sabato 17 febbraio 2024

Verrà la primavera

 





Sono passato di recente davanti una vetrina in centro.

Pastelli a cera, pennelli di tutte le misure, colori assortiti, tele e tavolozze.

Una bella vetrina, nessun dubbio. Sono rimasto colpito dalla bellezza dei quadri esposti e dal fascino che esercita una tela bianca ma anche spaventato dal prezzo della merce esposta.

Dopo un rapido calcolo ho capito che dipingere richiede un capitale.

Scrivere è un’arte povera e democratica.

È un’arte povera perché sono sufficienti una biro e il retro di uno scontrino o un tovagliolo, come il passato e i grandi dimostrano. Non è neppure necessario un pubblico di lettori.

Scrivere significa chiudersi in uno stanzino, dare le spalle a chiunque.

Si scrive non guardando niente, guardando solo dentro di sé o al massimo verso la parete. Nessuna finestra a distogliere la concentrazione, al limite una musica che via via si fa più distante fino a provenire da un altro mondo.

È un’arte democratica perché si può fare utilizzando un Mac Book Air oppure digitando su un vetusto smartphone. Se mi gira, posso tirare fuori matita e blocco notes come facevo alle medie. Si può scrivere anche con pochi mezzi, economici.

Conclusa questa strampalata premessa, la questione è sempre e solo una. Cosa scrivere e che cosa dire. Perché si sa, quando non si ha niente da dire, è molto meglio stare zitti.

Ecco che si fa avanti il primo grande requisito.

L’ispirazione.

Si scrive solo se si ha l’idea, se si è folgorati dal sacro fuoco della passione, se si brucia d’amore, se si è infuriati, se ci si strugge per qualcosa d’irraggiungibile.

Si scrive quando c’è la tensione giusta a farlo, perché è una necessità quanto respirare e bere. Il respiro delle frasi lette, l’acqua dei concetti da bere e assimilare.

Ma anche la scrittura più semplice ha bisogno di lavoro, di pulizia, di revisione, di rilettura.

E questo ci porta al secondo altro requisito fondamentale, che è il tempo.

Avere un ordine mentale è importante ma non è sempre semplice come non è semplice riuscire a stabilire le priorità.

E anche quando si riesce, non è detto che le proprie priorità siano le stesse di altri.

Quindi, dal momento che è importante curare la propria persona, tenere pulita la casa, accertarsi che ci sia cibo in sufficiente quantità e apprezzabile qualità, ecco che l’importanza dello scrivere si abbassa e cede il passo nella classifica come una squadra di seconda categoria.

Tutto il mondo fatto di sensazioni e colori, di momenti che stimolano l’ispirazione, di percezioni che svegliano i sensi, sbiadisce e appiattisce davanti ai bisogni primari come fame, sete e sonno, piacere agli altri, fare una vita sociale.

Una folata improvvisa di vento che solleva le foglie sul viale, il canto di un uccello tra i rami, le risate cristalline dei bimbi che corrono nel parco, il ripetersi costante e potente delle onde che si rompono sugli scogli, insomma gli eventi che ci incantano e che riempirebbero pagine di poesia, passano in secondo piano e non sono raccolti.

Ci sono altre cose prima.

Ma una parte profonda dell’animo, una parte molto intima che non dorme mai, che non si manifesta, è sempre attenta e memorizza gli attimi, li congela intatti, pronti a essere rivissuti in tutto il proprio intenso fragore.

È questa parte che dobbiamo riguardare, tenere sana e in forma, coccolare forse.

Pensare come penserebbe un animale, guardare le cose come le guarda un bambino, con lo stesso candore, con innocenza, senza giudizio o contaminazioni, senza cattiveria o preconcetti.

E questo ci porta al terzo fondamentale requisito, forse il più importante. L’onestà.

Scrivere per dare un giudizio di valore, per esprimere un’opinione, per indirizzare quella altrui non è arte, è lavoro. Si può diventare molto bravi a farlo ma occorre essere ben pagati. Non si può trarre piacere da questa scrittura. Un’opinione conta quanto un’opinione, lecito esprimerla ma non sarà mai un fatto.

Sono altre le caratteristiche della scrittura che danno piacere, che la trasformano in arte.

L’onestà è una di queste, e dall’onestà trascende la bellezza.

Rimango un momento, come inebetito dal monitor, come se fossi una falena, poi mi risveglio e comprendo che tra poco più di un mese sarà primavera, il vento sarà dolce e smetterà di ferire le guance, la luce durerà fino a tardi e il profumo della natura riempirà l’aria.

Nel frattempo non resta che affidarmi alla dolcezza della lettura e al piacere di riconoscere, quando lo trovo, un autore prima di tutto onesto.

 

 

 

 


sabato 10 febbraio 2024

La spia sul cruscotto

 





 

Berni stava disteso, più pallido del lenzuolo stesso, con le guance incavate e gli occhi chiusi. A guardare bene sembrava avere le palpebre appena separate, come chi dorme profondamente o chi è morto.

In effetti, sembrava di guardare un morto.

Stefano rabbrividì a quel pensiero, ma non avrebbe saltato un appuntamento con il suo amico o almeno quel che restava.

Il vetro della rianimazione era pulito, come tutto il resto, Stefano ci aveva appoggiato il palmo della mano ma Bernardo non poteva muoversi, non avrebbe potuto farlo nemmeno se non fosse stato in coma, collegato com’era a tutti quei tubi, cavi elettrici, cateteri. Stefano avvertì sulla pelle solo il freddo del vetro e una sensazione di solitudine.

Pensare che ci avevano scherzato sopra solo poche settimane prima.

“Io il dolore lo sopporto benissimo, da uomo, e non è vero quello che si dice in giro, che a noi maschi basti un taglietto sul dito per farci piangere!” Bernardo non ne voleva sapere di ragionare. L’amico provò a convincerlo del contrario, a dirgli che sarebbe stato opportuno farsi visitare, fare degli esami.

“Per diventare una cavia da laboratorio?” Bernardo lo aveva zittito, sull’argomento non c’era discussione possibile. Poi, per dargli un contentino, erano andati alla farmacia sotto casa di Stefano, dove Berni aveva acquistato degli integratori di magnesio e delle vitamine. “Vedrai che con questi, nel giro di due settimane mi sentirò come un leone”.

Stefano ripensò alle parole dell’amico e quasi sorrise da dietro il vetro.

Un leone attaccato a un respiratore.

Stefano aveva anche provato con una similitudine.

“Avevo una vicina, un giorno sulle scale mi disse che era comparsa una spia sul cruscotto dell’auto, che tipo di spia le chiesi e lei mi aveva risposto, non saprei, gialla con un disegnetto nel centro, allora le avevo consigliato di portare subito l’auto in un’officina meccanica ma lei aveva obiettato che l’auto girava bene e non faceva alcun rumore strano. Dopo una settimana, incrociandomi sulle scale di casa, mi aveva confessato, vergognandosi molto, di aver fuso il motore, che aveva dovuto chiamare il carro attrezzi e le sarebbe costato un patrimonio riparare il danno. Voleva scusarsi con me per non avere dato credito al mio consiglio”, Stefano e Bernardo erano amici dalle elementari e Berni era stato sempre un testone. Probabilmente ci avrebbe anche riflettuto ma la vecchina della farmacia aveva cancellato ogni possibilità.

Erano in coda, Bernardo con la scatola dell’integratore al magnesio in mano e il suo dolorino da niente tra le costole, quando sentirono lo scambio tra la vecchina e la dottoressa.

“Avrebbe dei fermenti lattici per la mia pancia? Mi dia quelli forti per favore.” Era stata la richiesta della vecchina.

La farmacista le aveva mostrato due scatole uguali: “Vuole questa da due miliardi o quella da quattro miliardi?”

“Non sono un po’ troppo cari?” Era stata la risposta seccata della signora alla quale Stefano e Bernardo non erano riusciti a fermare le grasse risate che erano continuate sin fuori del negozio. Il buonumore aveva cancellato la drammaticità e l’efficacia del racconto sulla spia e sul motore fuso.

In fondo il dolore è proprio una spia sul cruscotto, che ci sta avvisando che qualcosa non funziona come dovrebbe o che si sta per rompere, pensò Stefano da dietro il vetro.

L’ora delle visite, se di visita si potesse parlare, era quasi terminata e fu in quel momento che Stefano si accorse che la sua similitudine si stava realizzando. Sul monitor che registrava le funzioni cardiache e pressorie dell’amico, due lucine rosse avevano iniziato a lampeggiare, un infermiere era corso a controllare, aveva manovrato con i rubinetti che erogavano sostanze nelle vene dell’amico e tutto era rientrato.

Dopo un po’ l’infermiere in casacca verde era uscito dalla porta e aveva avvisato che il momento delle visite era terminato. Rientrando poggiò una mano sulla spalla di Stefano e andò via senza dire niente.

Perché non c’era niente da dire.

Stefano guardò un ultima volta il corpo del suo amico, che sembrava morto. Forse era un addio ma forse no, chi poteva saperlo.

Finché le lucine sono verdi, va tutto bene, si disse Stefano e non sapendo se sorridere o piangere, andò semplicemente via.