sabato 15 aprile 2023

Alla fine della giornata

 






Heidi si è addormentata sul tappeto, abbracciata stretta alla sua Birba, la bambola di stoffa. La sua preferita.

Piccola polpetta, pensa Agnese con un sorriso tenero.

Poco prima Heidi aveva pianto per una cucitura aperta sotto il braccio di Birba ma la sua mamma l’aveva consolata, promettendole che l’avrebbe cucita al più presto e la bambola sarebbe guarita.

Sì, pesto, pecchè il baccio le fa male” aveva puntualizzato la bimba, calmandosi.

Quante volte era stata cucita quella vecchia bambola di stoffa, Agnese questo nemmeno lo ricordava più, ma era di certo più economico che comprare una bambola nuova.

Le infila le mani sotto il corpicino ossuto e la solleva per deporla con cautela nel lettino. Ancora una volta si stupisce di quanto sia leggera. Heidi è una bimba sana ma mangia pochissimo e a ogni raffreddore, Agnese entra nel panico.

Dovrebbe trovarsi un lavoro, questo lo sa benissimo, avrebbe i soldi per pagare una tata o pensare all’iscrizione in una scuola materna e la vita sarebbe diversa. Ha fatto anche una serie di colloqui. Agnese è diplomata e sa parlare con le persone, ai colloqui riesce simpatica ed estroversa ma appena sentono che è madre di una bimba di due anni il clima si raffredda e al termine la frase “le faremo sapere” è diventata un cliscé.

Suo marito è fuori di casa, come sempre dal mattino alla sera. A studiare nuove strategie, dice lui mentre in realtà si trova con altri sfaccendati che sanno pensare solo a giocare al biliardo e aspettare il reddito di disoccupazione. Certo, anche lui saltuariamente partecipa a incontri di gruppo ed è invitato a fare colloqui nell’attesa di un posto di lavoro ma a casa non fa che lamentarsi di quanto sia ipocrita quella gente e di come i lavori proposti siano insignificanti e precari. Agnese pensa che lui dovrebbe modificare il suo atteggiamento passivo e arrogante ma si guarda bene dal dirlo per non vedere altri piatti rotti sul pavimento.

No, non si era aspettato un matrimonio così e forse aveva ragione sua suocera, non avrebbero dovuto affrettarsi ma lei era al quarto mese e lui sembrava così innamorato.

L’unica eredità che aveva lasciato alla giovane coppia era stata il nome della bambina. La strega, una signorona veneta di millantate origini austriache, si chiamava Adelaide e quando aveva all’improvviso perso la vita per un problema cardiaco acuto, suo figlio aveva insistito per dare alla nascitura il nome della mamma. Agnese non si era opposta, le sembrava un gran bel nome e il fatto che lo portasse la megera, non l’aveva condizionata.

Così avevano chiamato la bimba Adelaide, con grande soddisfazione di suo papà, ma Agnese si era abituata a presentarla a tutti come Heidi e ora quello era il suo nome.

Agnese non si lamenta mai di niente, di avere pochi soldi per fare la spesa, dei colloqui di lavoro dove è presa in giro, del fatto che da un anno non indossa qualcosa di nuovo, delle macchie di umido venute fuori sulla parete dell’armadio e che tutti i giorni deve passare con la candeggina.

Non si lamenta di non poter comprare giocattoli nuovi alla sua Heidi, che ora dorme tenendo tra le braccia una vecchia bambola scucita.

La guarda.

Quell’esserino dalla pelle candida e dalle sopracciglia chiare, respira regolare e le infonde calma e fiducia.

Non sa come ma è sicura che le cose cambieranno.

Andranno meglio, suo marito troverà un impiego, lei riuscirà a riallacciare i rapporti con i suoi, e soprattutto Heidi crescerà bene, prenderà qualche chilo e lei realizzerà il sogno di portarla al mare.

Le farà bagnare i piedini nudi sul bagnasciuga, le farà raccogliere le conchiglie in un secchiello di plastica e faranno lunghe passeggiate, tenendosi per mano, alla fine della giornata.

Agnese immagina che non succederà presto ma sa aspettare.

Per adesso tutto ciò che le serve alla fine della giornata, è sentire il rumore di quei piedini scalzi che le corrono incontro e ascoltare la voce della sua Heidi che le sussurra “ti voio bene mammina” prima di sfiorare con un bacino leggerissimo la sua guancia e di tornare con quella corsetta piena di balzi, nel suo lettino.

Solo questo vuole, alla fine della giornata.




domenica 2 aprile 2023

Giselle sbagliata

 





Giselle sale lentamente le scale.

Ce la farebbe a percorrerle a due a due, non è un problema fisico. Ci mancherebbe, alla sua età.

La fatica nel salire è tutta nella sua testa.

La camera sta al terzo piano e lei preferisce lasciare l’ascensore libero, a disposizione degli ospiti della struttura.

L’infermiera di turno le sorride. Le ha detto più di una volta Non so come fai, come lo sopporti, ma lui è solo e lei l’unica persona che ha.

Suo nonno non è mai stato tenero con lei, figlia indesiderata, figlia fuori del matrimonio, figlia di un padre che non ha nemmeno conosciuto perché quella poco di buono di sua madre nemmeno con le botte ha voluto rivelare la verità.

Suo nonno non si mai mostrato tenero nei suoi confronti e tantomeno ora lo è, ma almeno ora ha la demenza come giustificazione.

Entra spingendo la porta e come saluto si sente rimbrottare:

-Ti sembra questa l’ora di arrivare? Me le hai comprate le alici sott’olio, che ti avevo chiesto?

Giselle sa che a volte il nonno non la riconosce e la scambia per la figlia. Dimentica che sua figlia non c’è più e forse è meglio che non ricordi.

Lei invece ricorda tutto, ricorda che lui è stato l’unica figura maschile in casa da sempre e che si è sempre vantato di averle fatto anche da padre. Suo nonno è stato molte cose ma di sicuro non un padre.

-Il negozio era chiuso, le alici le comprerò domani.

Lui bofonchia due incomprensibili parole con tono poco gentile e torna a guardare fuori dalla finestra.

-Tutto il giorno chiuso in questa prigione e tu dimentichi di comprarmi le alici… ma cos’hai nella testa? Un giorno di questi la apro quella finestra e mi butto di sotto e chi si è visto, si è visto!

La ragazza pensa che forse piangerebbe, certo, ma poco e forse sarebbe meglio per tutti ma subito si pente di quel pensiero crudele.

-Nonno, non dire così, dai le alici te le porto presto…

Lui stavolta si gira e le mostra un sorriso dolce che le riempie il cuore d’incertezza. Non sa se odiare o amare quell’uomo che è tutto ciò che rimane della sua famiglia e la sua malattia non la aiuta a scegliere.

Giselle ricorda tutto, per esempio ricorda quando, in prima elementare, aveva fatto quel disegno, una grande torta nuziale e la scritta, un po’ sbilenca, OGGI SPOSI e sotto i nomi Giselle ed Eva.

Lo aveva mostrato orgogliosa a suo nonno che era venuto a prenderla fuori dalla scuola e lui senza parlare le aveva assestato uno schiaffo a mano aperta sulla guancia. Poteva ancora sentire il bruciore e il gusto salato delle sue lacrime che le avevano inondato il viso.

-Non scrivere mai più una cosa del genere! Aveva intimato l’uomo, all’epoca ancora giovane e tonico. Il ceffone le aveva fatto male, e tanto, ma anche averlo preso davanti alla scuola con tutte le compagne e i bambini che erano rimasti a osservare la scena, incuriositi e intimoriti e si erano stretti alle mani delle proprie madri.

Chissà se anche Eva l’aveva vista. Giselle non aveva mai trovato il coraggio di chiederlo e aveva semplicemente continuato a essere innamorata della sua amica con le treccine e a desiderare segretamente di poterla sposare un giorno.

Sua madre non si era mai sposata. Non aveva trovato il tempo forse, forse non aveva trovato l’uomo o forse quello che non aveva trovato, era solo il coraggio. All’educazione sentimentale di Giselle, poiché lei lavorava tutto il giorno e la sera accudiva alla bambina e al genitore, avevano pensato i compagni di scuola, poi fumetti e fotoromanzi e infine la televisione. Ma Giselle si sentiva sbagliata, come quando alle medie era finita a una festa pomeridiana e un tipo della terza C l’aveva baciata a tradimento sulla bocca, lei si era sentita sporca e aveva passato dieci minuti in bagno a lavarsi, con l’acqua bollente che le scottava le labbra.

-Tu sei strana, lo sai? Non sei come tua madre…

Suo nonno la sorprende con quest’affermazione. Lei sa che è vero. Non è come sua madre che ha pensato solo a lavorare finché il tumore le ha tolto ogni forza e di sicuro non è come suo nonno che era all’antica perfino per la propria generazione.

In quanto a suo padre, non sa e non lo può sapere se sia come lui. Non che gliene importi.

Lei è come è, e nessuno la potrà cambiare.

Non ci saranno schiaffi, non ci saranno botte.

L’infermiera si affaccia alla porta e chiede, sussurrando, se va tutto bene.

Le sembra protettiva ma non nei riguardi dell’anziano.

Giselle pensa che dovrebbe chiederle di prendere un caffè, o qualcosa del genere.

L’anziano che era rimasto per un po’ in silenzio, all’improvviso tuona a voce alta:

-Oggi o mai più, ogni giorno è buono ma oggi o mai più.

Giselle sorride, a suo nonno fuori di testa, all’infermiera che è rimasta sulla porta e sembra non voler andare più via, alla sua solitudine, alla vita…

Forse ha ragione suo nonno, ora o mai più.

Si gira verso la porta e sorride alla donna.