Sono arrivate. Dalla A alla Zeta:
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/racconti/661267/le-donne-del-ventitre/
Con amore.
Sono arrivate. Dalla A alla Zeta:
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/racconti/661267/le-donne-del-ventitre/
Con amore.
“Nonna, mi racconti di
quando lasciasti l’Ermete in piedi sull’altare come uno stoccafisso?”
“Ora taldèg… se mi ricordo…”
La Zelda ne aveva
centinaia di ricordi, forse migliaia e a forza di ripeterli, tanti si erano
mischiati.
Le sue memorie sono
sempre state, come diceva lei fin da giovane, uno scaramaz, una confusione
totale e ora più che mai.
Nonna Zelda, che in
realtà è la bisnonna di casa, avendo compiuto i centouno anni, apre gli occhi
al soffitto, due puntini neri che ormai non vedono quasi più ma che devono
averne viste di cose, e, infatti, ora deve vedere il suo Ermete…
“Semprini, si chiamava
l’Ermete, uno che non era buono nemmeno a fare l’umarel davanti a uno scavo, uno che non aveva lavorato mai un
giorno in vita sua…”.
“Però lo stavi
sposando!” insiste la ragazzina.
“Mica ho detto che era
brutto! L’Ermete era uno che quando camminava le donne ci perdevano le bave
dietro, finanche quelle sposate! E poi sempre distinto, sempre elegante, quando
venne a casa a chiedermi in sposa, il mio babbo fece gli occhi dolci anche lui
che l’Ermete sembrava un dottore!”.
“Nonna, poi perché lo
lasciasti?”
Zelda ride, anche senza
dentiera il suo sorriso è di una bellezza senza tempo, contagioso.
“Chi se lo ricorda, ma
forse perché io mica avevo bisogno di uno che sembrava un dottore, di dottori veri
ne potevo avere quanti ne volevo, quando avevo vent’anni!”
Zoe se la ride, dalla
cucina la voce di sua nonna, la terza figlia di Zelda le grida:
“Lascia stare la nonna,
che se comincia non la finisce più e poi inizia a ridere così forte che se la
fa addosso e poi tu esci e a me mi tocca cambiarla…”.
Zelda invece ha
cominciato e non ne vuole sapere di smettere.
“ Mi ricordo ancora la
faccia dell’Ermete quando a metà della navata mi fermai, mi strappai il velo
dalla testa e tornai verso l’uscita correndo!”
“Prima di uscire mi
voltai, l’Ermete aveva raccolto il velo e ci si stava soffiando il naso, tanto
che piangeva come la fontana in piazza, con due occhi da vitello…”.
Zelda non smette di
ridere e nemmeno di raccontare.
“Venne il padre
dell’Ermete, per lamentarsi della figuraccia, con quei baffoni a manubrio,
pensava di spaventarci, invece il me babbo lo fece correre alzando il bastone
che usava per le capre…”.
La risata grassa di
Zelda sembra un singhiozzo ma la vecchia ci ha preso gusto.
“Nonna, lo hai più
visto?”
“Chi l’Ermete Semprini?
Certo che lo vedevo, aveva poi preso in moglie una certa Adalgisa, una grassona
che vendeva frutta e verdura ma si vede che le piaceva di più la piada con lo
squacquerone, ci andavo sempre a comprare la lattuga finché lei, saputa la
storia, non iniziò a tirarmela dietro appena mi vedeva, uno spasso…”.
La ragazzina pensa che
lo spasso sia ascoltare la sua bisnonna che racconta del suo passato. Immagina
che sia come in un film di Fellini, in bianco e nero ma pieno di tinte e di
emozioni.
Arriva dalla cucina sua
nonna con le mani ancora sporche di farina e si siede sul letto.
Zoe, ti ricordi l’anno
scorso, quando festeggiammo i cento anni di nonna e qualcuno le fece assaggiare
il Sangiovese frizzante e lei per ringraziare si mise a cantare Romagna mia…?”
“E chi se lo scorda!”
Intanto Zelda è andata
avanti.
“Dopo però, un
matrimonio bisognava ben farlo e allora mi diedero il nonno, lui sì che era un
pezzo di pane non come quello sburone
di suo padre” Lo dice ricominciando a ridere.
“Questo non ti ha
impedito di fare i tuoi scherzi…” La rimprovera sua figlia, come fa sempre.
“Il mio Angelo era
troppo serio, non rideva mai, capisco quando si andava a un funerale ma sempre,
no… quando gli nascondevo le sue cose, non si arrabbiava mai, restava in
silenzio con la faccia triste”
“Papà era un uomo
serio, e poi ci bastavi tu a fare la pagliaccia…” Irrompe la figlia di Zelda.
Ma sua pronipote ha
ancora voglia di ascoltare e la sprona.
“E poi nonna? Voglio
sapere!”
“Poi c’è stata la
guerra e, cosa volete, se non si rideva un po’ che vita ci restava?”
“E tu, tra una licenza
e l’altra del nonno, hai fatto tre figlie…”
“Sì, come ci rimaneva
male il mio marito, sapete, un'altra femmina… gli avevo fatto credere che
esiste una specie di bottone nella schiena che se lo premi mentre fai l’amore,
si può cambiare il sesso del bambino…”
Zoe si mette una mano
davanti alla bocca, imbarazzata, la nonna la sgrida e Zelda ride felice come
una bimba davanti a un gelato.
“Non ha mai smesso di
cercare…”
Zelda ricorda anche le
cose scabrose e le lacrime che zampillano dai suoi occhietti sono di puro divertimento!
La figlia cerca di
calmarla mentre la nipote non finisce di ridere.
Zelda è ispirata e si
rivolge a sua figlia.
“ Ti ricordi la
famiglia Ciavatta?”
“Chi? Non ricordo
nessuno con quel nome.”
“Per forza, si
chiamavano Cecchini!” Precisa Zelda, e poi prosegue.
“Poverissimi,
mangiavano solo pane secco, quello che noi tenevamo per le galline. Ogni tanto
gli si regalava qualche uovo. Tutti scalzi, poi il falegname con gli scarti di
legno fece loro degli enormi zoccoli che sembravano ciabatte e a loro cambiò la
vita e il soprannome…”.
I ricordi di Zelda
sembrano sogni appena giunti dal passato, dal sapore dolceamaro, proprio come
nei film di Fellini.
A volte sembra che Amarcord lo abbia scritto lei.
Zoe vorrebbe ascoltare
tutti gli aneddoti della sua bisnonna e pensa che dovrebbe scriverli per quanto
sono divertenti. Ma sa che non sarebbe la stessa cosa che ascoltarli dalla voce
di quella donna, che i ricordi li ha vissuti davvero.
Era arrivata quasi cento
anni prima, lì, sulla costa, ancora in fasce, proveniente da Bologna assieme a
una famiglia in cerca di un po’ di fortuna e di lavoro.
Sei ore col trenino a
vapore ci vollero.
Zelda era sempre stata
affascinata quando passava un treno e ogni volta faceva gli occhi dolci. Era
con tenerezza che guardava i treni che passavano, e sempre con un velo di
tristezza, con la nostalgia di chi sa che nessun treno l’avrebbe più riportata
indietro.
Per questo Zelda aveva
trascorso la vita a ridere e a fare scherzi, a cercare di portare sorrisi e
gioia sulle facce di chi le stava attorno.
Era così che voleva
vivere Zoe, allegra e solare, proprio come la sua bisnonna.
Pronta a scherzare su
tutto, a nascondere le cose e a non prendersi troppo sul serio.
“Su Zoe, canta con me!”
La mano dalla pelle
rugosa e color cuoio afferra la mano rosea e dalla pelle liscia della pronipote
e la stringe con insospettata energia.
La centenaria comincia
a cantare e la ragazzina l’accompagna con una voce molto più sottile.
“Romagna miaaaa… Romagna
in fioreee… tu sei la stellaaa… tu sei l’amoreee…”.
La figlia di Zelda le
osserva con amore e commozione.
È una scena tenerissima
che neanche Fellini si sarebbe sognato!
“Mo’ lasciami stare che
sono stanca e voglio dormire!”
La ragazzina passa una
carezza sulla guancia magra della bisnonna eccentrica. Le vuole bene e la nonna
lo sa.
Perché sorride ancora.
“As
videmm e se an si videmm as scrivemm!”
Zelda chiude gli
occhietti piccoli e immediatamente comincia a russare.
Chissà cosa sognerà.
Successe tutto molto in
fretta.
Violante, all’epoca, era
impiegata in una numerosa serie di lavori in parecchie case del paese. Faceva
di tutto, dalle pulizie al baby-sitting, dallo stirare alle lezioni agli
studenti in difficoltà. Era molto conosciuta e si faceva apprezzare per
puntualità ed efficienza.
Ultimamente si era offerta
per dare lezioni di yoga personali e aveva radunato un discreto numero di
persone interessate.
Insomma, le cose
andavano abbastanza bene, l’affitto della camera era onesto e lei era
soddisfatta e non aveva mai avuto problemi ad arrivare alla fine del mese.
Quando seppe
dell’incidente accorso a Pietro, si presentò immediatamente offrendo la sua
disponibilità a trasferirsi.
Pietro era Addetto
Tecnico Nautico, dipendente civile della Marina e si occupava del faro da
almeno venticinque anni e non voleva saperne di andare in pensione.
Quando lui cadde dalla
scala e fu operato, le possibilità furono due.
Lasciare il posto a
qualcun altro e ritirarsi oppure trovarsi un assistente che lo aiutasse a
trascorrere il periodo di riabilitazione, senza interrompere il lavoro.
Pietro non aveva grandi
attese, anzi, nemmeno si aspettava che qualcuno rispondesse presto all’annuncio
e di sicuro lo sorprese che la prima persona a presentarsi fu una donna.
Pietro ebbe molte esitazioni
ma alla fine si convinse ad assumere Violante. La donna non era troppo giovane,
a quarant’anni non si è più ragazzi da tempo, ma nemmeno troppo anziana.
Qualcuno in paese
avrebbe potuto vederci qualcosa di male e qualcuno lo fece di certo ma Pietro
non aveva tempo da perdere. Disse di sì e Violante nel giro di mezza giornata
fece i bagagli, pagò la stanza in affitto per tutto il mese e si trasferì
nell’edificio alla base del faro, in cui abitava Pietro.
Pietro aveva sempre
avuto a che fare con impianti elettrici e accumulatori ed era stato marinaio civile
per lunghi anni, prima di decidere di tenere i piedi sulla terra ferma e di
impiegarsi come farista. Ormai la grande maggioranza dei segnalatori era
automatizzata o dismessa, e lui si aspettava che da un momento all’altro anche del
suo faro non avrebbero avuto più bisogno ma non voleva che fosse il suo stupido
incidente a farlo mettere fuori gioco.
Violante capì dal primo
momento che non sarebbe stato facile con quel vecchio uomo di mare, abituato
alla solitudine e fece del suo meglio per diventare una donna invisibile.
I primi giorni
passarono così. Il cielo era coperto e una coltre di nuvole rendeva tutto
grigio e indistinto. Violante passava le ore a eseguire gli ordini aspri di
Pietro, a preparare i pasti, a pulire antiche ragnatele dagli angoli, a farlo
entrare in una vecchissima tinozza di legno e a versargli acqua tiepida sulla
schiena.
L’uomo non s’imbarazzava
della sua nudità, perché avrebbe dovuto, così era nato e così sarebbe morto,
inoltre doveva ben lavarsi e la donna era pagata per lavorare.
Lei scoprì che oltre
alle pulizie anche dare il bianco per rinfrescare le camere vuote, lavare le
vetrate della stanza della luce, sgomberare il vecchio capanno dalle masserizie
accumulate negli anni, rientravano nelle sue tante mansioni e arrivò a
chiedersi se avesse fatto bene a proporsi per quel lavoro.
Poi uscì il sole.
Quando Violante si
affacciò, dal punto più alto del faro, e vide il sole al tramonto, restò senza
fiato.
Il disco arancione,
ancora luminoso a sufficienza da ferire gli occhi di chi lo avesse fissato,
sembrava un maestoso, immenso biscotto infuocato, che andava a intingersi in
una tazza di schiumoso latte azzurro e tutto si dipinse della surreale cornice
di un colore indefinito, sfumato tra l’arancione, l’indaco e il blu, dove le
prime stelle della sera andavano a chiazzare il cielo tornato sereno. Nemmeno
quando era andata al museo di van Gogh, Violante aveva osservato colori così
intensi e spettacolari.
Era stata sul punto di
chiamare Pietro ma si era bloccata, sapendo che quei colori non sarebbero
durati per molto e non voleva perdersene nemmeno un istante.
Sapeva che il marinaio
doveva aver visti innumerevoli tramonti ed era uomo troppo pragmatico per
fermarsi più di tanto a perdere il suo tempo.
Già. Il tempo.
Al faro Violante stava
sperimentando una vita fatta di fatiche e lavoro duro ma senza tempo, dove i
momenti non erano scanditi dalle attività umane come mangiare, dormire, lavarsi
ma dall’alternarsi della luce e del buio, e dal ruotare dei cristalli
incandescenti che lanciavano il proprio segnale verso il mare aperto.
Violante aveva capito
presto che nel faro, il tempo era come sospeso e non importava che ora o che
giorno fosse, ma se il sole era ancora allo zenit, oppure stava calando e quali
condizioni meteorologiche fossero previste.
Quel tramonto, così
imprevisto, così violento e bellissimo l’aveva fatta innamorare senza rimedio
di quel luogo e tutti i posti da lei vissuti in passato persero importanza.
Violante prese a salire
di notte sul terrazzino e a osservare l’infinito, come dovevano aver fatto gli
uomini dell’antichità, il punto dove il nero del mare si fondeva col buio del
cielo e non c’era un confine. Poi alzava il viso e cercava di capire il mistero
dell’esistenza, scrutando tra i puntini luminosi che le facevano da soffitta.
Restava fin quando i brividi di freddo le impedivano di rimanere immobile e
doveva rientrare per scaldarsi.
Era capace di
riconoscere il grande e il piccolo carro, la stella Polare, la cintura di
Orione con Rigel e il triangolo estivo con Vega.
In passato una donna
che aveva creduto amica, con la passione dell’astronomia, la tediava con lunghe
descrizioni, le sere d’estate sul balcone. Violante ricordava con amarezza
quando il marito di questa aveva tentato di baciarla e lei aveva preferito
allontanarsi da quella coppia. Il silenzio e l’assenza dell’altra avevano fatto
nascere il sospetto che l’uomo avesse narrato alla moglie una versione diversa
dell’accaduto, ma tutto questo ora non aveva più importanza.
Le persone vanno e
vengono e la nostra vita è come una stazione ferroviaria, qualcuno parte per
non tornare mai più e non è detto che sia sempre un male.
Il cielo però non
sarebbe passato, era lì, immoto, da miliardi di anni e lo sarebbe stato per
altrettanto. Del cielo ci si poteva fidare e Violante non avrebbe mai voluto
staccare lo sguardo, nonostante il freddo, nonostante il sonno e i brividi.
Pietro l’aveva osservata
passare parte della notte in contemplazione delle costellazioni e aveva sorriso
pensando a lui giovane, sul ponte del peschereccio, a trascorrere la notte con
naso in su.
Violante aveva sempre
glissato, quando s’iniziava a parlare del loro passato e delle rispettive vite.
A Pietro non importava,
non gli sembrava che la donna avesse qualcosa da nascondere e comunque non
erano affari suoi.
Violante era la donna
perfetta, per la vita nel faro.
Non era importante il
suo passato, né il suo futuro.
Era lì ora e questa era
l’unica cosa che contasse.
Sotto quel cielo, sul
terrazzino del faro, Violante pensava la stessa cosa.
Viveva nel momento.
Era l’unica cosa che contasse.