ristoro.
So che ogni passo mi
avvicina di più a te.
domenica 17 marzo 2019
luoghi insoliti: prede e predatori
luoghi insoliti: prede e predatori: Vittorio, che si chiamava così perché suo padre era un nostalgico e suo nonno aveva fermamente creduto nella vittoria finale e ...
prede e predatori
Vittorio, che si
chiamava così perché suo padre era un nostalgico e suo nonno aveva fermamente
creduto nella vittoria finale e all'affermazione dell'impero italiano, era un
uomo senza mezze misure.
Per lui tutto era nero
o bianco, non c'era spazio per toni intermedi. Non sapeva cosa fosse la
moderazione, non gli piacevano i tipi tranquilli, quelli che preferivano la
diplomazia.
Vittorio non era mai
dovuto ricorrere alla diplomazia. Fin dalla tenera età di sei anni era stato il
più alto e grosso della classe. Gli altri bambini erano terrorizzati, erano
spinti, minacciati, graffiati. Le bambine piangevano al solo sguardo e lui si
divertiva a farle soffrire.
Nessuna maestra aveva
trovato il metodo giusto e lui sembrava refrattario sia a lusinghe e premi sia
a punizioni e castighi.
Alle medie Vittorio era
alto un metro e ottanta per settantacinque chili. Si radeva con regolarità ogni
due giorni. Un pacchetto di Marlboro gli durava qualche giorno ma non gli
mancavano mai i soldi perché i compagni erano costretti a investire i soldi
delle paghette per pagarsi l’incolumità.
Il suo fisico notevole
e la sfrontatezza lo aiutavano a uscire con le ragazze facili del vicino
istituto tecnico. Senza motivo scatenava una rissa un giorno sì e l’altro pure.
Aveva bisogno di
provocare e picchiare qualcuno, non frequentando palestre. A dire il vero con
due ganci e un diretto stendeva chiunque ma spesso la prendeva per le lunghe
con spintarelle e pizzicotti che prolungavano il divertimento. Era come un
gatto che si diverte col topolino prima di finirlo.
Gli insegnanti
avrebbero preferito allontanarlo dalla scuola ma si limitavano a bocciarlo per
non averlo più in classe.
Finite a fatica le
scuole medie, Vittorio si iscrisse al Tecnico più che altro per avere a
disposizione sigarette, ragazze e imbranati da spremere e pestare.
Ripeté diversi anni
senza mai avere una concreta possibilità di raggiungere il diploma.
In ogni caso a Vittorio
il diploma non sarebbe servito.
Negli ambienti giusti
la manodopera era sempre ricercata. Buttafuori in locali malfamati ma anche
autista, guardia del corpo, fattorino per consegne particolari, insomma tutto
ciò che a un certo mondo oscuro necessitava.
Tutto questo per
spiegare chi e cosa fosse Vittorio.
Un predatore.
Uno che la vita la
sbranava, ne dilaniava le carni da quando era al mondo. Uno che non si fermava
davanti a niente e a nessuno, abituato a vincere sempre tutti gli incontri e le
sfide.
Uno davanti cui era
meglio levarsi e lasciar passare, se non si voleva essere schiacciati.
Un re della giungla.
Finché un giorno, un
tizio non decise di usare una mazza da baseball, sentendosi un piccolo Joe Di Maggio
e facendo una battuta valida sulla testa di Vittorio.
La
jeep corre a velocità folle non perdendo nemmeno una buca di quest’assurda e
secca savana. Un africano, dall’aria stupida, guida senza curarsi di tenere gli
occhi sulla strada anche perché la strada non esiste. Vittorio si tiene al
sedile, grida: vai piano, così ci ammazziamo, ma la guida fa finta di non
sentire. Tutto attorno è giallo e asciutto, sabbia, arbusti, erba secca. Al
centro dell’orizzonte un albero enorme, come si chiama, baobab, un mostro che
sarà alto almeno venti metri con un tronco poderoso e rami che sembrano voler
abbracciare il mondo. Vittorio si sta arrabbiando, vorrebbe tirare giù dall’auto
quell’idiota a calci ma d’improvviso sente uno scoppio, come una fucilata, il fuoristrada
sbanda con violenza e si rovescia, Vittorio abbraccia il cruscotto prima che
questo si spacchi in due, è investito da una pioggia di frammenti di vetro da
ogni lato del corpo e mentre il cielo e la terra scambiano più volte di posto,
picchia la testa e chiude gli occhi.
Quando
li riapre, prova un dolore lancinante alla nuca, uno strato appiccicoso di
sangue gli chiude l’occhio destro e ha una spalla incastrata nella lamiera.
Prova
a girarsi, l’auto è messa su un fianco, il lato che guarda verso il cielo è
squarciato, una scimmietta lo osserva incerta se scappare. La guida non si
vede, di certo sbalzata fuori nell’incidente.
Se
lo trovo vivo, lo ammazzo io, pensa Vittorio con un certo prurito.
Si
alza a fatica, gli sembra di avere il braccio rotto e sente la testa in fiamme.
Il babbuino scappa facendo rumore, lui esce dai rottami. Per fortuna le gambe
sono sane, ha diverse ferite e non muove il braccio ma poteva andare peggio.
Occorre chiamare i soccorsi, pensa mentre cerca quel subumano… trova la sterrata
e la percorre per una cinquantina di metri in direzione del grosso albero. Non
ha nessuna idea di come sia finito in quel pasticcio, la botta alla testa deve
avergli fatto perdere la memoria, poi sente un verso, come un ringhio basso e
prolungato che gli fa accapponare la pelle, aumenta il passo ma ha dolori
ovunque, cerca di correre tenendosi in braccio e vede un movimento poco
lontano. Si avvicina, tra l’erba giace supino il corpo dilaniato dell’africano,
ha gli occhi aperti verso il cielo che sta per imbrunire, ma non può vedere più
nulla. Sono atterrati sulla carcassa due uccellacci, forse sparvieri, di sicuro
voraci e famelici, Vittorio pensa: sono contento di non essere io al tuo posto…
Poi sente di nuovo il brontolio, questa volta più vicino. Non vuole finire
mangiato, quindi cerca di correre verso l’albero.
L’ha
quasi raggiunto quando sente rumore di ali che sbattono, si gira e vede che due
leonesse hanno spaventato gli uccelli per cibarsi di quel disgraziato e alla
vista gli si vuota la vescica nei pantaloni.
Vittorio
raggiunge i rami più bassi dell’albero, a fatica, usando il solo braccio
sinistro, si issa e cerca con le poche forze rimaste di salire più possibile in
alto. E’ stremato, trema di freddo e di paura, si chiede se i leoni sappiano
arrampicarsi sugli alberi, sente lo stridio degli uccelli cui sta invadendo il
territorio, un ruggito spaventoso e per niente lontano, vede il cielo che si
tinge di colori straordinari, ma non riesce a coglierne la bellezza.
Trema
Vittorio, sa che fra poco scenderà la notte, il freddo lo avvolgerà e sarà un
nero sudario, non potrà reggersi in equilibrio per molto, le bestie saranno
presto affamate e lui sarà inerme, preda di un predatore molto più forte,
vittima di una natura che non aveva mai considerato, lui che si era sempre
sentito forte, invincibile, lui che aveva sottovalutato come un uomo fosse così
piccolo davanti al creato e alla bestiale forza di altri esseri. Poi, così come
aveva previsto, nel cuore di una nera notte africana, Vittorio in preda a un
folle delirio di terrore e senza più forze per aggrapparsi alla vita, perde la
presa sul ramo al quale è aggrappato per scivolare giù per alcuni metri e
picchiare nuovamente la testa, precipitando in un luogo di buio senza fine.
Quando Vittorio si
sveglia non vede leoni né avvoltoi né babbuini. Una donna in camice bianco gli
sta cambiando la benda attorno alla testa.
Gli sussurra di stare
fermo ma lui vorrebbe alzarsi, scappare, uscire da quel letto. Lei finisce il
lavoro e Vittorio non sa cosa dire, poi sussurra un flebile grazie.
Nei giorni successivi
Vittorio, grazie alle infinite risorse di un fisico giovane e forte, si
riprende con una velocità che sorprende tutti. Il più sorpreso però è lui,
sorpreso di non sentire rabbia, sorpreso di poter dire grazie a chi lo aiuta,
sorpreso di non avere voglia di vendetta, di aggredire qualcuno, di essere come
nato a una nuova vita, fatta di cose buone, di tranquillità e pacatezza.
Vittorio capisce che
esiste qualcosa a metà strada dell’essere preda o predatore, qualcosa che non
comprende necessariamente stare agli estremi ma che la vita si può vivere anche
in un territorio neutrale, un posto dove ci si può rilassare, in cui è facile
apprezzare la bellezza di un cielo africano ma anche la quotidianità della
città.
Un posto in cui non
bisogna avere il terrore di essere sbranati o vivere la violenza di sopraffare
qualcuno.
Vittorio è grato per quella botta in testa, grato per non essere più un predatore.
Grato per non avere più
timore di diventare preda.
sabato 9 marzo 2019
luoghi insoliti: Lui e Lei
luoghi insoliti: Lui e Lei: Lui guarda la foto. La ingrandisce allontanando pollice e indice sul display con un gesto quotidiano e familiare a milioni d...
Lui e Lei
Lui guarda la foto.
La ingrandisce
allontanando pollice e indice sul display con un gesto quotidiano e familiare a
milioni di persone.
Ripensa, con un
malinconico sorriso, a quando il fotografo poneva domande quali: carta lucida?
Formato 13x18?
Cose che le attuali
generazioni non sentiranno più.
Nello scatto lei ha un
sorriso incantevole.
Le labbra sono colorate
di rossetto sui denti bianchissimi. Occhi allegri e due rughe d'espressione di
chi ride spesso.
Lui sa che il sorriso è
sincero.
Lei non è capace di
fingere, è troppo onesta e, osservando la foto, si capisce che il sorriso è autentico.
Gli anni passano
inesorabili e, come per tutti, i segni sul fisico non possono mancare ma
lavoro, stanchezza, preoccupazioni e tensioni non hanno intaccato quel sorriso.
La foto è stata
scattata sul posto di lavoro e lui sa che il sorriso è quello rivolto alla
clientela e ne soffre un poco ma questa è la vita.
Lei a volte gli nega
quel sorriso. Quella mancanza alimenta il suo amore.
Hanno tante cose in comune,
certo. Ma spesso le cose non prendono la piega desiderata e si discostano da
ciò che vogliamo. Lei a volte nega quel sorriso e lui capisce bene il perché.
Capisce molte cose,
anche se non ne parlano, ma non per questo lui impedisce che accadano, non può
o a volte non vuole.
Qui, come in tutte le
coppie, i conflitti nascono rigogliosi come le felci in una foresta, alcune
volte sono rimossi, altre no e li si deve attraversare.
Ma anche questa è la
vita.
Lui poi, capisce anche
altre cose. Ci sono enormi differenze tra i due, opposte visioni e punti di
vista antitetici, persino stili di vita diversi.
Quando una vuole dormire,
l'altro è sveglio e pimpante. Se lui vuole correre, lei preferisce passeggiare.
Se lei ama i luoghi affollati e giocosi, lui preferisce i posti isolati e
introspettivi.
Lei spesso s’intrattiene
con programmi e spettacoli che lui odia e nessuno dei due può fare qualcosa per
risolvere questo problema e anche questa è la vita.
Quel sorriso è forse la
cosa più bella che lei abbia ed è spesso sfoggiato agli amici. Lui è felice di
questo, non ne è geloso, al contrario è contento e orgoglioso che lei sorrida
agli amici e che sia felice quando loro sono in compagnia.
I momenti di
condivisione sono rare perle e tengono lontano le tensioni.
Anche se lui sa bene
che al momento meno opportuno queste torneranno come un branco di lupi affamati
torna all'ovile del paese.
E questa purtroppo è la
vita.
Lei è raggiante nella
foto ma, lui la conosce molto bene, è anche caparbia e ostinata. Se ha un'opinione,
difficilmente cambia idea. Se progetta una cosa, non è tipo da rinunciare.
Quando ci si muove in sintonia, non ci sono problemi ma con gli anni lui ha
iniziato a fare di testa sua e a non cercare il compromesso, così anche lei si
è indurita e ha mostrato un'inedita espressione priva del suo sorriso.
Lui è lacerato dalla
mancanza di quel sorriso e sente una lama fredda trapassare il ventre e anche
questo, purtroppo, è un evento della vita.
Ora lui chiude
l'applicazione e spegne il cellulare.
Non ha bisogno della
foto per vedere il suo sorriso.
Non ha bisogno di un’immagine.
Lei tornerà a casa,
dopo il lavoro, e sarà lì, in carne e ossa, tornerà e si guarderanno negli
occhi.
Parleranno di tante
cose, com’è andata la giornata, hai sentito i figli, è finito il riso, cosa
facciamo nel fine settimana… Visti da fuori sono sempre apparsi una coppia
esemplare.
Faranno e parleranno di
cose semplici e forse banali ma che in una coppia sono indispensabili. Cose
utili e altre messe lì per riempire degli spazi vuoti.
Lui sa che deve
impegnarsi e spera che anche lei lo sappia.
Lui sa che a volte gli
basta poco, una sciocchezza o una battuta scherzosa perché sul viso di lei
torni ad affiorare quel suo sorriso.
E sa che dopo tutto
anche lei ha voglia di sorridergli, perché la vita non è sempre facile e questi
momenti sono un dolce rifornimento, quando i chilometri da fare sono tanti.
La sera è arrivata e
lui la vede sorridere.
E questa sì che è vita,
ragazzi.
Questa sì che è vita.
domenica 3 marzo 2019
luoghi insoliti: Occhi nel tempo
luoghi insoliti: Occhi nel tempo: Gli occhi. Era quello il posto, dove persi la strada e la ragione. Mi bastò un attimo, uno sguardo innocente, e fu come ...
Occhi nel tempo
Gli occhi.
Era quello il posto,
dove persi la strada e la ragione.
Mi bastò un attimo, uno
sguardo innocente, e fu come cadere in trappola. Una dolcissima ragnatela in
cui finii per rotolare, per rimanere incollato, inerme, ad aspettare, come la
mosca, una sorte inevitabile.
Ma andiamo in ordine.
Avevo quindici anni. La
guerra era finita da un decennio o poco più ma tante erano le cose ancora da
ricostruire e molto era stato abbandonato per mancanza di soldi.
Cumuli di macerie dove
prima c’erano case, fabbriche, ponti e piazze. Lo ricordo come un mondo triste,
che faceva fatica a tirarsi su, ho memoria di tanti particolari ma li ricordo
come guardare una vecchia foto, consumata e opaca, tutto in bianco e nero.
La scuola era ripresa,
i miei ci tenevano che riuscissi a diplomarmi. Eravamo in pieno boom economico
e nei campi ci andava sempre meno gente.
A scuola ci andai
volentieri, capivo che era importante per il mio futuro. Prendevo la vecchia
bici di famiglia. Tutti andavamo in bici, allora. Erano rare le automobili e
quelle poche sfrecciavano a tutta velocità, strombazzando il clacson e
rischiando di far cadere dalla sella le persone anziane.
Fu proprio andando a
scuola che la conobbi.
Era la ragazza più bella del liceo, il mio primo, vero
ricordo a colori. Fu il mio primo amore, mi rese cieco e sordo, diventai
stupido e testardo.
Passai quasi l’intero
anno scolastico senza fare niente, la guardavo sempre all’uscita di scuola, lei
non alzava mai gli occhi, sempre seria e composta com’erano allora le brave
ragazze. Ma una volta lo fece, una volta mi guardò e questo fu sufficiente per
farmi perdere la ragione.
Mi ci volle un coraggio
da leone e un pomeriggio riuscii a fermarla, le dissi qualcosa, è trascorso
troppo tempo per ricordare, rammento però che lei sorrise e scappò dalla sua
compagna.
La seconda volta che la
incontrai, fu dietro la scuola, avevo un fuoco dentro che mi consumava, le mani
tremavano ed ero deciso a tutto. Le sue amiche non c’erano, pensai che fosse
l’occasione per baciarla, così mi avvicinai alle sue labbra, vi poggiai le mie
e trovai il paradiso.
Qualcuno ci vide perché
al mio ingresso in classe il professore mi riservò una generosa dose di
bacchettate sulle mani, allora si poteva, e quando tornai a casa il maestro, si
prese la briga di venire con la sua bicicletta a trovare i miei genitori per
informarli del fatto e anche mio padre si sentì in dovere di darmi due
scappellotti e di mandarmi a letto saltando la cena.
La storia era chiusa,
non avevo il permesso d’innamorarmi, dovevo studiare o lavorare.
Lei la vidi di
sfuggita, un paio di volte, poi più nulla. Forse cambiò scuola, forse rimase a
casa a imparare un mestiere, come si usava a quei tempi.
Non la dimenticai, non scordai
i suoi bellissimi occhi, le sue labbra calde, e non dimenticai come il solo guardarla
camminare da lontano, mi faceva tremare d’amore.
Non dimenticai il suo
nome, si chiamava Marta.
Mio padre e il mio
insegnante diventarono inflessibili. Mi feci perdonare, tornai sui libri e ottenni
il diploma.
Passarono gli anni e
dopo aver trovato un buon lavoro, conobbi una brava ragazza che frequentava
casa nostra, con le mie sorelle, per imparare a cucire. Le feci una breve corte
formale e, con il consenso di tutti, ci sposammo.
È stato un buon
matrimonio, intendiamoci, solido e tranquillo. Ci siamo voluti bene e mai ho
pensato ad altre donne, abbiamo avuto tre figli e sono nonno da tanti anni. La
mia cara moglie se n’è andata ormai da cinque anni e ora vivo in questo mondo
troppo veloce, fatto di telefonini, comunicazioni elettroniche e rapporti
virtuali, un mondo che non capisco e non riconosco. A volte mi sento un alieno
piombato su una terra ostile con la sua navicella, non comprendo la lingua, non
capisco la gente.
Ma non sono qui a raccontare
questo.
Dopo la morte di mia
moglie, il mio motore ha cominciato a perdere qualche colpo.
Mi hanno diagnosticato
un problema di ritmo, se ho capito bene, non che m’importi molto. Comunque,
figli e nipoti si aspettano che mi curi e faccio del mio meglio per vederli
contenti.
Sono ricoverato in
ospedale da un paio di giorni, per controlli di routine.
Il reparto è molto
pulito e sono tutti gentili, tranne la mia cardiologa che mi ricorda, con la
sua severità, un vecchio insegnante…
Ieri pomeriggio sono
stato invitato dall’infermiera di turno, in una saletta, per eseguire un
prelievo di sangue. Mentre lei si è voltata per prendere le sue cose da un
cassetto, mi è caduto lo sguardo su di una lavagna.
Col pennarello blu,
erano scritti i nomi di pazienti ricoverati.
Sono rimasto senza
fiato a leggere nome e cognome di Marta.
Per fortuna
l’infermiera era concentrata sul mio braccio, perché non so proprio che faccia
ho fatto. E' stato come vedere un fantasma riemerso dal passato e la cosa mi ha tolto il
fiato.
Certo, avrebbe potuto
essere un’omonimia, ne ero consapevole, dopo sessant’anni poteva non essere lei!
Ma qualcosa mi diceva di sì.
Era lei ed io dovevo
vederla, salutarla.
Tornai in camera, era
orario di visita. Sarebbero arrivati tutti, figli con le loro ansie e
preoccupazioni e nipoti spensierati che mi avrebbero regalato i loro infantili
disegnini raffiguranti enormi cuori e fatti con lo stesso organo.
Ma il mio traballante
muscolo ora batteva per una persona in un letto, solo sei camere più avanti.
Finito il tempo delle
visite, rimasi solo e aspettai che passasse il carrello della terapia. Dopo, il
personale si sarebbe ritirato per cenare e per le consegne attorno a un caffè.
Quando la corsia fu
deserta, raggiunsi la camera. Ricordavo il numero di letto.
La donna adagiata sotto
il lenzuolo era più pallida della biancheria. Anche i capelli erano sottili e
bianchissimi, Il copriletto non bastava a nascondere una magrezza estrema.
Sussurrai il suo nome.
Marta.
Quando aprì gli occhi,
ebbi un brivido e fui sicuro che fosse lei, anche se non avevo mai nutrito
dubbi.
Marta mi osservò in
silenzio.
Non mi chiese cosa
facessi lì, ma quando sorrise il mio cuore si aprì in due lasciando sgorgare un
lago di dolcezza infinita, mi aveva riconosciuto.
Poi parlò: “Ricordo
come tremavi fuori dalla scuola. Mi sono sempre accorta di come mi guardavi,
quanto tempo mi hai fatto aspettare per un piccolo e casto bacio…”.
Mi vennero le lacrime
agli occhi, vedendo quanta fatica faceva a parlare, anche solo a tenere gli
occhi aperti. Ma sapevo che quell’istante stava regalando felicità a entrambi.
Sapevo che non ci
rimaneva molto tempo, presto sarebbe passato qualcuno del personale e mi
avrebbe rimandato in camera come un maestro mi avrebbe spedito in classe.
Lei mi strinse la mano
con poca forza e allora capii che tutto ciò che rimaneva da fare era baciarla.
Dopo sessant’anni le mie labbra si poggiarono sulle sue e la sensazione di
tutte le cose che avrebbero potuto essere, fu allo stesso tempo terribile e
dolcissima.
Uscii dalla stanza
sussurrando un semplice ciao, la mia gola era serrata dall’emozione e lei aveva
richiuso gli occhi. Ma il sorriso sulla sua bocca era rimasto.
Tornai alla mia stanza
sotto lo sguardo attento di un infermiere, che mi fece sentire in colpa.
Non lo credevo
possibile ma riuscii a dormire bene e il mio battito fu regolare, ai ripetuti
controlli che mi fecero, fino al mattino.
Il giorno successivo
ero in dimissione, la cardiologa era soddisfatta dei miei esami. Preparai la
borsa e poi, facendo finta di niente, arrivai fino alla stanza di Marta.
Due giovani ragazze in
divisa stavano rifacendo il letto vuoto.
Le guardai interrogativo
e una delle due si avvicinò e senza parlare mi fece capire che la paziente era
deceduta.
Ressi bene, ringraziai
la ragazza e mi voltai per evitarle lo spettacolo di un vecchio che piange.
Poi, dentro di me,
ringraziai il cielo per avermi concesso di rivederla, di averle potuto lasciare
un altro piccolo bacio, prima che lei andasse via.
Ringraziai per aver
potuto rivedere i suoi occhi, bellissimi come un tempo, un tempo perduto tanti
anni prima, dietro il muro di una vecchia scuola.
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