sabato 25 maggio 2019

Ala ovest









L'ala ovest del vecchio ospedale sulla collina era quella adibita al ricovero dei grandi anziani residenti.
Quelli che non avevano parenti o quelli la cui famiglia ne aveva dimenticato da tempo l'esistenza. 
Quelli il cui ricovero durava fino alla fine, e che alla fine ci morivano.
In realtà la struttura, una costruzione scrostata di due piani, risalente agli anni venti del ventesimo secolo, doveva essere dismessa da tempo. Poi, a causa della resistenza dei dipendenti e di qualche connivente forza politica locale, era stato deciso di lasciarla in piedi a morire d'inedia come se fosse una pianta dimenticata a cui mancano acqua e luce.

Erano rimasti in funzione gli ambulatori, corridoi polverosi pressoché ignorati al mattino ma luogo di fruttuosi affari e lucrose visite private alla sera, un servizio vetusto di radiologia, un piccolo refettorio e la cappella il cui cappellano si vedeva barcollare solo all'ora di pranzo, avendo passato la mattina al bar a riempirsi di grappini.

E l'ala ovest, quella degli anziani.

A dirigere la struttura c'era una suora. Suor Ernesta, chiamata "the Nun" dall'oculista grande estimatore di film horror che visitava nell'ambulatorio, era ormai in pensione ma rimaneva al suo posto, avendolo eretto a propria croce e missione di vita. Quella che restava a Dio piacendo, ripeteva sempre, visto che anche lei aveva superato gli ottanta.


Gli anziani erano diventati un organismo quasi indipendente.
Certo, avevano un sorvegliante, il cappellano per il conforto dello spirito e un paio di giovani e svogliate infermierine che il moderno ospedale giù in città distaccava a turno.

Il vecchio ospedale sulla collina, quando il sole calava sotto l'orizzonte, sembrava proprio un luogo di fantasmi.



-Mio nipote, quando vivevamo assieme, anzi quando vivevano tutti a casa mia, non faceva altro che vedere film di zombi e giocare alla pleistescion con giochi in cui mostri cercavano di mangiare il cervello del protagonista...
-Lascia perdere, ti ho detto. Non tocchiamo più quest'argomento.

I due vecchi vicino alla finestra dimostrano cent'anni l'uno e hanno mille rughe sulla faccia ma stanno belli dritti a guardare fuori la luna.

-Noi siamo diversi.
-Ma...

-Niente ma. E' una questione di sopravvivenza. Non siamo mostri e dobbiamo nutrirci e qui non c'è molto passaggio di gente, se non te ne sei accorto.
-Ma l'infermiera era così giovane, appena una ragazza... qualcuno la verrà a cercare.

-Hai timbrato il suo cartellino in uscita come ti ho detto?
-Si, come hai detto...
-Allora ufficialmente ha terminato il turno ed è andata via. Se verranno qui confermeremo questa versione.
-Ma...
-Niente ma, ti ho detto! Non vorrei ricordarti che hai pranzato anche tu e come ti è piaciuto...

Il Vecchio resta in silenzio e abbassa il capo come fosse pentito.
Il più alto riprende a parlare.

-Marietta è stata la prima. E' successo di notte. Il guardiano non si è accorto di niente. Io ero in camera sua, sai quanto abbia provato a combinare qualcosa con quella donna anche se non funzionava più niente la sotto... ora è tutto diverso e il motore gira che è una meraviglia... ma lei non mi va a morire sotto gli occhi, mentre mi stava parlando? Io non sapevo che fare, la chiamo, la scuoto, sento il polso ma niente, tutto inutile. Me ne resto seduto sul suo letto a fissare la porta quando lei che fa? Si mette a sedere e comincia a leccarmi un orecchio, ma ti sembra un comportamento normale per uno che è appena morto?
-Ma...
-Quale ma e ma, ho pensato, chissenefrega, è la volta buona che si combina qualcosa, quando lei mi morde un orecchio, non è stato troppo doloroso ma che schifo quando ha cominciato a masticare, poi non ricordo molto se non che quella notte abbiamo fatto un bel po' di proseliti.
-Non mi voglio lamentare, ora sto decisamente meglio, non sento più i dolori alla schiena e le gambe sembrano quelle di un giovanotto... ma quando prende la fame...
-Ci pensiamo quando arriva. Hai ancora in bocca il gusto dell'infermierina... se tutto va bene, qui nell'ala ovest ci staremo come nababbi.
-Lo spero, spero tu abbia ragione.

I due guardano fuori, la notte che si prepara a diventare giorno.
Sanno che presto la fame tornerà per tutti loro ma in qualche modo faranno e nessuno farà caso a un gruppo di vecchi ricoverati quando altre persone spariranno.

Intanto è ancora buio e sono al sicuro.
Nessuno si farà vivo.

Dopotutto il vecchio ospedale sulla collina, quando il sole scende sotto l'orizzonte, sembra davvero un luogo di fantasmi, no?







sabato 18 maggio 2019

Il viandante e la foresta









Immaginiamo.

Immaginiamo di essere in una grande sala per esempio una palestra o un salone da ballo col pavimento di legno e specchi e tendaggi alle pareti.

Immaginiamo di fare parte di un gruppo nutrito, venticinque o trenta persone.

Non siamo qui per danzare, non siamo in grado di farlo se non con buffi e goffi tentativi.



Immaginiamo che chi ci abbia guidato in questo luogo ci dia istruzioni precise e immaginiamo di seguirle.

Ci disponiamo nella sala in modo da riempire ogni spazio, da essere tutti né troppo vicini né troppo lontani dalle altre persone.

Volendo, senza staccare i piedi dal suolo, solo allungando le braccia e spostando o ruotando il tronco, si riesce a sfiorare la mano delle persone che si sono messe davanti, dietro, ai nostri lati.



Immaginiamo di essere alberi.

Ecco cosa siamo. Alberi di una foresta umana, persone i cui piedi sono radici inamovibili, ben piantate nel terreno e le cui braccia sono rami che possono spostarsi spinti dal vento della volontà.



Immaginiamo che a lato di questa foresta ci sia un viandante.

L'uomo, che deve attraversare il salone, scusate la foresta, è cieco, infatti, mantiene gli occhi chiusi, a simulare tale condizione.

Chiunque capisce che un cieco potrà attraversare una foresta, che sia costituita da alberi dal tronco ligneo oppure da persone, solo se aiutato dagli altri sensi, ma sappiamo anche che chi si finga cieco non ha sviluppato questi sensi.



Non resta agli alberi altra possibilità che allungare rami/braccia verso il viandante cieco e guidarlo così nella sua traversata.

Ecco che i rami iniziano a muoversi, dapprima dolcemente, poi frenetici nel tentativo di non abbandonare il viandante e lasciarlo vagare solo nella sua oscurità.

I tronchi si piegano in avanti, i rami si tendono quasi a spezzarsi, gli alberi assumono posture impossibili per ogni albero che non sia un poco umano ma ogni angolo del salone, anzi della foresta, è saturo di movimenti materni, protettivi e avvolgenti.

Mani si sfiorano, si riconoscono, dita si stringono e polsi ruotano a guidare la direzione e il cammino del cieco viaggiatore.

Il viandante è condotto da una volontà collettiva, che supera ogni interesse individuale da parte degli alberi che, come tali, altri interessi non hanno se non quello di nutrirsi con l’acqua che piove dal cielo e che penetra la terra, assorbire i raggi del sole che riscalda e nutre le foglie con la sua luce e proteggere i viandanti che si trovino a passare attraverso la foresta.


Ora immaginiamo per un momento di essere il viandante.

Muoviamo il primo passo, incerti, a occhi chiusi e tendendo una mano davanti al nostro viso.

Apriamo il palmo, come chi chieda una moneta per mangiare ma ciò che chiediamo noi è di sentire l’altro che ci afferri, che ci faccia avvertire la presenza e che ci faccia capire che non siamo soli nonostante le tenebre.

Poco per volta le nostre mani diventano i nostri occhi, lasciamo una presa solo quando un’altra mano accorre incontro e in questo modo siamo sempre in contatto con qualcuno e possiamo lasciarci andare, come un bambino si lascia cullare dalla mamma e senza un pensiero si addormenta, come una bambina si lascia spingere sull’altalena dal proprio papà ridendo felice.

Così il viandante, che stiamo impersonando, vaga felice in questa foresta buia, libero da pesi e responsabilità, senza paure e dubbi perché sa che gli alberi lo proteggeranno e lo guideranno e le persone che stanno giocando attorno a lui si prenderanno cura della sua persona.


Il buio scompare lasciando il posto a una pioggia di scintille chiare, una lenta nevicata di fiocchi bianchi e qualsiasi altra cosa il viandante voglia immaginare perché libero dal dovere di prestare attenzione al percorso.

La foresta è una casa calda e accogliente e il viandante ci sta bene come un bimbo nella sua culla.



Immaginiamo.

Immaginiamo di poterlo fare ogni volta che se ne ha voglia.

Poi il gioco finisce e tutti si sentono bene.




















mercoledì 8 maggio 2019

ANNA









Anna era felice. 

Non sapeva perché ma era così che si sentiva. 

Gironzolava tra le stanze vuote, ignorando la voce della sua mamma che la stava chiamando. 

Era salita nella soffitta, mamma le aveva detto di stare attenta e di non sporcarsi, ma la scala era sicura e lei era troppo curiosa. 

In quella penombra sudicia, che sapeva di muffa, ci aveva trovato un’antica cassettiera rovinata, il cui contenuto era solo polvere, qualche cartaccia, un mucchietto di spilli da balia arrugginiti e un paio di bottoni blu. 

Quel paio di bottoni. 

Sarebbero bastati un paio di straccetti da cucina, un gomitolo di lana gialla e avrebbe potuto riabbracciare la sua Anna. 

La piccola bambola di stoffa che le aveva tenuto compagnia durante i lunghi anni dell'infanzia. 

Anna era certa che quei bottoni trovati nella cassettiera fossero proprio quelli, gli stessi occhi che aveva avuto la sua bambolina. 

L’aveva chiamata col suo nome, così le era piaciuto fare, anche se non sapeva il perché. 

Anna non era in grado di spiegarsi molte cose, soprattutto quelle riguardanti l’origine delle proprie emozioni. Oggi però si sentiva felice. 

Anna pensava che essere felice fosse legato al fatto di aver ritrovato gli occhi di Anna, la sua bambola. 

La mamma chiamò di nuovo e questa volta il tono era chiaro: non ignorarmi! 

Anna era una ragazza buona e ubbidiente e rispose immediatamente. 

Mise i bottoni in tasca e corse dalla madre. 



Quella che avevano visitato era la casa della nonna. Nonna era andata in cielo tempo prima, non ricordava che mese, e Anna aveva pianto per questo. 

Lei non aveva capito bene com’era successo né perché dovesse piangere, ma la mamma singhiozzava e questo l'aveva resa molto triste. 

Inoltre quando a piangere era lei, sua madre smetteva subito per correre a consolarla e accarezzarle la testa e lei avrebbe fatto qualunque cosa per far smettere di piangere sua madre. 

Anna era così, dopo la sua bambolina, la sua mamma era la persona cui voleva più bene. 

La nonna era andata via e lei non aveva ancora deciso se poteva continuare a volerle bene oppure no. 





A scuola le cose andavano abbastanza bene, il suo maestro di Sostegno era dolce e paziente. Chissà poi perché lo chiamavano in quello strano modo… “di Sostegno”. 

Forse era come dire “da Vinci” come quel signore geniale che aveva studiato. 

A volte i compagni la prendevano in giro, in quei momenti avvertiva la mancanza della sua Anna, da stringere al petto. Ma sapeva una cosa, lei non era ritardata, era solo speciale. Era nata con quella cosa, la sindrone, non quella di Gesù, e scritta forse in modo diverso. 

Ma il maestro di Sostegno, le altre insegnanti e alcune ragazzine, erano buoni con lei e la aiutavano quando rimaneva indietro. 

A casa le cose andavano bene ma forse un po’ meno. 

Mentre a scuola c’era sempre qualcuno disposto a giocare con lei o ad aiutarla nelle attività, a casa la mamma doveva lavorare e non aveva sempre tempo libero. La sera era stanca e si addormentava presto, davanti alla televisione, così lei andava a mettersi a letto e stava ad aspettare che mamma venisse a spegnere la luce. 

Spesso rimaneva con gli occhi aperti a fissare il buio, sperando che non succedesse niente di brutto, ma di mattino, quando si svegliava, si sentiva un poco stupida per questa paura. 

Le dispiaceva non poter dormire con la sua Anna, come faceva da piccola. 





Adesso tutto sarebbe andato meglio. Sarebbe tornata la sua Anna, la sua bambolina. Si sarebbero riabbracciate e non si sarebbero lasciate mai più. 

Perché una cosa Anna l'aveva capita, anche senza l'aiuto dell'insegnante di Sostegno. Tutti prima o dopo, se ne andavano e anche la sua mamma l'avrebbe lasciata. Certo, Anna sapeva che avrebbe pianto, ma dopo un po’ avrebbe anche smesso di farlo. 

Non si poteva mica piangere per sempre, questo lo capiva anche lei, nonostante la sindrone

Aveva ritrovato i bottoni blu e avrebbe potuto guardare negli occhi la sua Anna. 

Mamma era stata lasciata, quando lei era molto piccola, dal suo papà, poi nonna era salita in cielo, per forza che era sempre triste e piangeva. 

Anche Anna, la bambolina, era scomparsa tanto tempo prima, però lei era una ragazzina fortunata perché ne aveva ritrovato gli occhi e adesso avrebbe fatto di tutto per non lasciarla da qualche parte. 

Con la sua bambola stretta al petto, non sarebbe successo niente di brutto e lei era felice di questo. 



Mentre tornava a casa, strinse la mano della mamma e con la mano infilata in tasca, strinse i due bottoni, come fossero monete preziose. 

Anna, non ti abbandonerò mai. 

Un sorriso si aprì sul viso e non la lasciò più.












domenica 5 maggio 2019

la verità nel contrario delle cose









Mi chiamo Giorgio.

E sono un tipo curioso.

Tempo fa scrissi una frase che diceva: "cerco la verità nel contrario delle cose".

Lo so, ogni tanto scrivo frasi per puro impulso, senza curarmi del loro significato, per poi analizzare cosa volevo dire solo in seguito.

A mia giustificazione potrei citare dei nomi di gente che parla a caso, per puro impulso, senza curarsi delle conseguenze. Da riempire uno stadio.

Ma torniamo alla scrittura…

È una specie di psicoterapia fatta in casa e molto economica, un po’ come quando vi dicono una parola e vi chiedono di replicare con la prima cosa che vi viene in mente. Avete mai provato? Vengono fuori cose interessanti.

O preoccupanti, secondo i casi.



Ma che significa cercare la verità nel contrario delle cose? A un'analisi frettolosa mi fa sembrare una specie di Bastian Contrario, uno che se gli dite è bianco, vi risponde no, è nero!

Vi assicuro che non sono così.

Non sono uno che non si fidi degli altri. Affido quotidianamente decisioni, strategie, comportamenti a ciò che mi consigliano i miei cari, i collaboratori, gli esperti di un settore, le persone che decido di consultare.

Ma state tranquilli, nel farlo, provvedo sempre a valutare cosa succederebbe se prendessi una decisione diversa o se attuassi una strategia opposta.

Mi capita anche di ricercare il significato profondo delle questioni che sento dibattere e di non dare niente per scontato.

Una vitaccia.

Dopotutto è un po’ come nello sport, se si vogliono raggiungere dei risultati, occorre sudare, soffrire, stancarsi. Non si corre la maratona se si preferisce poltrire sul divano a guardare una serie televisiva dopo l'altra.



Quanto al problema della verità c'è ancora molto da dire.

Ogni volta che ascolto qualcuno parlare, che sia un esperto, un accademico, un’autorità in qualche materia, penso a quanto siamo lontani da qualunque tipo di verità e a quanto l'incrementare le conoscenze e le scoperte in realtà spesso ci allontani da questa.

Lo stesso mi capita quando termino di leggere un libro e quest’opera consigli o stimoli diverse altre letture per approfondire l'argomento.

Non parliamo di chi fa della retorica una professione, un credo.

Diffido di chi ha molto da guadagnare a farci bere la sua verità perché è con questa credulità che consegue il successo personale, la riuscita di un programma, il futuro del proprio partito, la conquista di una poltrona.

Qui ci si gioca molto, belli, e non saranno grandi discorsi, fervore o trasformismi vari, a irretirmi come un merluzzo. No, cari, questo è il momento di fare severa critica e non farsi affascinare dalle sirene e muoverci come una marea che segue la luna.

Occorre leggere, distinguere le fonti, approfondire, è un lavoro infame e dispendioso.

Il problema è quello comune a tutti: non basta una vita.



Siccome ne abbiamo una sola, preferisco non perdere tempo con certe letture vane, con certi “esperti” della domenica, con certi politici arrivisti, con certe persone vacue.



Col tempo si fa esperienza e s’impara che ciò che ci raccontano ha anche un opposto e che in mezzo ci sono tante gradazioni.

Alla verità piace giocare a nascondino.



Io cerco e nel frattempo non mi faccio distrarre dalle innumerevoli persone che m’impediscono di cercare la verità nelle cose e soprattutto di cercarla, come mi piace fare, nel loro contrario.