sabato 30 gennaio 2016

Ghost story









Le due e ventitré.
La radiosveglia è precisa, Guido ha controllato più volte in modo maniacale.
Sono le due e ventitré e ancora non è successo niente.
Guido è completamente sveglio e vede il vapore uscire dalla sua bocca. La temperatura nella stanza da letto sembra essere scesa di quindici, venti gradi. Un ronzio acuto gli trapassa le orecchie. I vetri della porta finestra si appannano. Brividi gli accapponano la pelle. Il ronzio cresce d’intensità, poi cessa di colpo. Al suo posto un silenzio di attesa. Il suono del vetro che si spezza giunge improvviso e fa sussultare Guido sul letto.
Lo specchio sull'armadio è andato, pensa Guido. Stanotte me la sono cavata.
Si sdraia sotto le coperte cercando di ignorare il gelo. Il termostato era stato regolato sui ventotto gradi ma Guido continua a vedere il suo fiato.
Mentre osserva la nuvola bianca che gli esce dalla bocca, una scossa sbatte il letto e quasi lo sbalza sul pavimento. Un piccolo urlo gli esce dalla bocca e lo lascia ansimante come dopo una corsa. Poi tutto finisce.
Guido trema nel suo letto e non solo per il freddo. Guido ha paura.

Poi la stanchezza prende il sopravvento e Guido si addormenta.
Sono due mesi che la cosa va avanti.
Guido è sempre stato un uomo razionale. Non ha mai creduto ai poltergeist, alle storie di fantasmi. Non si è mai fatto spaventare dai film horror e si è sempre preso gioco degli amici che lo facevano.
Fino alla sera dell'incidente.

La giornata passa tra alti e bassi e Guido cerca di trascorrere le ore lontano di casa. Ma inesorabile la sera giunge e non può fare a meno di rincasare.
La casa sembra in ordine ma come sempre, da due mesi a questa parte, l'odore metallico di sangue impregna ogni cosa.

E quando arriva il momento di andare a letto Guido non può impedirsi di ripensare a quella sera.


Guido non è un nottambulo. Non è un amante di discoteche e locali notturni. Non rincasa usualmente facendo le ore piccole.
Ma quella maledetta notte si fece convincere dalla compagnia a fare un salto in discoteca. Tutti tranne lui, erano accompagnati dalle fidanzate. Guido cominciava ad annoiarsi e a sentirsi stanco, così verso le due decise che era ora di salutare gli amici e di tornare a casa.
La statale era deserta, Guido non aveva bevuto alcolici ma cascava dal sonno.
Dopo pochi chilometri, al termine di una discesa, vide una macchia scura in mezzo alla carreggiata.
Passò cauto, diminuendo la velocità e vide che si trattava di una ruota.

L'auto da cui si era staccata la ruota giaceva sottosopra sul ciglio della strada duecento metri più avanti. I fari dell'auto di Guido illuminavano una distesa di vetri sull'asfalto.
Guido inchiodò i freni e col cuore che martellava nel petto, aprì lo sportello e scese.

La donna rannicchiata sul suolo in mezzo al suo sangue era evidentemente morta. Guido lo vedeva nel buio della notte illuminata appena da una mezza luna. Il parabrezza dell'auto era esploso e l'uomo che penzolava fuori emetteva suoni flebili.
Guido lo aiutò a uscire, lo fece sdraiare sulla strada e restò a fissarlo.
Era ipnotizzato dall'orribile ferita che gli si apriva sulla faccia.

Il ferito respirava a fatica, un gorgoglio gli uscì dalla bocca insieme a un fiotto di sangue.
Ahaautha m'haa oghe...ahaautha m'haa ogheeeee!
Guido non capì quella notte ma quella frase gli si conficcò nel cervello senza più uscire.
Aiuta mia moglie.
Guido si paralizzò, non era capace di informare il ferito di quello che aveva visto e poi l'uomo era sotto shock e le sue condizioni stavano precipitando.
Il blocco non lo abbandonò neppure quando il ferito perse conoscenza e così non si accorse che la vittima aveva cessato di respirare e che anche il suo cuore aveva smesso di battere.

Sarebbe bastato essere più presente, sarebbe bastato forse un massaggio cardiaco come quelli che si vedono nei film, sarebbe bastato...
Guido non aveva neppure tentato. Quando era tornato in se tutto quello che seppe fare fu trovare il cellulare in tasca e con le mani tremanti chiamare il soccorso stradale.


Guido apre gli occhi.
Non ha bisogno di leggere la radiosveglia. Sa già che ora è ma guarda ugualmente.
Le due e ventitré.
La sera prima, andando a letto ha alzato il termostato a trenta gradi. La camera sembrava una sauna. Guido si è addormentato con il pigiama incollato al torace e fradicio di sudore, sognando di essere nella giungla amazzonica. Ma quando si sveglia il sudore si è congelato sulla sua pelle e sta tremando come colpito da un attacco febbrile.
Qualunque cosa sia, sta per arrivare.
I vetri della finestra cominciano a vibrare con violenza.
Il pavimento e le pareti si coprono di ghiaccio, il crepitio è assordante. Poi il rumore cessa di colpo.
Guido tende le orecchie, non aspetta molto.
Subito si sente un bisbiglio, parole inarticolate, senza significato.
Una litania incomprensibile, ripetitiva, ossessiva, sempre più veloce, sempre più assordante, come un rosario diabolico.
Nel giro di poco quello che era un bisbiglio ora sono urla, che hanno poco di intelligibile, che non hanno nulla di umano.
Hootahoo m'haa oghe, hootahoo m'haa oghee, hootahoo m'haa ogheeee... Orhee, oorheee, heedhehoooo oorhraiiii!

Guido piange sotto le coperte, prega che questa cosa che sembra non voler finire mai, finisca presto.
Poi con uno schianto dello specchio tutto finisce, il ghiaccio cola lungo le pareti, nella stanza rimane solo l'eco di quei versi incomprensibili.
Il mattino dopo Guido vorrebbe fare finta di avere sognato, di essere stato preda di un incubo ma i vetri sono crepati e due solchi attraversano lo specchio. Il pavimento è bagnato e la casa continua a essere gelata nonostante il riscaldamento sia spinto al massimo.


Le due e ventitré.

Che cosa succede, si è chiesto Guido all'inizio di questa storia.
Vivere da single gli è sempre sembrata un'idea fantastica.
Le sue cose, i suoi spartiti, i suoi libri nei suoi spazi, nella sua casa. Le sue giornate e le sue notti da trascorrere in autonomia e libertà.
Gli era sembrata un'idea splendida.
Fino a ora.
Dalla notte dell'incidente niente era cambiato nelle ore diurne, salvo forse l'odore in casa. Ma di notte tutto era precipitato verso l'incubo più spaventoso.
Alcuni vicini si erano lamentati con Guido, chiedendo perché lasciasse l'immondizia a marcire al sole del terrazzino ma lui gli aveva mostrato un balcone e un appartamento lindo quanto una sala operatoria.
Tuttavia questi erano usciti quasi scappando e anche lui non poteva ignorare l'odore di marcio che invadeva a ondate la sua casa.
La prima notte che aveva sentito dei colpi sulle pareti, si era voltato dall'altra parte e aveva continuato a dormire. Poi i colpi si erano ripetuti la notte successiva e quella dopo ancora. Solo che non sembravano provenire da una direzione precisa ma dall'interno della camera stessa.
La quarta notte Guido fece caso all'ora sulla radiosveglia. Le due e ventitré minuti.
Era stato sul punto di alzarsi per uscire sul pianerottolo ma in quel momento un grido agghiacciante lo aveva inchiodato al letto, poi tutte le porte dell'appartamento si erano messe a sbattere e un freddo gelido si era impadronito della sua dimora.
La quinta notte qualcuno aveva bisbigliato delle oscenità nel suo orecchio, si era girato di scatto con ancora la sensazione di fiato gelido e disgustoso nell'orecchio. Non c’era nessuno a fianco del letto e sulla sveglia lampeggiava verde la cifra 2:23.
Non era stato semplice per Guido convivere con questi fatti ma non voleva tornare dai genitori oppure chiedere ospitalità a qualche amico.
Scusa il disturbo, avrebbe detto, si tratta solo di qualche notte, il tempo di esorcizzare qualche demone, di sfrattare un fantasma e di bonificare la casa con acqua benedetta...
No, non poteva rendersi ridicolo e così aveva tirato avanti sperando che ogni notte fosse l'ultima.
Aveva resistito due mesi.

Quella sera era andato a letto portandosi lo stesso libro su cui da settimane non avanzava di una parola. Guido aveva profonde occhiaie bluastre e la pelle pallida di chi non dorme bene da qualche tempo.
Aveva preso le gocce, unico rimedio che gli aveva prescritto il suo medico, e si era scolato la solita tisana che in realtà cominciava a fargli schifo.
Era quasi mezzanotte e nonostante la spossatezza era sicuro che non sarebbe riuscito a dormire.
Fino all'una aveva contato i minuti sulla sveglia, si era girato cento volte, si era concentrato su tutti i rumori dello stabile, passi sulle scale, un televisore a volume notevolmente alto, parlottare di passanti in strada, niente di paranormale.
Poi era crollato nel sonno.
Qualcosa di caldo e denso gli carezzava il collo e la guancia destra. Una carezza appiccicosa. L’odore forte di metallo era penetrato nelle sue narici e il gelo gli aveva paralizzato mani e piedi.
Il letto, anzi il pavimento e tutta la stanza avevano cominciato a vibrare, poi improvviso tutto si era rovesciato più e più volte dando a Guido la sensazione di avere lo stomaco in gola e una forte nausea. Riuscì a mettere le mani davanti alla bocca prima che un fiotto caldo e acido gli spruzzò tra le dita sporcando la coperta. La febbre lo stava consumando e la vista traballava ma l’ora sulla sveglia era la stessa delle altre notti, le due e ventitré.
Il bisbiglio nell'orecchio di Guido divenne presto forte come un urlo ma lui stesso non poteva muoversi, tutti i muscoli erano paralizzati. Il respiro era superficiale e il battito veloce come quello di un animale braccato.
Sentì tutto l’odio riversarsi nella sua camera e questo gli fece perdere la ragione.
Riuscì con uno sforzo immane a sedersi sul letto e tutto ciò che vide nel buio della stanza, fu l’immagine di un uomo nello specchio, con la faccia aperta da una ferita e sanguinante e gli occhi sbarrati.
La sua bocca era spalancata e tutto ciò che usciva, era un verso osceno.
Hootahoo m'haa oghe, hootahoo m'haa oghee, hootahoo m'haa ogheeee... Orhee, oorheee, heedhehoooo oorhraiiii!

L’uomo nello specchio non era vivo e l’uomo seduto nel letto era negli ultimi attimi della sua vita.
Il suo cuore stremato si sarebbe fermato per sempre da lì a pochi secondi.

Solo il tempo di osservare lo sconfinato, oscuro orrore di un fantasma che in vita ha perso tutto.









lunedì 25 gennaio 2016

luoghi insoliti: Sportello 41, scala b, terzo piano.

luoghi insoliti: Sportello 41, scala b, terzo piano.: Sportello 41, scala b, terzo piano. La sala d'attesa è semibuia, le pareti tristemente spoglie, l'aria viziata. Gino v...

Sportello 41, scala b, terzo piano.







Sportello 41, scala b, terzo piano.


La sala d'attesa è semibuia, le pareti tristemente spoglie, l'aria viziata.
Gino varca la soglia e sgrana gli occhi. Pensava, o meglio sperava, di trovare poca gente invece nella sala ci saranno almeno una sessantina di persone, tutte già nervose, tutte già impazienti.
Gli sportelli sono ancora chiusi, tutti e quattro. Un orologio sulla parete indica che mancano due minuti all'apertura.
Deve prendere il numero.
Una vecchia, dalla voce acida, indica a Gino il numeratore sulla parete opposta.
Ma io devo solo consegnare un modulo...
Deve prendere il numero!
Insiste la vecchia con la sua vociaccia.
Gino desiste, va a staccare un biglietto di carta grigia che riporta un numero stampato: settantaquattro!
Si gira verso un signore con un Loden verde molto fuori moda e sussurra: ma io dovevo solo lasciare un foglio... Ma il tale col Loden fa finta di non sentire.
Poi cambia idea perché guarda verso Gino e dice:
Tutti qui devono solo lasciare un foglio o ritirarne un altro o compilare una domanda o chiedere un'informazione. Non la faranno passare mai, quindi si prenda il suo numero e aspetti il turno.

Gino capisce, si rassegna e si cerca una sedia vicino all'uscita. Così, per sentire l'aria fredda che arriva da fuori.
È una bella giornata invernale, con un po' di pazienza presto sarà fuori a godersela.
Nel frattempo gli sportelli sono stati aperti e le prime quattro persone stanno già parlando con gli impiegati.
Bene, pensa Gino, quattro alla volta non ci metteranno molto a smaltire questa gente.
Venti minuti dopo i primi quattro, sempre gli stessi, stazionano ancora davanti agli sportelli.
Dopo quaranta minuti Loden verde ha chiamato un ragazzino col cellulare, il figlio probabilmente, e si è fatto portare un giornale. Con il suo quotidiano si sistema comodo sulla sedia di plastica dura e si mette a leggere con sguardo serio e concentrato.
Nel frattempo la sala si è ulteriormente riempita.
Gino aspetta due ore prima di vedere Loden verde alzarsi, piegare il giornale e avvicinarsi a uno sportello.

A intervalli di quindici minuti un impiegato per volta lascia lo sportello. Semplicemente indica alla persona successiva di attendere sulla striscia gialla per terra, si alza e si assenta probabilmente per una pausa caffè.
Dopo circa due ore e tre quarti davanti allo sportello numero quattro c’è la persona che ha staccato il biglietto n. 73.
Gino scalda i motori.
Guarda la sala ancora piena per metà di gente annoiata, stufa, inacidita.
Guarda il display che riporta il numero settantatré e che lampeggia rosso.
Guarda gli impiegati ai quattro sportelli che dialogano cortesemente, quasi amabilmente con le persone di là dei vetri.
Poi, come per magia, un lieve suono indica il cambio del numero, Gino legge quasi incredulo;
N.74 sportello: 2
Per un momento si sente paralizzato, la lunga attesa gli ha anchilosato gli arti inferiori, non riesce a muovere un muscolo. Poi la volontà e la concentrazione vincono l’inerzia e Gino si dirige a passo di carica verso lo sportello numero due.
Como dice? Non va bene? Gino non crede alle sue orecchie.
La domanda va redatta con apposito modulo e non su carta semplice…no, il modulo non è disponibile agli sportelli…un momento che sento il dirigente preposto…signore non si arrabbi, sto facendo il mio lavoro… sì, come dice? Posso farlo salire? Certo, lo mando all'ufficio protocollo, grazie…
Gino vorrebbe interrompere quell'odiosa telefonata, chiarire all'interlocutore che ha aspettato ben settantatré persone per sapere che non doveva fare quella coda!
L’impiegato gli sorride e con fare professionale e premuroso gli indica l’uscita alle sue spalle.
Deve dirigersi alla destra dell’ingresso,  da lì partono due scale, deve prendere quella di destra, certo c’è anche un ascensore ma è riservato ai dipendenti. Al secondo piano prenda il corridoio di sinistra e conti quattro porte. Sulla quarta una targa indica; Ufficio Protocollo.
Non può sbagliare, lo congeda l’impiegato e a suggellare l’addio, il display suona e segnala che è il turno del numero settantacinque.

Gino va verso l’ingresso lasciando con sollievo la sala d’attesa, individua le scale, segue le istruzioni e sale al terzo piano. Controlla il fiatone, poi prende a sinistra conta quattro porte e legge: Segreteria!
Per un attimo si sente confuso, torna in dietro, riconta fino a quattro leggendo tutte le targhette su ogni porta e la quarta dice inequivocabilmente: segreteria. Dell’ufficio protocollo neanche l’ombra.
Allora bussa alla porta della segreteria, si affaccia e si schiarisce la voce,
Le due donne sedute davanti ai computer devono essere sorde e cieche perché continuano a fissare davanti come se non fosse entrato nessuno.
Gino azzarda un flebile: scusate.
La più vicina finisce di digitare una frase. La rilegge quindi si decide ad alzare lo sguardo verso il nuovo entrato.
Desidera?
Scusate, cerco l’ufficio protocollo.
E’ al piano di sotto. La risposta è perentoria e il tono arrogante.
Gino si vergogna dell’errore e si ritira arretrando.
Poi torna alle scale.

L'ufficio protocollo.

L'ufficio protocollo è effettivamente al secondo piano come ha modo di verificare Gino scendendo le scale di un piano, prendendo il corridoio di sinistra e contando quattro porte.
Gino bussa e attende. Nessuna risposta. Attende mezzo minuto poi bussa nuovamente. Silenzio.
Che cosa fare? Mica si può entrare negli uffici pubblici senza un esplicito invito. Nemmeno può restare nel corridoio in attesa che succeda qualcosa, si dice l'uomo, che ha preso coraggio e decide di aprire la porta e chiedere informazioni.
Abbassa la maniglia, apre la porta e infila la testa lasciando fuori il resto del corpo.
Con sorpresa si accorge che l'ufficio è vuoto. Non fa in tempo a ritrarsi che una voce brusca lo sorprende alle spalle.
Che cosa fa lei, non si può entrare!
Gino per la seconda volta si vergogna come se fosse un ladro. Balbetta delle scuse e mostra il suo foglio.
Ma questa domanda non va bene scritta così.
Gino ha un brivido. Che cosa devo fare? Chiede.
Lei deve presentarla compilata sull'apposito modulo.
E dove lo trovo l'apposito modulo?
Un momento che sento l'ufficio anagrafica.
La porta si richiude sul naso di Gino che vorrebbe dire che dopo tre ore di agonia non se la sente di aspettare in un corridoio vuoto davanti una porta chiusa, che è stanco e nervoso e vorrebbe qualcuno che gli parlasse guardandolo in faccia, che gli spiegasse...
La porta si riapre, l'impiegato si affaccia e porge il foglio di carta a Gino, fa un sorriso.
Penso di poterla aiutare, signore.
Gino sorride a sua volta, incredulo.
L'impiegato spiega a Gino che ha mandato una mail ad un collega che gli invierà sulla posta elettronica il modulo appropriato cosicché Gino, una volta stampato, potrà compilarlo e portarlo nuovamente agli sportelli al piano terra.
A Gino il sorriso si spegne.
Deve solo attendere che il collega spedisca la mail.
Gino chiede dove deve aspettare e l'impiegato gli spiega che al primo piano c'è una piccola sala d'attesa per il pubblico. Dovrà attendere solo dieci, venti minuti e tornando troverà il suo modulo pronto e stampato.
Così Gino scende di un piano e trova subito la saletta. Prima di sedersi guarda fuori dalla finestra e si accorge che il cielo che prima era luminoso ora si va coprendo di gonfi nuvoloni scuri.

E' quasi ora di pranzo ma Gino che non ha nessuno a casa che lo aspetti, decide di prendere un cappuccino alla macchinetta distributrice li, mentre attende.
Il cappuccino è bollente e Gino perde più minuti del previsto.
Si riscuote e decide che è ora di tornare al protocollo.
Lentamente torna alle scale e sale due piani.

Poi conta quattro porte e si ritrova davanti alla segreteria!


Il modulo giusto.

Gino legge la targa sulla porta. Segreteria.
Rimane con il braccio alzato a mezz'aria mentre si rende conto di avere sbagliato piano.
Non sa se essere arrabbiato con se stesso, preoccupato per una sua potenziale demenza o se mettersi a ridere.
Pensa che se esprimesse tutte queste emozioni contemporaneamente, qualcuno vedendolo chiamerebbe un'ambulanza.
Scende mesto le scale e ritrova l'ufficio giusto. Il percorso gli sta diventando familiare.
Bussa alla porta e attende.
Nessuna risposta.
Bussa nuovamente.
In quel momento passa una persona e vedendo Gino fermo davanti all’ufficio protocollo chiuso si premura di avvisare che gli impiegati di quella stanza vanno puntualmente in pausa pranzo tutti i giorni alla stessa ora, cascasse il mondo.
Gino alza flebile una protesta, mi avevano detto che avrei avuto il modulo giusto...
Non si preoccupi, lo rassicura l'uomo. Torneranno nel giro di mezz'ora.
Gino resta solo, nel corridoio, senza modulo e con poche speranze di averlo.
Allora prende una decisione, andrà via senza presentare la domanda e se ci saranno problemi pazienza...
Scende le scale, attraversa l'atrio e prima di uscire in strada getta lo sguardo verso la sala d'attesa vuota. Una cosa attira la sua attenzione. Su un sedile è stato abbandonato un quotidiano accuratamente ripiegato.
Gino devia e va a raccogliere il giornale. È quello del mattino, di quel tizio col cappotto verde.
Ma sì, pensa, magari passo il tempo leggendo il giornale e aspetto che tornino gli impiegati. Tanto la mattina è ormai persa.
Gino mette il giornale sotto il braccio e torna nuovamente fiducioso verso la saletta al primo piano.
Attorno a lui dipendenti dell'ente scendono le scale, vocianti, diretti fuori per il pranzo.
Una cameriera col grembiule di un bar esterno gira con un vassoio in mano per raccattare dai vari uffici le tazze usate per le colazioni estemporanee.
Gino si siede su uno scomodo sedile di plastica bianca, apre il giornale e si mette a leggere.

Notizie politiche, cronaca nazionale, cronaca cittadina, spettacoli, cultura, pagine sportive, quando non rimane che il cruciverba Gino sente il rumore dell'ascensore e si riscuote dal torpore in cui era precipitato.
Ripiega il giornale, lo mette in tasca e torna per l'ennesima volta all'ufficio protocollo.



L'antro della bestia.

L'impiegato dell'ufficio protocollo spiega gentilmente a Gino che non ha ricevuto ancora la mail del suo collega e non sa come aiutarlo.
Gino vorrebbe non essere mai uscito da casa.
Il collega che ha ascoltato dalla sua scrivania, improvvisamente si alza e richiama l'attenzione dei presenti.
So come fare!
Gino si commuove.
Telefono alla signorina Collolungo dell'ufficio relazioni col pubblico.
Chi? Chiede il collega.
Chi? Vorrebbe chiedere Gino, ma non gli esce la voce.
Si, la signorina Collolungo, la titolare dell'URP, quella acida con una voce da soprano che nessuno sopporta...
E secondo te come può aiutarci?
Lei ha tutti i moduli esistenti, ha un archivio aggiornatissimo, è maniacale in questo, lo sanno tutti.
Il mio collega ha ragione, vada alle relazioni con pubblico e si faccia dare il modulo xz39, poi torni qui che la aiutiamo a compilarlo.
Gino vorrebbe piangere ma si limita a chiedere indicazioni per trovare l'URP.
Mentre l'altro telefona alla Collolungo il primo impiegato spiega:

Sportello 41, scala b, terzo piano.
Gino lo fissa con labbra tremanti.
Allora l'impiegato s’impietosisce e precisa, scenda fino al piano terra, poi oltrepassa l'atrio, prima di arrivare nella sala d'attesa vedrà un corridoio molto lungo, lo prenda, alla fine troverà quattro scale, prenda quella contrassegnata dalla lettera b, vada al terzo piano, poi è semplice bussi alla porta n.41.
Oppure segua la voce, scherza il secondo collega.
Gino ringrazia e con gambe malferme esce dall'ufficio protocollo.

La signorina Collolungo è una sessantenne magrissima, con una crocchia di capelli grigi, occhiali spessi e tenendo fede al cognome, il collo abnorme. Fissa con sguardo astioso Gino, sembra quasi provare odio ma non può fare finta di non capire come fa normalmente per liquidare l'utenza, perché ha parlato con l'impiegato del protocollo.
E poi la richiesta è chiara e semplice.
Modulo xz39.
Gino ha il terrore di quella donna, non vede l'ora di uscire dalla stanza.
Lei non smette mai di fissarlo, anche mentre trova con gesti secchi e precisi il modulo tra centinaia di dossier impilati disordinatamente.
Tende il foglio di carta e Gino nell'afferrarlo quasi esce correndo.
Altro che sportello 41, l'antro della bestia!
Piano piano, cercando di controllare il respiro affannato, Gino scende le scale per poi risalirne altre e tornare di nuovo all'ufficio protocollo.

Il modulo è compilato e controllato dai due impiegati, Gino vorrebbe abbracciarli.
Ora cosa devo fare?
Semplice, rispondono i due come gemelli siamesi, scendere al piano terra agli sportelli, prendere il numero e consegnare la domanda quando sarà il suo turno.
Gino ammutolisce.
Non so come ringraziarvi. Riesce a sussurrare con voce spezzata.
Suvvia non è nulla, fa il primo impiegato. Facciamo solo il nostro lavoro, aggiunge giulivo il secondo.
Gino torna al piano terra, attraversa l'atrio, entra nella sala d'attesa che nel frattempo si è riempita per le attività pomeridiane e prende il numero: 32!
Guarda il display che gli rimanda una triste verità, stanno passando l'utente numero tre.
Gino vede una sedia libera e ci si lascia andare sopra.
Ha il giornale in tasca ma non ha forza per leggere. Guarda l'ora e scopre che sono passate le quattro del pomeriggio.

Quando Gino esce dall'edificio è stremato. Il cielo sta diventando buio.  
Gino si siede sui gradini in pietra davanti il grosso portone d'ingresso.
Poi vede che sta passando un tizio con un cappotto e lo chiama.
Scusi, credo che questo sia suo.
Gli porge il giornale.
Ci conosciamo? Chiede l'uomo.
Ci siamo incontrati stamattina in questo palazzo.
L'uomo lo guarda stranito. Ma lei sta uscendo ora! Ha passato la giornata li dentro?
Già. Riesce solo a dire Gino.
Cosa doveva presentare, qualcosa di veramente molto importante! Azzarda l'uomo col loden verde.
No, niente di speciale.
Un’autocertificazione per avere una giornata di permesso dal lavoro, sa, stamattina era davvero una giornata bellissima.
L'uomo col loden verde guarda Gino con commiserazione.
Mi stia bene. Buona sera.
Buona sera a lei. Risponde Gino.










giovedì 14 gennaio 2016

Vietato avere paura.







Il mondo non aspetta. 
Nessuno.
Il mondo continua a girare nonostante tutto e tutti.
Nonostante le vostre certezze e le vostre paure.
Non bisogna avere paura.

Mi spiego meglio, non è conveniente avere paura. Non conviene affatto.
Al mondo ci sono due categorie di persone.
Quelli che parlano, che fanno discorsi, conferenze, che divulgano informazioni, fatti, istruzioni e lezioni. E altri che ascoltano, seguono, cercano di imparare e si lasciano guidare.
Ci sono alcuni che suonano, eseguono concerti, pizzicano corde, soffiano nelle ance, premono tasti e percuotono tamburi e altri che non possono fare altro che ascoltare.
Al mondo c'è chi fa e chi guarda. Chi decide e chi esegue, chi conduce e chi si fa tirare.
Non vengo qui a esprimere giudizi.
C'è bisogno di ognuno perché le cose funzionino, tutti devono fare la propria parte.
Ogni oratore ha bisogno di chi lo ascolti, ogni insegnante ha bisogno di una classe, ogni musicista di un pubblico.
Quello che non sappiamo è che a determinare da che parte staremo sono scelte, decisioni prese molto presto, quando siamo ancora tanto giovani. Spesso accade durante la nostra adolescenza, quando siamo presi da conflitti che nemmeno capiamo. 
Proprio in quegli anni si presentano delle occasioni, che non torneranno, su cui siamo chiamati a fare delle scelte.
E così il caso governerà la nostra vita senza che si possa esserne pienamente consapevoli.
E' proprio in quegli anni che non dobbiamo farci vincere dalla paura, che dobbiamo scegliere di essere avventatamente coraggiosi, che dobbiamo buttarci, rischiare tutto.
Perché solo chi sa rischiare da giovane raccoglierà buoni frutti in futuro. Agli altri le briciole.
Quelli sono gli anni in cui decideremo da che parte si passerà il resto della vita. Solo che non lo sappiamo, lo scopriremo molto più avanti e per molti sarà tardi.
Non parlo ai miei coetanei, mi rivolgo agli adolescenti, ai più giovani.
Non abbiate paura, siate avventati, coraggiosi, fate scelte rischiose.
Non rimanete dalla parte di chi guarda, di chi ascolta seduto tra il pubblico e di chi si fa tirare.
Scegliere di stare dalla parte di chi gli strumenti li fa urlare.
Rischiate anche qualche stonatura, alla fine tutti ricorderanno il vostro concerto.

Questo non è un post.

Questo è un avviso a tutti i ragazzi e le ragazze: VIETATO AVERE PAURA!







sabato 9 gennaio 2016

Quello che ci manca





Oggi fa freddo. Il terreno è ghiacciato e non c'è nessun altro a correre.
L'aria è gelida e penetra nella gola e nei polmoni raffreddando il corpo dall'interno.
Le comode scarpe da runner rendono morbidi i passi ma non sono sufficienti a tenere caldo, non ho messo i guanti così tutte le estremità mi si stanno congelando. Quando sono uscito un pallido sole mi guardava da est ma presto una grigia coperta gonfia di pioggia lo ha nascosto togliendomi anche l'illusione di un remoto tepore.
Poi la corsa ha posto rimedio, ho cominciato a sudare, le mani e i piedi sono tornati tiepidi e non ho più fatto caso alla temperatura estrema.
La radio ha fatto il resto, come sempre.
Mi tiene compagnia, mi distrae dalla fatica. La musica mi da il ritmo, i conduttori mi strappano sorrisi.
La trasmissione parla di come si devono sentire tutti quelli che hanno preso la decisione di lasciare il proprio paese per fare carriera, per trovare opportunità che non avrebbero avuto rimanendo al paese natale.
Ognuno ha un esperienza diversa, questo è normale, c'è chi parla di nostalgia, chi manifesta un poco velato rancore, chi sente di vivere a metà come uno straniero nella terra che lo accoglie e allo stesso tempo come chi ha abbandonato la sua casa e i propri cari, chi ancora si sente in parte tradito e in parte traditore.

La sensazione comune è un sentimento di mancanza, di nostalgia per un paese che al contrario a chi è rimasto non offre molto. Un paese che è mitizzato, idealizzato, addirittura solo immaginato da chi è figlio di emigrati partiti in gioventù.

Tanti anni fa, durante un viaggio negli Stati Uniti, conobbi alcuni figli di italoamericani, e nel sapermi giunto dalle celebri amate sponde mi abbracciarono e si rivolsero a me come fossi stato una reliquia, una specie di santo giunto a rivelare loro il paese dei genitori.

Non li avevo capiti, non avevo capito il loro senso di mancanza.
Non mi spiegavo come si potesse amare un paese che neppure conoscevano, che aveva costretto i loro cari a partire e a patire enormi sacrifici e ristrettezze.
Non avevo visto ciò che vedevano loro.

E’ vero che l’uomo non è un albero, non ha robuste, lignee radici ma cammina, a volte corre come in questo momento faccio io. L’uomo vive tante vite, tante esistenze spostandosi, viaggiando e cambiando paese, lingua, cultura. Allo stesso tempo abbiamo una radice profonda, che non è possibile recidere.

Altrettanto vero è l’assunto che non può mancarci una cosa che abbiamo, solo ciò che non abbiamo più ci crea un vuoto.
Un po’ come succede con l’amore di cui non ci curiamo, che non siamo capaci di coltivare quotidianamente, quando ci viene a mancare ci trafigge l’animo di dolore anche il posto in cui viviamo, che normalmente ci rende indifferenti ma in taluni casi si giunge a disprezzare genera una sorta di malinconia in chi lo ha abbandonato.

Torno con i piedi per terra, torno alla mia corsa. Il suolo è freddo e scivoloso ma mi accoglie e mi fa sentire a casa.