domenica 30 luglio 2023

Le donne del ventitré

 




Sono arrivate. Dalla A alla Zeta:


https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/racconti/661267/le-donne-del-ventitre/


Con amore.






martedì 11 luglio 2023

Zelda, la ragazza spiritosa

 






“Nonna, mi racconti di quando lasciasti l’Ermete in piedi sull’altare come uno stoccafisso?”

“Ora taldèg… se mi ricordo…”

La Zelda ne aveva centinaia di ricordi, forse migliaia e a forza di ripeterli, tanti si erano mischiati.

Le sue memorie sono sempre state, come diceva lei fin da giovane, uno scaramaz, una confusione totale e ora più che mai.

Nonna Zelda, che in realtà è la bisnonna di casa, avendo compiuto i centouno anni, apre gli occhi al soffitto, due puntini neri che ormai non vedono quasi più ma che devono averne viste di cose, e, infatti, ora deve vedere il suo Ermete…

“Semprini, si chiamava l’Ermete, uno che non era buono nemmeno a fare l’umarel davanti a uno scavo, uno che non aveva lavorato mai un giorno in vita sua…”.

“Però lo stavi sposando!” insiste la ragazzina.

“Mica ho detto che era brutto! L’Ermete era uno che quando camminava le donne ci perdevano le bave dietro, finanche quelle sposate! E poi sempre distinto, sempre elegante, quando venne a casa a chiedermi in sposa, il mio babbo fece gli occhi dolci anche lui che l’Ermete sembrava un dottore!”.

“Nonna, poi perché lo lasciasti?”

Zelda ride, anche senza dentiera il suo sorriso è di una bellezza senza tempo, contagioso.

“Chi se lo ricorda, ma forse perché io mica avevo bisogno di uno che sembrava un dottore, di dottori veri ne potevo avere quanti ne volevo, quando avevo vent’anni!”

Zoe se la ride, dalla cucina la voce di sua nonna, la terza figlia di Zelda le grida:

“Lascia stare la nonna, che se comincia non la finisce più e poi inizia a ridere così forte che se la fa addosso e poi tu esci e a me mi tocca cambiarla…”.

Zelda invece ha cominciato e non ne vuole sapere di smettere.

“ Mi ricordo ancora la faccia dell’Ermete quando a metà della navata mi fermai, mi strappai il velo dalla testa e tornai verso l’uscita correndo!”

“Prima di uscire mi voltai, l’Ermete aveva raccolto il velo e ci si stava soffiando il naso, tanto che piangeva come la fontana in piazza, con due occhi da vitello…”.

Zelda non smette di ridere e nemmeno di raccontare.

“Venne il padre dell’Ermete, per lamentarsi della figuraccia, con quei baffoni a manubrio, pensava di spaventarci, invece il me babbo lo fece correre alzando il bastone che usava per le capre…”.

La risata grassa di Zelda sembra un singhiozzo ma la vecchia ci ha preso gusto.

“Nonna, lo hai più visto?”

“Chi l’Ermete Semprini? Certo che lo vedevo, aveva poi preso in moglie una certa Adalgisa, una grassona che vendeva frutta e verdura ma si vede che le piaceva di più la piada con lo squacquerone, ci andavo sempre a comprare la lattuga finché lei, saputa la storia, non iniziò a tirarmela dietro appena mi vedeva, uno spasso…”.

La ragazzina pensa che lo spasso sia ascoltare la sua bisnonna che racconta del suo passato. Immagina che sia come in un film di Fellini, in bianco e nero ma pieno di tinte e di emozioni.

Arriva dalla cucina sua nonna con le mani ancora sporche di farina e si siede sul letto.

Zoe, ti ricordi l’anno scorso, quando festeggiammo i cento anni di nonna e qualcuno le fece assaggiare il Sangiovese frizzante e lei per ringraziare si mise a cantare Romagna mia…?”

“E chi se lo scorda!”

Intanto Zelda è andata avanti.

“Dopo però, un matrimonio bisognava ben farlo e allora mi diedero il nonno, lui sì che era un pezzo di pane non come quello sburone di suo padre” Lo dice ricominciando a ridere.

“Questo non ti ha impedito di fare i tuoi scherzi…” La rimprovera sua figlia, come fa sempre.

“Il mio Angelo era troppo serio, non rideva mai, capisco quando si andava a un funerale ma sempre, no… quando gli nascondevo le sue cose, non si arrabbiava mai, restava in silenzio con la faccia triste”

“Papà era un uomo serio, e poi ci bastavi tu a fare la pagliaccia…” Irrompe la figlia di Zelda.

Ma sua pronipote ha ancora voglia di ascoltare e la sprona.

“E poi nonna? Voglio sapere!”

“Poi c’è stata la guerra e, cosa volete, se non si rideva un po’ che vita ci restava?”

“E tu, tra una licenza e l’altra del nonno, hai fatto tre figlie…”

“Sì, come ci rimaneva male il mio marito, sapete, un'altra femmina… gli avevo fatto credere che esiste una specie di bottone nella schiena che se lo premi mentre fai l’amore, si può cambiare il sesso del bambino…”

Zoe si mette una mano davanti alla bocca, imbarazzata, la nonna la sgrida e Zelda ride felice come una bimba davanti a un gelato.

“Non ha mai smesso di cercare…”

Zelda ricorda anche le cose scabrose e le lacrime che zampillano dai suoi occhietti sono di puro divertimento!

La figlia cerca di calmarla mentre la nipote non finisce di ridere.

Zelda è ispirata e si rivolge a sua figlia.

“ Ti ricordi la famiglia Ciavatta?”

“Chi? Non ricordo nessuno con quel nome.”

“Per forza, si chiamavano Cecchini!” Precisa Zelda, e poi prosegue.

“Poverissimi, mangiavano solo pane secco, quello che noi tenevamo per le galline. Ogni tanto gli si regalava qualche uovo. Tutti scalzi, poi il falegname con gli scarti di legno fece loro degli enormi zoccoli che sembravano ciabatte e a loro cambiò la vita e il soprannome…”.

I ricordi di Zelda sembrano sogni appena giunti dal passato, dal sapore dolceamaro, proprio come nei film di Fellini.

A volte sembra che Amarcord lo abbia scritto lei.

Zoe vorrebbe ascoltare tutti gli aneddoti della sua bisnonna e pensa che dovrebbe scriverli per quanto sono divertenti. Ma sa che non sarebbe la stessa cosa che ascoltarli dalla voce di quella donna, che i ricordi li ha vissuti davvero.

Era arrivata quasi cento anni prima, lì, sulla costa, ancora in fasce, proveniente da Bologna assieme a una famiglia in cerca di un po’ di fortuna e di lavoro.

Sei ore col trenino a vapore ci vollero.

Zelda era sempre stata affascinata quando passava un treno e ogni volta faceva gli occhi dolci. Era con tenerezza che guardava i treni che passavano, e sempre con un velo di tristezza, con la nostalgia di chi sa che nessun treno l’avrebbe più riportata indietro.

Per questo Zelda aveva trascorso la vita a ridere e a fare scherzi, a cercare di portare sorrisi e gioia sulle facce di chi le stava attorno.

Era così che voleva vivere Zoe, allegra e solare, proprio come la sua bisnonna.

Pronta a scherzare su tutto, a nascondere le cose e a non prendersi troppo sul serio.

“Su Zoe, canta con me!”

La mano dalla pelle rugosa e color cuoio afferra la mano rosea e dalla pelle liscia della pronipote e la stringe con insospettata energia.

La centenaria comincia a cantare e la ragazzina l’accompagna con una voce molto più sottile.

“Romagna miaaaa… Romagna in fioreee… tu sei la stellaaa… tu sei l’amoreee…”.

La figlia di Zelda le osserva con amore e commozione.

È una scena tenerissima che neanche Fellini si sarebbe sognato!

“Mo’ lasciami stare che sono stanca e voglio dormire!”

La ragazzina passa una carezza sulla guancia magra della bisnonna eccentrica. Le vuole bene e la nonna lo sa.

Perché sorride ancora.

“As videmm e se an si videmm as scrivemm!”

Zelda chiude gli occhietti piccoli e immediatamente comincia a russare.

Chissà cosa sognerà.






sabato 8 luglio 2023

La ragazza del faro

 





Successe tutto molto in fretta.

Violante, all’epoca, era impiegata in una numerosa serie di lavori in parecchie case del paese. Faceva di tutto, dalle pulizie al baby-sitting, dallo stirare alle lezioni agli studenti in difficoltà. Era molto conosciuta e si faceva apprezzare per puntualità ed efficienza.

Ultimamente si era offerta per dare lezioni di yoga personali e aveva radunato un discreto numero di persone interessate.

Insomma, le cose andavano abbastanza bene, l’affitto della camera era onesto e lei era soddisfatta e non aveva mai avuto problemi ad arrivare alla fine del mese.

Quando seppe dell’incidente accorso a Pietro, si presentò immediatamente offrendo la sua disponibilità a trasferirsi.

Pietro era Addetto Tecnico Nautico, dipendente civile della Marina e si occupava del faro da almeno venticinque anni e non voleva saperne di andare in pensione.

Quando lui cadde dalla scala e fu operato, le possibilità furono due.

Lasciare il posto a qualcun altro e ritirarsi oppure trovarsi un assistente che lo aiutasse a trascorrere il periodo di riabilitazione, senza interrompere il lavoro.

Pietro non aveva grandi attese, anzi, nemmeno si aspettava che qualcuno rispondesse presto all’annuncio e di sicuro lo sorprese che la prima persona a presentarsi fu una donna.

Pietro ebbe molte esitazioni ma alla fine si convinse ad assumere Violante. La donna non era troppo giovane, a quarant’anni non si è più ragazzi da tempo, ma nemmeno troppo anziana.

Qualcuno in paese avrebbe potuto vederci qualcosa di male e qualcuno lo fece di certo ma Pietro non aveva tempo da perdere. Disse di sì e Violante nel giro di mezza giornata fece i bagagli, pagò la stanza in affitto per tutto il mese e si trasferì nell’edificio alla base del faro, in cui abitava Pietro.

Pietro aveva sempre avuto a che fare con impianti elettrici e accumulatori ed era stato marinaio civile per lunghi anni, prima di decidere di tenere i piedi sulla terra ferma e di impiegarsi come farista. Ormai la grande maggioranza dei segnalatori era automatizzata o dismessa, e lui si aspettava che da un momento all’altro anche del suo faro non avrebbero avuto più bisogno ma non voleva che fosse il suo stupido incidente a farlo mettere fuori gioco.

Violante capì dal primo momento che non sarebbe stato facile con quel vecchio uomo di mare, abituato alla solitudine e fece del suo meglio per diventare una donna invisibile.

I primi giorni passarono così. Il cielo era coperto e una coltre di nuvole rendeva tutto grigio e indistinto. Violante passava le ore a eseguire gli ordini aspri di Pietro, a preparare i pasti, a pulire antiche ragnatele dagli angoli, a farlo entrare in una vecchissima tinozza di legno e a versargli acqua tiepida sulla schiena.

L’uomo non s’imbarazzava della sua nudità, perché avrebbe dovuto, così era nato e così sarebbe morto, inoltre doveva ben lavarsi e la donna era pagata per lavorare.

Lei scoprì che oltre alle pulizie anche dare il bianco per rinfrescare le camere vuote, lavare le vetrate della stanza della luce, sgomberare il vecchio capanno dalle masserizie accumulate negli anni, rientravano nelle sue tante mansioni e arrivò a chiedersi se avesse fatto bene a proporsi per quel lavoro.

Poi uscì il sole.

Quando Violante si affacciò, dal punto più alto del faro, e vide il sole al tramonto, restò senza fiato.

Il disco arancione, ancora luminoso a sufficienza da ferire gli occhi di chi lo avesse fissato, sembrava un maestoso, immenso biscotto infuocato, che andava a intingersi in una tazza di schiumoso latte azzurro e tutto si dipinse della surreale cornice di un colore indefinito, sfumato tra l’arancione, l’indaco e il blu, dove le prime stelle della sera andavano a chiazzare il cielo tornato sereno. Nemmeno quando era andata al museo di van Gogh, Violante aveva osservato colori così intensi e spettacolari.

Era stata sul punto di chiamare Pietro ma si era bloccata, sapendo che quei colori non sarebbero durati per molto e non voleva perdersene nemmeno un istante.

Sapeva che il marinaio doveva aver visti innumerevoli tramonti ed era uomo troppo pragmatico per fermarsi più di tanto a perdere il suo tempo.

Già. Il tempo.

Al faro Violante stava sperimentando una vita fatta di fatiche e lavoro duro ma senza tempo, dove i momenti non erano scanditi dalle attività umane come mangiare, dormire, lavarsi ma dall’alternarsi della luce e del buio, e dal ruotare dei cristalli incandescenti che lanciavano il proprio segnale verso il mare aperto.

Violante aveva capito presto che nel faro, il tempo era come sospeso e non importava che ora o che giorno fosse, ma se il sole era ancora allo zenit, oppure stava calando e quali condizioni meteorologiche fossero previste.

Quel tramonto, così imprevisto, così violento e bellissimo l’aveva fatta innamorare senza rimedio di quel luogo e tutti i posti da lei vissuti in passato persero importanza.

Violante prese a salire di notte sul terrazzino e a osservare l’infinito, come dovevano aver fatto gli uomini dell’antichità, il punto dove il nero del mare si fondeva col buio del cielo e non c’era un confine. Poi alzava il viso e cercava di capire il mistero dell’esistenza, scrutando tra i puntini luminosi che le facevano da soffitta. Restava fin quando i brividi di freddo le impedivano di rimanere immobile e doveva rientrare per scaldarsi.

Era capace di riconoscere il grande e il piccolo carro, la stella Polare, la cintura di Orione con Rigel e il triangolo estivo con Vega.

In passato una donna che aveva creduto amica, con la passione dell’astronomia, la tediava con lunghe descrizioni, le sere d’estate sul balcone. Violante ricordava con amarezza quando il marito di questa aveva tentato di baciarla e lei aveva preferito allontanarsi da quella coppia. Il silenzio e l’assenza dell’altra avevano fatto nascere il sospetto che l’uomo avesse narrato alla moglie una versione diversa dell’accaduto, ma tutto questo ora non aveva più importanza.

Le persone vanno e vengono e la nostra vita è come una stazione ferroviaria, qualcuno parte per non tornare mai più e non è detto che sia sempre un male.

Il cielo però non sarebbe passato, era lì, immoto, da miliardi di anni e lo sarebbe stato per altrettanto. Del cielo ci si poteva fidare e Violante non avrebbe mai voluto staccare lo sguardo, nonostante il freddo, nonostante il sonno e i brividi.

Pietro l’aveva osservata passare parte della notte in contemplazione delle costellazioni e aveva sorriso pensando a lui giovane, sul ponte del peschereccio, a trascorrere la notte con naso in su.

Violante aveva sempre glissato, quando s’iniziava a parlare del loro passato e delle rispettive vite.

A Pietro non importava, non gli sembrava che la donna avesse qualcosa da nascondere e comunque non erano affari suoi.

Violante era la donna perfetta, per la vita nel faro.

Non era importante il suo passato, né il suo futuro.

Era lì ora e questa era l’unica cosa che contasse.

Sotto quel cielo, sul terrazzino del faro, Violante pensava la stessa cosa.

Viveva nel momento.

 Era l’unica cosa che contasse.