sabato 29 agosto 2020

luoghi insoliti: Il cappotto

luoghi insoliti: Il cappotto:   Mattina grigia, promessa di pioggia. Nuvole gonfie e scure, pronte a piangere milioni di lacrime da un momento all’altro.   Anche qu...

Il cappotto

 







Mattina grigia, promessa di pioggia.

Nuvole gonfie e scure, pronte a piangere milioni di lacrime da un momento all’altro.

 

Anche quella mattina lontana una vita fa, era grigia, anzi alla fine scese qualche goccia sui bambini che piangevano fuori dal cancello. Guardando fuori, in alto, per quello che gli era consentito vedere, Duilio aveva ripensato a quella partita, quella del cappotto.

Il campetto era parrocchiale, adiacente alla chiesa di San Francesco, pieno di buche, erba che cresceva con coraggio solo in alcune zone fortunate di centrocampo. Le aree piccole e le fasce laterali erano piste di terra arida e dura che a caderci finivi per sbucciarti le ginocchia come banane.

Undici ometti con una maglia arancione riciclata dalla squadra locale e troppo larga per bimbi di otto anni, undici pulcini pronti a giocare come se non ci fosse un domani, a dare tutto per la vittoria, per fare contento l’allenatore, impazienti di sentire il fischio d’inizio.

Quella partita era tornata per anni, anche in età adulta, a guastare i sonni di Duilio, e aveva reso amara non solo l’infanzia dell’uomo che oggi guarda il cielo dalla piccola finestra, con la fronte appoggiata alle sbarre.

Si giocava da circa quindici minuti e gli ospiti avevano segnato tre gol. Niente di grave, per carità, piccoli incidenti di gioco, una palla sfuggita al portiere che, come al solito, aveva dimenticato i guanti a casa e indossava un paio troppo largo, una sfortunata deviazione e un’autorete. Ci può stare nel calcio, a tutti i livelli, poi si erano visti segnali di ripresa, un paio di ripartenze veloci ma imprecise. Il mister non aveva smesso di incitare i ragazzini ma l’altra squadra sembrava fatta di marziani, facevano pressing, raddoppiavano le marcature e avevano un dieci formidabile che distribuiva palloni velenosi e assist al bacio che le punte non dovevano fare altro che spingere in rete. In sostanza dopo mezz’ora di gioco la squadra di Duilio era già sotto di sette reti.

Allora il mister aveva iniziato a spronare i bambini con durezza, aveva minacciato sostituzioni, spostato le marcature ma tutto era stato inutile, gli avversari sembravano il Brasile di Pelé, il Real di Di Stefano, il Milan di Sacchi, il Foggia di Zeman, insomma si divertivano e facevano divertire. Scambi veloci, triangoli perfetti, tocchi di prima, tutti, dal portiere all’undici, baciati dal dio del pallone, scesi su quel campetto parrocchiale in stato di grazia.

L’arbitro fischiò l’intervallo sul risultato di otto a zero. Per gli ospiti.

Duilio era tornato alla panchina a bere un tè caldo con i compagni. Tremava di rabbia e d’impotenza, lui che era considerato da tutti il talentuoso, dal dribbling ubriacante, il calciatore dal futuro certo, non era ancora stato capace di dare una scossa alla sua squadra. A dire il vero era riuscito un paio di volte a mettere seduto il terzino che lo marcava ma nessuno dei compagni aveva finalizzato e tutto era rimasto desolante e vano. L’allenatore aveva rincuorato i bambini più tristi, si era detto certo di poter segnare qualche gol, salvare la faccia ma quando l’arbitro chiamò le squadre in campo, le cose andarono peggio.

Si capì subito che gli avversari avevano intenzione di umiliare i giocatori in casacca arancione, il loro allenatore si era più volte rivolto ai suoi dicendo chiaramente di rallentare, eufemismo che stava dicendo: non infierite sul cadavere del nemico, poi aveva tolto dal campo tutti e tre gli attaccanti inserendo i panchinari, ma le riserve ansiose di fare bella figura si erano scatenate segnando triplette in abbondanza. L’allenatore degli ospiti decise di togliere il dieci che stava giocando una partita perfetta, e si girò un momento verso il suo collega con lo sguardo imbarazzato. Il mister di casa rimase impassibile, impietrito, grigio come le nuvole.

Fu terribile, palla al centro, gol. Palla al centro, gol. Palla al centro, gol.

Duilio vedeva il suo portiere giocare piangendo, non avrebbe visto il pallone neanche se gli fosse sbattuto in faccia, con gli occhi pieni di lacrime.

I bambini in campo videro il giovane viceparroco correre verso le panchine gridando: cosa state facendo? Fermateli. Non è educativo, non va bene per nessuno, né per i bambini che sono umiliati, né per quelli che stravincono, ma l’arbitro lo espulse dal campo e lui andò via a testa bassa di sicuro bisognevole di una confessione.

Alla fine gli ospiti segnarono ventitré reti e la squadra di Duilio nemmeno una.

Ventitré reti a zero!

L’allenatore ospite venne a salutare il mister sconfitto ma restò a testa bassa e disse solo una parola: scusa. Andò via e, arrabbiato, impedì ai suoi di festeggiare o cantare.

Duilio vide i suoi compagni piangere appoggiati alla rete, lavare l’umiliazione, la vergogna nella pioggia. Nessuno di loro pensava di continuare, di vendicare l’onta, erano svuotati, privi di energie, disperati. La squadra, per volere del parroco, fu tolta dal torneo e al posto del campo di calcio furono montate due reti per la pallavolo.

Duilio non aveva più ripensato a quella partita, giocata più di vent’anni prima, anche se i ricordi non smettevano di tormentarlo nei sogni. Non aveva più giocato a calcio, anzi aveva chiuso con lo sport e dopo qualche anno era entrato in una banda di ragazzacci più grandi di lui, dediti a perdere tempo davanti ai bar, a piccoli furti e a scommesse ai tavoli da biliardo.

Era cresciuto da duro, con una sigaretta in bocca e la rapidità nelle mani, aveva imparato a scippare borse e alleggerire portafogli, e grazie alla sua velocità non era stato quasi mai preso. Alle prime denunce se l’era cavata ma i furti erano continuati e ora stata scontando una pena detentiva. Fra meno di un anno sarebbe uscito e spesso pensava alle prospettive, il tempo per pensare non gli mancava di certo.

Ma quella mattina aveva ricordato tanti particolari di quella maledetta partita, quel cappotto infame che gli aveva rovinato la vita.

Chissà cosa sarebbe successo se quella partita fosse finita diversamente, chissà se sarebbe diventato un ladro o se avesse davvero intrapreso la carriera di calciatore professionista.

Ma il cielo aveva voluto così.

Quello stesso cielo che ora rovesciava le sue inutili lacrime dall’alto, acqua che lui bramava, spingendo la faccia oltre la sbarra, perché fosse mescolata con la propria.




lunedì 24 agosto 2020

luoghi insoliti: I racconti di Vanni l'Aretino... L'incudine

luoghi insoliti: I racconti di Vanni l'Aretino... L'incudine:   Vanni è un personaggio.  La pelle scura, bruciata dal sole, i capelli (pochi) spettinati sulla fronte lucida, la pancia di chi ama la buon...

I racconti di Vanni l'Aretino... L'incudine

 









Vanni è un personaggio. 

La pelle scura, bruciata dal sole, i capelli (pochi) spettinati sulla fronte lucida, la pancia di chi ama la buona cucina italiana e lo sguardo furbo. 

Da poco in pensione non ha nessuna intenzione di trovarsi davanti a un cantiere, con le braccia incrociate dietro la schiena a scuotere il capo e dissentire delle strategie lavorative altrui. 

Dotato di una risata grassa e sincera che a sentirla ti viene il buonumore anche fosse un grigio lunedì mattina, si compiace nell’intrattenere e divertire la compagnia ed è dotato di una buona memoria e di un’eccezionale favella. 

Un mattino, durante una delle interminabili passeggiate sul bagnasciuga, ottiene la nostra attenzione e parte a raccontare: 

“Erano gli anni settanta, forse il settantadue, mi sembra. All’istituto professionale di Arezzo si era in tanti che cercavano di imparare una professione e di ottenere un diploma, che aprisse le porte del mondo del lavoro anche a chi non era propriamente un genio, insomma a quelli che di studiare non importava una fava, scusate il parlare non a modino, maremma impestata e ladra. 

Insomma c’erano le classi di futuri operai della meccanica, tornitori, montatori, falegnami ma anche classi femminili di future parrucchiere ed estetiste. Nella scuola non mancavano di certo i laboratori di ogni tipo e la manovalanza di gente che imparava un mestiere. 

In uno di questi laboratori la scuola ci teneva un’incudine, poggiata su un grosso ceppo di quercia. Cosa ci facesse in quella stanza priva di fucina o anche di un piccolo focolare, nessuno lo sapeva, nemmeno il preside dell’istituto, maremma scolastica… sta di fatto che quell’oggetto, pesante una quarantina di chili, aveva attirato le attenzioni degli studenti meno brillanti, dei grulli per intenderci. 

Erano famose le sfide e le scommesse su chi fosse riuscito a tenere sollevato per più tempo l’arnese e non passava giorno che qualcuno non provasse. 

Un giorno ci provò un certo Maso, un ragazzone grande e grosso e stupido quanto un piccione, più ciccia che muscoli, si raccontò poi che lo fece per conquistare le grazie di una compagna di scuola, una con dei poponi che non vi dico, che gli aveva promesso certi servizi in caso di esito favorevole, Maso disse che avrebbe tenuta sollevata l’incudine per venti secondi, tutti erano pronti, qualcuno portò un orologio, qualcun'altro scommise una bottiglia di birra sul fallimento del ciccio. 

Per farla breve… Maso sollevò l’incudine di dieci centimetri dal ceppo e per barare, come facevano tutti, la tenne appoggiata al pancione ma quando il ragazzo con l’orologio diede via al tempo, il pesante ferro gli scivolò da una mano sudata, lui finì in avanti e l’incudine batté sul suo basamento, immediato si sentì un atroce ululato, sembrava che un allarme antiaereo fosse scattato in tutta la scuola, l’ululato si fece via via più stridulo fino a trasformarsi in un disperato singhiozzo, Maso stava piangendo e cercava inutilmente di chiedere aiuto. Poi qualcuno fra le risate di tutti, si accorse cosa era successo e capì il motivo delle urla. 

Alla base del ceppo si stava formando una piccola pozzanghera rossa, Maso era paonazzo ed era un tutt’uno con ceppo e incudine, e ci credo maremma impestata, una parte di lui era rimasta incastrata. 

Ragazzi, al Maso gli sono rimaste le palle sotto l’incudine! Urlò qualcuno, poi finalmente lo aiutarono, sollevandola, e lui zoppicò via tenendosi l’inguine e seminando, come pollicino, una scia di molliche rosse sul pavimento. 

La ragazzona, che era venuta a vedere se il suo amico si fosse meritato le sue attenzioni, corse dietro al cidrone gridando, indo’ tu vai, ti curo io, basta un po’ di ghiaccio, suvvia, non sarà nulla di ché, aspetta… entrambi si persero tra i corridoi della scuola, dietro il coro di risate non accennava a diminuire. 

Dopo l’incidente, a proposito state tranquilli, al Maso non successe nulla, si pizzicò solo la pelle dello scroto e gli bastò qualche punto di sutura in ospedale e le amorevoli cure della ragazzona, dopo che fu finito, si diceva, la scuola vendette l’incudine a un’officina di un trombaio bischero e ricavò qualcosina, maremma imburrata, ma nessuno dimenticò mai l’accaduto. 

Dalle parti di Arezzo stanno ancora ridendo". 









sabato 8 agosto 2020

luoghi insoliti: Il riflesso

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luoghi insoliti: luoghi insoliti: L'abbraccio

luoghi insoliti: luoghi insoliti: L'abbraccio: luoghi insoliti: L'abbraccio : La giornata si annunciava calda dalle prime ore del mattino.  Alle dieci stavo grondando di sudore. E...

Il riflesso










Era già capitato. 

Provò a non guardare e la cosa sembrò funzionare. Per poco. 

Il problema era che continuava a sentire lo sguardo addosso anche ora, nel box doccia, sotto il getto d’acqua. 

Il problema era uno… lo sguardo era il suo. 

Era già capitato, certo. Qualche mese prima. 

L’inverno doveva finire e c’erano ancora i saldi in Corso Buenos Aires, le vetrine invitavano a risparmiare comprando capi che solo un mese prima costavano il doppio. Lui non era tipo da cascarci facilmente ma gli piaceva lo stesso osservare la merce, fantasticare su un paio di scarpe nuove o immaginarsi con un completo firmato. Un pomeriggio grigio e freddo era rimasto davanti alla vetrina di un negozio elegante, quando le nuvole avevano fatto spazio a qualche raggio ostinato di sole e la luce improvvisa del pomeriggio si era riflessa sul vetro. Lui si era accovacciato per leggere il prezzo di un paio di stivaletti quando si accorse che dietro il vetro una sagoma d’uomo lo osservava. Una frazione di secondo dopo si accovacciò anche la sagoma e si accorse che l’altro non era che la sua immagine riflessa. 

Non ci aveva dato troppa importanza perché in sostanza non ci aveva creduto. 

Poi era capitato mentre si faceva la barba. Si studiava la gola e il mento appena rasati quando, spostando lo sguardo aveva visto la sua faccia che lo osservava con espressione seria, ancora completamente coperta dalla schiuma. Poi aveva strizzato gli occhi e tutto era tornato normale. 

Normale era una parola grossa. 

Non era più riuscito a specchiarsi senza provare angoscia. La barba era cresciuta e nel giro di due mesi cominciava ad arricciarsi provocando un fastidioso solletico sotto la gola. 

Anche lavarsi i denti era diventato un gesto penoso. 

Aver svitato le lampadine dello specchio poteva essere un rimedio efficace in bagno ma la sua immagine era rimasta in agguato in una moltitudine di altri posti. 

Per strada, andando al lavoro si era visto riflesso negli sportelli di vetro di un autobus di passaggio, completamente nudo ma quando aveva spostato gli occhi in basso, il suo vecchio giaccone, un po’ lercio e i suoi pantaloni grigi erano al loro posto. 

Quel giorno per sicurezza era tornato a casa e aveva detto al capo di non sentirsi molto bene. 

Il suo medico era un facilone, lo aveva trattato con sufficienza, compilando una serie di ricette con nomi difficili quali clomipramina, duloxetina, quetiapina, aloperidolo. Inoltre aveva prescritto esami del sangue e risonanze magnetiche che lui era ben lontano dal desiderare di fare. Inutile dire che non aveva preso niente. 

Un giorno, quando dall’altra parte della strada, da dietro la vetrina di un bar il suo se stesso aveva alzato una mano nella sua direzione mentre lui teneva in entrambe le mani le pesanti borse della spesa per poco non se l’era fatta addosso. Aveva ritelefonato al dottore e questi gli aveva passato il numero di un bravo psicologo. 

Ma quale psicologo, pensò con amarezza, qua ci vuole un esorcista. 

In casa viveva in pratica al buio, mangiava cibi confezionati ed evitava gli specchi che aveva accuratamente coperto. 

Forse aveva ragione il suo medico, avrebbe dovuto telefonare allo psicologo. 

Pensò di fare una doccia e mentre faceva scorrere via schiuma dalla schiena con il getto d’acqua, si era voltato solo un momento. Era bastato, nel vetro della cabina, la sua immagine frontale lo guardava e scuoteva la testa con un esplicito gesto che voleva dire: NO! 

Uscì dalla cabina ancora mezzo insaponato e corse in soggiorno a buttare il biglietto col numero dello specialista. 

Non avrebbe telefonato a nessuno. 

Era tornato in bagno e aveva riavvitato la luce sullo specchio. Poi si era sforzato di osservare ma quello che vide era solo la sua faccia spaventata e pallida. Forse è finita, si disse. Riprovò due, tre, dieci volte ma niente, tutto ciò che successe, non era altro che quello che ci si poteva aspettare in ogni bagno di ogni casa, il suo riflesso che ripeteva a rovescio ogni espressione d’incredula speranza. Fu così che decise di tagliarsi quel ridicolo barbone che lo invecchiava di dieci anni. Aprì il rubinetto dell'acqua calda e riempì il lavandino. Lo specchio si appannò completamente. 

Prendere il rasoio dal cassetto richiese mezzo secondo ma fu sufficiente. 

La scritta sullo specchio era implacabile. 

NON TI LASCERO’ MAI 



Non era finita e non sarebbe finita mai. 

Non cercò le cause per quel fenomeno, motivi ne aveva, sensi di colpa per il male fatto, questioni lasciate in sospeso, persone abbandonate e maltrattate, non era uno stinco di santo. Forse meritava quell’orrore. 

Non pensò a nulla mentre la lama incideva la pelle e l’ultima cosa che vide, mentre il sangue sgorgava e il buio lo circondava, fu la sua faccia riflessa nello specchio. 

Sorrideva. 

Poi tutto finì e il riflesso si dissolse.