mercoledì 28 marzo 2018

luoghi insoliti: La camminata

luoghi insoliti: La camminata: Da qualche settimana a questa parte ho preso l’abitudine di fare lunghe camminate. In principio erano più simili a passeggiate, ...

La camminata








Da qualche settimana a questa parte ho preso l’abitudine di fare lunghe camminate.
In principio erano più simili a passeggiate, considerato il ritmo blando.
Poi la velocità è aumentata e sono diventate marce.
Abituato a correre, non avevo previsto di sudare così per una semplice camminata. Non avevo previsto di stancarmi, avere i muscoli doloranti, le gambe rigide.
Pensandoci bene, fare qualcosa, qualunque cosa, comporta sudore.
Quando, terminata la fase di progettazione, agiamo, quando ci poniamo obiettivi, quando alziamo il tiro perché vogliamo migliorare la nostra performance, dobbiamo pagare una quota in fatica e sudore.
Non c’è scampo.

Mi hanno proposto un giro in montagna. Una camminata.
Dal momento che so già che non sarà una semplice passeggiata, durerà, infatti, quattro o cinque ore, so che dovrò prepararmi.
Avrò bisogno di indossare scarponcini robusti e comodi. Mi servirà uno zaino leggero con acqua, cioccolato, fazzoletti. Dovrò ricordare guanti e berretto anche se siamo ormai in primavera, perché il freddo in altura non scherza.
Magari sarà bene portare una maglia e dei calzini di ricambio. Dovrò indossare la ginocchiera per il mio dolore cronico.
Sarà meglio procurarsi una mappa del percorso ma sono sicuro che i miei accompagnatori siano attrezzati per questo.

Tutto ciò si chiama organizzarsi. Pianificare.
Lasciare poco al caso, ridurre la possibilità d’imprevisti.
Controllare ciò che si può controllare.
Per tutto il resto terremo gli occhi, la mente e il cuore aperti.
Il percorso, la bellezza della montagna, il panorama saranno accolti con piacere.
Il calore della compagnia, la convivialità del pasto all’aperto, la piacevolezza di mettersi alla prova, di fare qualcosa assieme a persone che contano, saranno molto graditi.
D’altra parte anche la fatica per la salita, le vertigini di cui soffro e che m’impediscono di guardare verso il precipizio senza provare la sensazione di cadere, il dolore ai muscoli, il sudore che verseremo, saranno donati volentieri come pedaggio per un pomeriggio felice.
Perché questo è chiaro. Se si vuole qualcosa, occorre essere disposti a dare qualcos’altro in cambio.
E per valutare quanto si è disposti a pagare è fondamentale avere chiaro dove si vuole arrivare e cosa si vuole raggiungere.
Prima di partire bisogna conoscere le proprie risorse e solo dopo pianificare il viaggio.
Se siamo disposti a stancarci, a sudare, a vincere le nostre paure, a metterci in gioco allora e solo allora, potremo godere del panorama, della bellezza di luoghi incontaminati, di boschi silenziosi, della vista di animali selvatici e di rapaci nel cielo.

Lasciamoci alle spalle dunque, tutta la zavorra che siamo abituati a trasportare e che ci serve solo a frenare il nostro percorso e ad avere una giustificazione per restare fermi. Prepariamoci al cammino e come amava sempre dire mio padre, a non fare mai il passo più lungo della gamba.

Buona camminata a tutti.




domenica 18 marzo 2018

luoghi insoliti: Ricomincio dai piedi

luoghi insoliti: Ricomincio dai piedi: Utilizzo, quando devo recarmi in città, la metropolitana. La trovo un mezzo comodo, pratico e veloce. Scelgo di salire al capoline...

Ricomincio dai piedi














Utilizzo, quando devo recarmi in città, la metropolitana.

La trovo un mezzo comodo, pratico e veloce.



Scelgo di salire al capolinea nonostante possa raggiungere la seconda o la terza fermata, a me più vicine, per il semplice motivo che al capolinea i vagoni sono vuoti e ci si può sedere.



Vi è mai capitato di osservare le persone che condividono un breve viaggio con voi? Sono uguali a quelle che incrociate nell’imbarazzante chiuso di un ascensore o che spingete al centro sudato di una folla.

Tutta gente che non avete mai visto e che difficilmente rivedrete. Tutta gente che non ha nessuna voglia di comunicare con voi.



Mi è successo giusto la settimana scorsa.

Teniamo conto anche del sonno, giacché non sono ancora le otto, e che a peggiorare le cose è anche lunedì, motivi che rendono comprensibile e condivisibile la poca voglia di socializzare!



Cosa fare dunque, quando si condividono pochi metri quadrati con tale fauna?

È semplice, si tiene lo sguardo basso.

E in silenzio si osserva.



C'è la studentessa che indossa un paio di sneakers a collo alto, di stoffa nera, lise di vita vissuta, tempestate di borchie.

Di fronte a me siede una donna “in carriera” con un paio di Oxford scure con le stringhe di cuoio, molto eleganti, molto inglesi, molto androgine.

Di fianco un uomo con un paio di mocassini di pelle, di un marrone inguardabile, peggiorato dal terribile abbinamento col verde oliva dei pantaloni.

Entra, svolazzando leggera, una signorina sulle sue Mary Jane a tacco medio, deliziose décolleté con cinturino di colore panna. Molto eleganti.

Due ragazzi, poco distanti, indossano le immancabili sportive, tipo Air Jordan, vistose e colorate, sembrano furgoni coi catarifrangenti, tanto costose quanto variopinte.

Alla mia destra un uomo con un polacchino scamosciato blu scuro, di sicuro comodo, caldo e informale.

Basta osservare ciò che calziamo per capire quanto siamo diversi e unici.



Diversi e unici, dicevo. Sì ma fintanto che tengo lo sguardo basso.

Perché preso da questa mia mania dell’osservare e del capire cose e persone che mi circondano, a un certo punto decido di alzare quello sguardo e mi trovo a osservare uno spettacolo desolante.



Tutti ma proprio tutti, hanno il viso illuminato dallo schermo del proprio telefonino.

Indipendentemente da età, sesso, condizione sociale o professione.



Muti e diafani fantasmi dalla faccia pallida e gli occhi febbrili rapiti dalla propria, privata, realtà virtuale.

Silenziosi zombies, affamati di bites, assestati di download.

Vuoti spettri anaffettivi, dalle agili dita, attirati da una vita virtuale come gli squali dal sangue.



Mi vengono i brividi.

Tutti uguali.

Stessa espressione, stesso assordante frenetico ticchettio.



Mi sento straniero in terra straniera.



Così, per ritrovare quella ricchezza, quella diversità, quell’unicità che avvertivo poco prima, sono costretto ad abbassare nuovamente lo sguardo.



Ricomincerò dai piedi.



Chissà se troverò la marziale robustezza degli anfibi, un gagliardo paio di Bikers Boots oppure un bellissimo, intarsiato, paio di stivali Texani?














sabato 10 marzo 2018

luoghi insoliti: Anestesia totale

luoghi insoliti: Anestesia totale: Michele non piange da più di vent’anni. L’ultima volta che ha pianto è stata al funerale di suo padre. Aveva quattordici ...

Anestesia totale











Michele non piange da più di vent’anni.

L’ultima volta che ha pianto è stata al funerale di suo padre.
Aveva quattordici anni.

Non era successo tanto perché ne sentisse il bisogno, quanto perché vedeva gli altri farlo.
Sua madre, sua zia e i colleghi dell’uomo erano straziati e spremevano ettolitri di lacrime, il pianto di Michele durò tre minuti.
 In realtà era infastidito da tutta quella dimostrazione di emotività. Gli sembrava, come dire, non fuori luogo bensì inutile.
Badate bene, la sua non era insensibilità, era tutt’altro che impassibile di fronte quel lutto, qualsiasi cosa comportasse, piuttosto era una sorta di pigrizia dell’anima.
Indolenza dell’essere.

Così era cresciuto Michele, senza mai lamentarsi troppo quando soffriva, senza mai esultare troppo per una gioia.
Quando la nazionale di calcio vinse i mondiali Michele partecipò al corteo con bandiere e trombe ma non cantò i cori con i suoi compagni di scuola.
Quando una studentessa del suo liceo fu aggredita da un molestatore e ricoverata in ospedale, lui partecipò alla fiaccolata di protesta ma dimenticò di accendere la fiammella e restituì intatta la sua candela.

Questa sua apparente freddezza, impassibilità di fronte a tutto non gli rese comoda la vita. La sua ex fidanzata lo lasciò molto presto, mentre la sua ex moglie durò qualche anno di più. Michele non riuscì a versare lacrime nemmeno per queste occasioni perdute, pur soffrendo molto. O almeno soffrendo abbastanza.

Era sempre calmo, difficilmente si spazientiva per qualcosa.
Sopportava il caldo estremo d’estate quanto il freddo polare d’inverno. Semmai gli davano fastidio quelli che si lamentavano sempre, li trovava… banali!
Non si lagnava del traffico, al massimo alzava il volume dell’autoradio.
Non chiamava ad alta voce il cameriere per un difetto nella cottura della pizza.
Semplicemente accettava le cose.
Michele trovava troppo faticoso, dispendioso tradire le proprie emozioni, anche solo permettersi di provarne.

Di tanto in tanto qualcuno glielo faceva notare. Allora si accendeva un campanello d’allarme, una piccola spia come quella di un guasto al motore o della riserva di carburante.
Ma la spia tornava presto a spegnersi e l’allarme da fievole che era in principio, finiva per tacere lasciandolo nella sua imperturbabile apparente indifferenza.

Fino alla sera dell’incidente.
Un suo vecchio amico era stato travolto da un’auto pirata mentre costeggiava la statale, pedalando sulla sua bici. Invece di prestare soccorso, l’automobilista era fuggito, inseguito da sensi di colpa, vergogna e vana speranza di passarla liscia.
Il ferito era stato notato da un camionista, soccorso e trasferito in ospedale con fratture varie e una milza rotta che lo aveva quasi ucciso, ma i sanitari erano stati più veloci e lo avevano restituito alla vita e alla sua enorme sofferenza. Michele era andato a trovarlo tutte le sere senza riuscire a dire qualcosa, qualcosa che fosse di conforto, qualcosa che potesse diminuire il dolore, qualcosa che regalasse speranza.
Si era sentito un inutile e freddo pezzo di carne in movimento.
Si era chiesto a lungo, guardando il soffitto notturno della sua camera, quale fosse il senso della sua amicizia.
Poi, una sera, preparando una cena precotta, Michele rovesciò la padella dal fornello e versò sul polso dell’olio bollente.
Quel dolore acuto, urente, insopportabile lo fece gridare. Urlò di dolore e mentre lo faceva una lacrima prese a scorrere sulla sua guancia.
Il lancinante dolore al braccio lo avvicinò a capire cosa potesse provare il suo amico in trazione dentro un letto d’ospedale, cosa potevano aver provato la sua ex moglie e le tante persone che aveva visto soffrire e aveva sentito lamentarsi.
Il dolore di quella sera e le lacrime che gli stavano bagnando in viso, lo riportarono a ritroso fino al giorno del funerale di suo padre.
Allora Michele iniziò a singhiozzare, ora aveva la faccia bagnata, il gusto del sale nelle narici e sulle labbra gli dava una strana sensazione di conforto.
Stava piangendo come piange un neonato, per tutto il dolore mai provato prima, e tra i singhiozzi aveva capito che quel pianto lo stava guarendo.

Era finito l’effetto della sua anestesia.







sabato 3 marzo 2018

luoghi insoliti: Il gatto mangia il topo

luoghi insoliti: Il gatto mangia il topo: In un grande paese d’oriente esiste un detto che sentenzia pressappoco così: Non importa di che colore sia il gatto, quello che impor...

Il gatto mangia il topo












In un grande paese d’oriente esiste un detto che sentenzia pressappoco così: Non importa di che colore sia il gatto, quello che importa è che prenda il topo.

Bello, vero?

Mi riporta alla mente un antico ricordo scolastico che riassumeva in modo banale e scorretto l’intera opera di Machiavelli con la frase: Il fine giustifica i mezzi.

Certo è che gli orientali ci sapevano fare con le massime e lo spirito pratico di quel detto è di una verità innegabile.

Non importa il colore del gatto...

Ma qui non siamo in oriente.

Il nostro è un moderno stato, espressione di democrazia occidentale.

E potendo ancora sfruttare la democrazia che mi resta, se permettete, il colore del gatto vorrei poterlo scegliere io.

Colore, dimensioni, carattere. Vorrei un micio che mi rappresenti, che mi piaccia. Un gattone che sia elegante oltre che efficiente, che mi faccia fare bella figura con gli ospiti stranieri e che faccia sparire al più presto i topi che infestano il paese.

Ma questo è un altro discorso…

Non tutti i topi sono uguali. Ci sono i topi che lavorano in proprio, creando danni ai privati cittadini. Altri topi, molto furbi, si coalizzano in associazioni e lavorano ai fianchi delle grandi compagnie. Altri ancora si accordano per spartire il formaggio con gli stessi gatti che dovrebbero cacciarli.

Anche le persone sono molto diverse tra loro. A me danno fastidio tutti i topi, di qualunque estrazione o dimensione, magari un po’ meno i topolini campagnoli, sapete quelli piccolini che escono solo spinti dalla fame. Molti vorrebbero sbarazzarsi delle pantegane grosse e puzzolenti che dalla fogna escono per impossessarsi del nostro cibo, altri hanno paura dei topi che giungono clandestini da fuori per contendere il poco cibo che c’è e far diventare ancora più aggressivi i topi nostrani.

Insomma, abbiamo bisogno di un gatto.

Ma chi mi dice che il gatto che sceglieremo (o che qualcun altro sceglierà) sarà capace di prendere il topo?

Non capiterà forse che quel gatto, tanto bello e aitante in fase di concorso felino, si accomoderà al calduccio nella sua nuova comoda cuccia e, sazio di prelibate scatolette, non avrà più voglia di cacciare, restandogli solo la forza per muovere languida la coda?

Oppure che egli stesso, avendo visto da vicino i topi, non decida che si tratta di un compito troppo difficile, che il paese sia ormai perduto in mano ai ratti e che ogni contromossa sia inutile…

Ecco perché secondo me è importante anche il colore del gatto, come ogni particolare, ogni caratteristica.

Ecco perché, grazie al nostro ordinamento democratico, eserciterò presto il mio potere di scelta.

La mia potrà essere una scelta condivisa da molti o da pochi, questa è la doppia faccia della moneta democratica. La mia convinzione conta quanto quella di chiunque altro.



Lo so che può spaventare, anch’io sono preoccupato da questo.

Sapere che il mio parere in tema di nucleare, io che sono stato quasi bocciato in prima superiore e che so a malapena cosa sono i vettori, vale esattamente quanto il parere dell’ultimo premio Nobel per la fisica mi sconcerta alquanto.

Alla stessa maniera, in tema di vaccini, sapere che, l’opinione di una mamma, che si documenta sul web può avere peso quanto quella di un ricercatore in ingegneria genetica, mi rattrista.

Ma questa è la democrazia, e solo per il fatto di avere la possibilità di esprimere un parere mi fa essere contento di non vivere in altri posti.

Quindi, apprestiamoci a scegliere un gatto.

Sapendo che il nostro è un grande paese nonostante i topi.

E che abbiamo la forza e le risorse, visti i precedenti, di sopravvivere nonostante i topi.

Con qualunque gatto!