sabato 25 febbraio 2023

Elsa non c'è più

 





Il bar è affollato come solo nei fine settimana o nelle serate di Champions League.

Infatti, questo mercoledì il colore predominante è il verde e gli avventori sono già carichi con due pinte a testa di media, prima ancora che la partita cominci.

Elsa pensa che non ci sia differenza tra i tifosi delle varie fazioni, tantomeno di diversi paesi. Tutti uguali, cambiano solo i colori delle casacche, delle bandiere, delle sciarpe.

Ma va bene così, il bar è pieno e Sharpe, il boss, fa avanti e indietro a sostituire i fusti della birra alla spina, senza nascondere un sorriso interessato.

Sharpe simpatizza per la rivale cittadina della squadra impegnata questa sera contro una tedesca, ma l’ha rivelato solo a pochi intimi in un momento di fragilità alcolica e si guarda bene dal dichiararsi ai clienti della serata. Ha accettato che gli mettessero al collo una sciarpa biancoverde e lui non fa troppo lo schizzinoso quando si tratta di vendere qualche birra in più. Molta birra per la verità.

In Irlanda la birra è buona e lo sa anche Elsa, che un tempo beveva solo coca-cola.

La partita è noiosa, i locali sono in vantaggio di una rete e questo ha raddoppiato la sete dei tifosi presenti, Elsa non ha pause.

Spillare, servire, raccogliere monete, riempire la cassa. Distribuire boccali e sorrisi, sopportare complimenti, allusioni e intascare qualche mancia. Una serata generosa anche per lei che il calcio non l’ha mai seguito.

In fondo non è un brutto lavoro, non il peggiore che ha trovato da quando è in questo paese. Meglio di quando faceva la babysitter a tempo pieno e il genitore non aveva trovato meglio da fare che palparle il sedere. Meglio di quando era operaia nell’impresa di pulizie e grattava i pavimenti di palestre e scuole. Meglio che fare la lavapiatti del finto ristorante Italiano, dove non sapevano friggere neanche una patatina e lei finiva per stare con le mani nell’acqua fino alle due di notte.

Meglio di ciò che si è lasciata alle spalle.

Qui la gente le piace. La trova più genuina. Meglio degli inglesi. E lei piace alla gente, con il suo accento esotico, con il suo taglio di capelli estremo, quasi bianchi, rasati quasi a zero, col suo tatuaggio sul collo, da motociclista. Una rosa dai petali sanguinanti.

Sharpe l’ha presa al Pub senza farle domande, senza chiedere nulla del suo passato. A lei va benissimo così.

La partita finisce. Lo Shamrock Rovers Football Club ha vinto, le sembra due a zero, non è sicura ma vede la gioia e l’allegria sulle facce delle persone. Qualcuno cambia canale e sulla televisione appare una foto con la scritta MISSING in sovraimpressione. Scorrono date e nomi, una ragazza di vent’anni scomparsa da un paesino poco lontano. Molti si voltano a guardare, uno si vanta di conoscere la famiglia e sostiene che la ragazza sia stata uccisa e nascosta nei boschi. Qualcuno ordina un altro giro di birra. La serata è ancora giovane.

Elsa si ferma un momento per riposare, esce dal bancone e osserva lo schermo. Si accorge che la trasmissione parla di persone scomparse e sa che manderanno in onda le foto di decine di persone. Hanno anche una sezione per i casi esteri.

Vorrebbe spegnere ma qualcuno pare interessato, compreso Sharpe che non si perde una puntata e studia morbosamente i ritratti di quella gente, perché sostiene che qualcuno potrebbe entrare nel suo pub. Elsa si sente chiamare a gran voce da Sharpe e ha un sussulto.

“Elsa, guarda! Quell’italiana potrebbe essere tua sorella per quanto ti somiglia!” Poi ride di gusto alla sua battuta e tracanna la sua mezza pinta.

Sullo schermo appare il nome. Elena Della Casa, Elena age 25,Italian,  missing since March 17, 2020. La giovane ha capelli neri e lunghi e sembra davvero la sua gemella.

Elsa non ride alla battuta di Sharpe, anzi, distoglie lo sguardo. Sotto il tavolo stringe le mani e aspetta che il tremore le passi. Poi si affretta a raccogliere dei boccali vuoti dai tavolini e torna dietro al bancone riprendendo a lavorare.

Sullo schermo ora appare il viso di un uomo di mezz’età. Elsa si chiede quanto ci metteranno a rintracciarla, poiché le ricerche si sono spinte fino lì. Non vorrebbe di nuovo cambiare paese ma sa che alla fine non avrà scelta.

Sente un uomo dire, chissà come stanno le famiglie di questi spariti, come soffrono, e che pena non sapere se i loro cari sono vivi o morti…

Lei capisce quanto dolore può esserci in seno a una famiglia.

Non sempre però il dolore nasce da una scomparsa, pensa, a volte è necessario svanire per placare il dolore. A volte è necessario scappare via lontano, non lasciare tracce e non dare la possibilità di essere ritrovati. Vorrebbe dirlo ma si trattiene.

Sa che per ora, quella ragazza dal nome italiano sta bene, non le manca niente della sua famiglia e del suo paese, non le mancano le botte e le privazioni, non le mancano i lunghi capelli neri, non le mancano le violenze e il sangue.

Elsa trova il telecomando e spegne.

Davanti a qualche mugugno di protesta prende a spillare nuova fresca birra scura.

“Bisogna festeggiare, il giro lo offro io”.

Sharpe la lascia fare, le piace quella ragazza, non gli importa non sapere niente del suo passato.

Ci sa fare con la gente e questo gli basta.

Tutti dimenticano le facce degli scomparsi, si festeggia.

Dopotutto la loro squadra ha vinto, giusto?





sabato 4 febbraio 2023

La ragazza nella valigia

 





“Tu mi fai girar, tu mi fai girar

Come fossi una bambola

Poi mi butti giù, poi mi butti giù

Come fossi una bambola…”

 

Dalla radio, la voce di Patty Pravo le dà una spinta e la riporta indietro di quasi trent’anni, facendole provare un’intensa vertigine.

Da tanto non ripensava più alla sua infanzia. Non che avesse dimenticato, piuttosto ora aveva altro da fare. La mano passa con una carezza, sulla curva della sua pancia da gestante, come per proteggere la vita che cresce dentro.

Si accorge che sta sorridendo. Quella canzone. Ricorda che i suoi la suonavano sempre, sua sorella cantava e accompagnava con la chitarra elettrica, suo padre alla batteria e la ripetevano mille volte finché non era uguale all’originale. Le era venuta a noia ma oggi la ascolta con un piacere misto a malinconia.

Mio padre mi chiudeva in una valigia.

Detta così, fuori contesto, è una frase orribile, lo so. Pensa Dafne con tenerezza.

Ero una bimba che amava giocare e per me quello era un gioco, fare la contorsionista non era complicato per una bambina di otto anni, tanto magra quanto snodata. In più amavo esibirmi e quando lo scarno pubblico applaudiva, stupefatto, vedendomi comparire in quella valigia microscopica, tutta piegata su me stessa come un minuscolo origami umano, per dispiegarmi e lenta mettermi in piedi a inscenare un acerbo inchino, sorridevo felice.

Dafne si guarda allo specchio, decide che deve comprare un vestito più largo, ora nel sesto mese, niente le va più, tantomeno i suoi jeans strettissimi, abbandonati, per il momento, in fondo all’armadio. I ricordi rievocati dalla canzone si trascinano, legati uno all’altro, come anelli di una catena. Quante classi cambiate ogni mese, scuole diverse, bambine che la prendevano in giro per il suo nome inusuale, maschietti che s’innamoravano e cercavano di toccarle i lunghissimi capelli dorati, insegnanti che, con poca pazienza, le riempivano il diario di compiti, sottovalutando la sua intelligenza. Compiti che lei non avrebbe fatto, perché lei lavorava, si esibiva nello spettacolo con i genitori e le prove erano molto più importanti che non lo scrivere dei pensierini sul quaderno a righe o di qualche esercizio con moltiplicazioni e divisioni su quello a quadretti.

Suo padre era discendente di un’importante famiglia circense e sapeva fare tutto. Suonava almeno quattro strumenti, faceva roteare tre clave infuocate, e al pensiero le torna nel naso il forte odore della nafta che lui usava. Sapeva fare la verticale reggendosi sugli anelli, e come la sgridava quando lei si aggrappava a quegli anelli, facendo il verso di uno scimpanzé, perché quello era uno strumento di lavoro e il lavoro andava rispettato.

Dafne non smette di sorridere anche se i suoi occhi sono diventati umidi.

Le piaceva quella vita, cambiare città ogni due settimane, dormire nel rimorchio del camion, possedere tutte le sue cose in un baule, quaderni, bambole, vestiti, ci sarebbe stata lei stessa in quel baule e meno stretta che nella valigia, perché bisognava viaggiare leggeri e suo padre le aveva insegnato che nella vita non contavano gli oggetti che si possedevano ma gli applausi che si raccoglievano.

Poi, negli anni, gli applausi si erano via via ridotti, il pubblico era diminuito, fino a sparire quasi, la gente era distratta da altri tipi di spettacolo, non sempre di qualità, offerto dal piccolo e grande schermo e dopo da internet e il loro mestiere, la loro arte era scomparsa.

Dafne non lo riteneva un male, aveva capito che le cose cambiano, non sono mai le stesse, e continuare a guardarsi dietro, come facevano i suoi, l’avrebbe condotta alla rovina. Da tanti anni non entrava più nella valigia e anche la sua famiglia ad un certo punto era diventata una valigia troppo piccola perché la contenesse, per questo motivo li aveva dovuti lasciare, era andata via dalla sera alla mattina e si era costruita la sua vita, non sempre priva di errori, certo, ma chi non sbaglia mai?

Dafne si guarda la pancia, con fiducia e paura e si chiede se mai un giorno la sua famiglia vorrà perdonare i suoi errori, se accetteranno di incontrarla e conoscere la nuova vita che lei sarà stata capace di creare.

 

Il suo ragazzo la chiama dalla cucina, la colazione è pronta.

La radio trasmette la pubblicità. Dafne sente ancora risuonare la canzone nella sua testa.

 

“Tu mi fai girar, tu mi fai girar

Come fossi una bambola

Poi mi butti giù, poi mi butti giù

Come fossi una bambola

Non ti accorgi quando piango

Quando sono triste e stanca, tu pensi solo per te…”