Quando pensi di aver
visto tutto nella vita, capita qualcosa che ti fa sospettare che stavi
sbagliando.
Che ti costringe a
cambiare prospettiva.
Un imprevisto, una
casualità, un malanno.
Ho ottantacinque anni e
della guerra ricordo poco o niente. La sirena che ci faceva scappare nelle
cantine (a fare la fine dei topi, ho pensato in seguito) o qualche soldato che
non parlava la nostra lingua e ci regalava gomme da masticare. Da ragazzo mi
ripetevo tante volte che meglio sarebbe stato morire guardando in faccia il
nemico, aprendo la camicia e mostrando il petto ai fucili, come un eroe
romantico da operetta ma da ragazzo, come spesso accade ai ragazzi, non capivo
niente.
Poi sono cresciuto nel
lavoro e nella famiglia e mi sono fatto una vita tutta mia, come mi sentivo
ripetere da sempre, sapendo che era la cosa giusta da fare. Ma alla famiglia,
che cresceva e moltiplicava, non ho potuto dedicare molto perché il mio tempo
era dovuto al lavoro e il lavoro non mi restituiva che spossatezza che nemmeno
il sonno sapeva placare e dolori alla schiena e a tutto il corpo, che nessun
dottore ha mai potuto lenire.
Ma tutta la stanchezza
e tutti i dolori non sono niente, niente se in cambio hai una moglie che ti
guarda con comprensione o se hai sulle ginocchia un pronipote che vuole giocare
con te e ti fa scoppiare il cuore di tenerezza.
Ho visto tante cose
nella vita, giovani rovinarsi con le proprie mani, regalando la propria
felicità in cambio di una bottiglia di vino, uomini come me, dannarsi e
sporcarsi le mani di sangue per colpa di una gelosia malata, uomini che
riuscivano a crescere solo negli anni, ma nell’animo rimanevano bambini,
bambini capaci solo di incolpare gli altri per le proprie sconfitte.
Ho visto anche uomini e
donne fallire nei loro progetti per la cattiveria e la scaltrezza altrui, e per
la loro innocenza o forse ingenuità, e distruggere così anni di sacrifici e impegno.
Ho visto famiglie
rompersi come si rompe un giocattolo che si è amato ma che è venuto a noia e
così si desidera un gioco nuovo, mariti e mogli usare il coniuge come un
oggetto, una cosa di poco riguardo e di nessun valore, un soprammobile che ci
si ricorda di spolverare solo quando viene qualcuno.
Ho perso diversi amici,
durante la vita. Quelli perduti perché sono morti erano amici, gli altri li ho
lasciati andare e forse non erano davvero amici ma solo persone che hanno
percorso qualche anno vicino a me, senza essere mai state dentro di me, e sento
forte il rimpianto per alcune persone che invece di sbocciare e dare frutto,
sono avvizzite come un fiore reciso e senza acqua. Oggi posso dire di avere
pochi amici ma quelli che sono rimasti, meritano il termine.
Ho avuto la possibilità
di stare tra la gente, camminare in mezzo a una folla, chiacchierare nelle marce,
gridare negli scioperi ma anche cantare durante le processioni e le feste. Sentire
l’abbraccio e muovermi e accorgerci che si era un unico corpo in movimento di
cui noi, uomini e donne, eravamo gli organi senza i quali il corpo sarebbe
morto.
Altre volte ho avuto la
possibilità di assaporare l’incanto del silenzio e della solitudine, al termine
di un sentiero tra le pietre di una montagna o seduto sull’erba all’ombra di un
ciliegio tra le colline, e nel silenzio godere del verso del mondo che stava
girando.
Sono molti i doni che
ho fatto e che ho ricevuto. Innumerevoli gli oggetti, offerti per tradizione o
apparenza, inutili e ingombranti che sarebbero finiti in quel museo
dell’antichità che quasi tutti conserviamo nelle nostre cantine, ma anche molti
graditi come un respiro d’aria fresca dopo un’immersione, autentici gesti di
bellezza e di amore, segno concreto di legami invisibili. Il dono più prezioso,
dopo quello della vita, me l’ha fatto Dio mandandomi la moglie che ho sposato e
che mi aspetta da qualche parte e presto incontrerò. Per tutti gli altri, spero
e credo di esserne stato all’altezza e di averli meritati.
Un altro dono che ho
saputo riconoscere e di cui sono stato sempre sommerso è stato gioire del
sorriso delle persone. Riconoscere la sincerità di questo semplice gesto, mai
banale, che è sempre stato sufficiente a scaldarmi anche nelle notti d’inverno.
Come quello di quest’infermiera che ho davanti, che non smette di sorridermi
anche rimanendo seria e concentrata.
Io so che è sincera,
questa donna che armeggia con i suoi farmaci, e se anche sta calcolando dosi e
misurando volumi, il suo sorriso è autentico, anche se sa che la sto
osservando, le parte dal cuore, si rivela sulle labbra ed è confermato dagli
occhi.
Ora sono davvero
stanco, solo a sentire il termine sedazione, provo un autentico conforto e
capisco che chi è presente al momento voglia piangere, perché non riesce a
coglierne il sollievo. Ma sono in pace come non lo sono mai stato prima.
Dunque vai, giovane
donna, premi sullo stantuffo e inietta il farmaco, perché ora ho solo voglia di
dormire e sono felice perché mi è stato promesso che potrò rivedere i cani e i
gatti che ho avuto e che sono stati autentici e gioiosi compagni di vita, creature che ho
amato e che mi sono mancate ogni giorno, e che non dovrò più soffrire per le
infermità che angustiano le persone anziane come me.
Grazie a te, dolce
infermiera che mi sorride, perché stasera sarai a casa, da tuo marito e tuo
figlio che laveranno via la stanchezza del tuo difficile lavoro, mentre io
finalmente dormirò felice.
O forse no, ma va bene così.