Un giorno, stavo
passeggiando con un mio amico e attraversando la strada sulle strisce pedonali,
ho sollevato la mano e ho sorriso, ringraziando l’automobilista che si era
bloccato per farci passare.
L’uomo ha ricambiato
con un’alzata appena accennata delle dita, lo scambio muto non manca mai di
darmi soddisfazione.
Il mio amico ha
iniziato scuotere la testa e con tono contrariato mi ha detto:
“Non sei tenuto a
ringraziare. Ai sensi del codice stradale lui si deve fermare davanti alla
presenza di pedoni sulle strisce!”
Io non rispondo ma lo
guardo con stupore. C’è qualcosa che non capisco, qualcosa che stona.
Lui si premura di
spiegare:
“Questo non sarà mai un
paese civile, se si deve ringraziare uno che segue il codice e si ferma a un
passaggio pedonale”.
Sembra tutto
soddisfatto della precisazione.
Io replico:
“Sì, ma questo non sarà
mai un paese educato se nessuno sarà capace di dire grazie.”
La risposta non sembra
piacergli.
“Cerca di capire, provo
a chiarire mentre camminiamo, oggi tutti conoscono molto bene quali sono i
propri diritti, chiunque può elencare ciò che gli spetta, nei più diversi
ambiti ma la maggioranza sembra dimenticare il proprio dovere. Ci rivolgiamo
agli altri senza usare, non dico amore e tantomeno tenerezza ma almeno empatia.
La persona dietro allo sportello è considerata un’estensione del computer e se
non soddisfa velocemente le nostre esigenze siamo pronti a sbranarla. Davanti
agli intoppi siamo pronti a diventare scortesi e aggressivi e non ci facciamo
problemi a insultare uno sconosciuto che ha l’unica colpa, quella di non
piacerci e di averci incontrato nel giorno sbagliato”.
Il mio amico non si
convince. “Che cosa devo fare se trovo un incompetente? Ringraziare?”
Io sorrido, il sarcasmo
e l’ironia non sono il suo forte ma capisco le sue obiezioni.
“Per esempio si
potrebbe salutare, dimostrare che lo riconosciamo come essere umano e che in
quanto tale è fallibile…”.
“Sì, e ci faccio anche
amicizia…”
“Se vuoi, puoi farlo…
io suggerivo solo un briciolo di compassione”.
Lui ormai è distratto,
pensa ad altro. Capisco che vuole cambiare argomento. Ecco che all’improvviso l’argomento
arriva sotto forma di feci canine che lui non accorgendosi, calpesta. Inizia a
sbraitare un elenco d’imprecazioni, non necessariamente in ordine alfabetico. A
me scappa da ridere e lui mi guarda malissimo.
“Che cosa vuoi farci,
ormai le strade e gli spazi verdi sono diventati una vasta toilette per
animali. Anche questa è questione di educazione, proprio come quelle auto ferme
in doppia fila che stanno bloccando l’autobus e quei monopattini messi di
traverso sul marciapiede, che abbiamo dovuto scavalcare…”.
Lui è arrabbiatissimo e
sfrega ripetutamente la suola a terra. “Quindi questa è colpa delle persone
allo sportello che perdono la pazienza? Oppure di chi ti attraversa davanti al
muso dell’auto e non ti degna di uno sguardo?”
Io sorrido. Forse non è
il momento adatto.
Forse dovrei attendere
che abbia le scarpe pulite.
Ma non posso aspettare,
penso che forse sì, un fenomeno sia figlio dell’altro. Che non ci siano diritti
senza doveri. Che bisognerebbe trattarci reciprocamente con più umanità e
rispetto. Che l’educazione vada insegnata ai più piccoli ma anche gli adulti
possono imparare.
Che l’empatia può
essere un rimedio.
Che l’educazione può
essere una soluzione.
“Certo che i cani sono
carini ma la roba che hai sotto la scarpa manda un odore…”.
Il mio amico scoppia a
ridere, mi dà una pacca e si gira.
Sono certo che per lui
esista salvezza.