venerdì 26 agosto 2022

Linda

 







Linda si guarda allo specchio e conta le nuove rughe. 
Le conferiscono un tono da antica prof di matematica. Certo, è sempre stata una donna attraente e ora ha un viso bellissimo e un'espressione importante.

Pensa che avrebbe potuto fare l'attrice.

Avrebbe potuto anche essere in carcere oppure morta.

Questo pensiero le fa distogliere lo sguardo dallo specchio. Non vuole guardarsi mentre piange, mentre una smorfia di amarezza le accartoccia i lineamenti.

Sono trascorsi quarant'anni dalla sua vita passata ma questa non ha mai smesso di farle male, di torturare la sua anima.

Aveva appena compiuto diciotto anni ed era in rotta con suo padre. Odiava il mondo intero, per dirla tutta. I suoi erano dei borghesi rigidi e bacchettoni. Democristiani convinti, retrogradi conservatori della peggior specie, avevano fatto quattro soldi con un negozio di merceria, vendendo stoffe alle poveracce costrette a cucirsi gli abiti da sé. Alla prima occasione Linda era fuggita a cavallo di una moto, guidata da quello che le sembrava un cavaliere misterioso.

Erano gli anni dell'amore libero, della nascita di movimenti estremi e bizzarri. Aveva iniziato a fumare dapprima sigarette leggere, poi erba che le passavano da ogni parte. Aveva camminato a piedi nudi e indossato coroncine di fiori. E conosciuto diversi altri cavalieri.

Niente sembrava saziare la sua fame di vita, la sua sete di ribellione e vendetta, di cosa poi non era chiaro neppure a lei stessa.

Era entrata a far parte di un gruppo politico, convinta dal suo amico del tempo, un giovane magro e nervoso, con la folta barba e gli occhialetti che lo facevano assomigliare a John Lennon, fatto che lo rendeva ancora più nervoso. Non facevano che complottare contro lo stato dittatore, il potere forte della politica, della ricca borghesia, banchieri, notai, senatori che muovevano i fili del paese. Occorreva fare qualcosa e occorreva farlo subito.

Linda scoprì presto che i soldi per comprare fumo, generi alimentari e di conforto, provenivano da attività illegali, furti e piccole rapine. Il suo compagno giustificava quegli atti, raccontandole che le vittime erano scelte sulla base di criteri etici, persone vicine ai potenti, con posizioni politiche criticabili. Insomma gente da punire. Lei aveva bevuto quella scusa ignorando il vero significato così come ignorava l'olezzo che proveniva da tutti.

Evidentemente a quei rivoluzionari non stava simpatico il sapone.

Alla fine si era fatta convincere dagli altri a dare un contributo attivo alle attività della banda.

Era entrata con altri due in una gioielleria, lei e un suo compagno avevano finto di essere una coppia in cerca di un anello da regalare, poi avevano coperto il terzo mentre minacciava con un coltellino svizzero la commessa e le avevano impedito qualunque reazione.

Una manciata di collane e anelli, un rotolo di banconote da centomila lire e poco altro, aveva fruttato la rapina, poca roba, da tirare avanti una settimana, ma Linda si era eccitata come mai in passato e quello stato era durato diversi giorni.

Aveva chiesto e ottenuto di entrare a far parte di azioni del genere un altro paio di volte.

Nel frattempo il sosia di Lennon si era stufato e aveva abbandonato il gruppo. Ma a Linda quella vita stava piacendo. Non partecipava alle riunioni politiche, dove la partecipazione era quasi totalmente maschile ma aveva sentito parlare di alzare i toni, cominciare a fare sul serio, puntare più in alto. Lei non aveva idea di cosa si stesse organizzando nel gruppo e neppure le interessava. Come se la cosa non la riguardasse.

Un mattino la sua compagna di camera, le porse un sacchetto di carta, di quelli scuri per il pane. Le disse solo, questa è per te.

Linda prese il sacchetto, sorpresa del peso dello stesso. Infilò la mano e ci tirò fuori una pistola. Per poco non la fece cadere dalla sorpresa.

Poi la guardò non senza provare una sorta di fascino perverso.

Guardò a lungo la pistola. La soppesò e alla fine la rispose nel sacchetto.

Poco dopo uscì dalla casa, senza sapere bene cosa fare ma sapendo che non sarebbe tornata indietro.

Non voleva ritornare a casa e chiese temporaneo asilo a una cugina.

Il giorno dopo i suoi compagni tentarono di rapire un senatore. Uno di loro sparò un colpo in aria, non aveva intenzione di fare del male a qualcuno, non ne avevano mai fatto prima, ma la scorta armata privata del politico rispose al fuoco e uccise due giovani del suo gruppo. Una terza fu arrestata, era la compagna di stanza di Linda.

La notizia la riempì di sgomento e la fece piombare in uno stato di depressione da cui fece fatica a uscire. Lentamente provò a costruirsi una vita fatta di cose normali, di valori che non le avrebbero fatto mettere a rischio la propria e l’altrui incolumità, che non le facessero rischiare l’arresto.

Non tornò dai suoi genitori, le cose che si erano rotte quando era ragazza non si sarebbero messe a posto, né chiese mai il loro perdono. Pensava che semmai sarebbero stati loro due a doverlo chiedere a lei.

Non capì mai che cosa le fece posare il sacchetto con la pistola, e le fece decidere di uscire per sempre da quel giro che l’avrebbe portata alla rovina.

Anche oggi che si guarda allo specchio, con le sue rughe, la sua bellezza antica che ancora fa girare gli uomini, il suo sguardo profondo, si chiede a volte chi o cosa sia stato.

Non lo sa.

Quello che sa è che le sue azioni, i passi che fece quel giorno furono guidati da qualcuno che le voleva bene e che non avrebbe permesso che le accadesse qualcosa di brutto.

Linda non è mai diventata religiosa o credente ma sa di dover ringraziare.

Solo non sa chi.















mercoledì 10 agosto 2022

L'avvocato

 


                                                                                                       





Il secondino fa roteare il pesante mazzo di chiavi attorno al pollice.

Buriani! Urla, pensando di svegliarmi, ma io sono già sveglio da due ore.

Ha un’aria allegra, lavorare all’alba lo deve mettere di buon umore.

Da che sono in gabbia non ho mai dormito più di quattro ore per notte e sono passati quasi undici anni. Non è stata una passeggiata di salute. Il secondino è nuovo, lavora qui da non più di sei mesi. Loro sì che non ce la fanno, occorre cambiarli spesso altrimenti si bruciano. Si chiama Aldo Morozzi, ma l’ultimo che l’ha chiamato per nome è finito in infermeria con la mano rotta, meglio chiamarlo Signore.

Buriani, sveglia! A colloquio con l'avvocato tra dieci minuti!

Stavolta si che sono sorpreso. Non ho chiesto nessun colloquio. Ma se c'è una cosa che s’impara subito qui dentro è che non si discute con le guardie. Men che meno con questa.

Sì, signore! Urlo io di rimando e reprimo un sorriso quando vedo che c’è rimasto male.

Il molosso che russa sulla branda sotto la mia, non si è spostato di un millimetro. Perde bava come un mastino di centotrenta chili e più che addormentarsi, sembra che vada in coma. Forse lo è davvero in coma, visto che è diabetico e che divora tutti i dolci che trova.

Sebastiano, così si chiama il molosso, è dentro per spaccio. Organizzava da casa, con la madre ottantenne, una rete di velocissimi corrieri, che con bici e monopattini coprivano tutte le esigenze della provincia. Altro che Glovo…

Lui sconta qualcosa come quattro o cinque anni, l’ho detto, reati di droga.

Io sono dentro per omicidio.

Ci vogliono due minuti per infilare i calzoni e allacciare i bottoni della camicia azzurra, che andrebbe larga anche al molosso che continua a russare. La barba è di un giorno e non devo radermi, sciacquo il viso nel piccolo lavabo arrugginito e mi pettino i capelli appena bagnati. Poi mi metto davanti alle sbarre per mostrare la mia sollecitudine.

Evito di poggiare le mani, come hanno imparato tutti. A Morozzi piace usare il manganello. Mi vede, apre la piccola inferriata e con un cenno m’invita a uscire. Porgo i polsi e lui annuisce soddisfatto. Conosco la procedura, quindi meglio non perdere tempo. Mentre mi ammanetta, mi scruta ma non sorride, sa bene che con quelli come me è inutile la maschera. Io faccio in modo che non abbia problemi di lavoro e lui in cambio mi lascia intatte le ossa. Mi sembra un vantaggio per tutti. Per me lo è di sicuro.

Cammino guardando la schiena muscolosa della guardia. Due chiazze scure si vanno allargando dalle sue ascelle, scendendo sui fianchi fin quasi alla cintura. Sono solo le sette e fa già un caldo insopportabile. Morozzi cammina veloce, ascolta i miei passi che lo seguono come fossi il suo cagnolino. Non ha paura di voltarmi le spalle, Qui è lui quello forte, quello che ha il potere, quello che comanda. E poi ho già scontato undici anni, me ne rimangono tre scarsi, fatti di permessi per buona condotta e inserimenti in progetti per lavori sul territorio. Sono sulla strada della riabilitazione, sarei un bello stupido a cercarmi guai con un fottuto secondino.

Lui lo sa, io lo so. Discorso chiuso.

Arriviamo al primo cancello. Morozzi chiama il collega di guardia. Gli mostra il pass, attende lo scatto della serratura e mi tiene la porta come farebbe con la sua donna a un appuntamento galante. Poi ride e la risata si trasforma presto in un accesso di tosse catarrosa.

Imbocchiamo un lungo corridoio in penombra.

Chi può essere l’avvocato che ha chiesto di parlarmi e perché a un orario così strano? Il mio avvocato, se così posso definirlo, visto che non lo pago da anni, si è sentito qualcosa come cinque o sei anni fa, per una richiesta che lui mi proponeva di fare. Trasferirmi in un altro istituto di pena. Perché poi, per avvicinarmi alla famiglia? Gli ho detto di non farsi più vedere e lui ha eseguito gli ordini. Non ho un avvocato, qui non mi serve, ho tutto, il molosso che dorme sotto di me e divide cella e le giornate, i secondini, il cortile col campo da basket, un avvocato? Davvero non saprei che farmene.

Ci avviciniamo alla zona del parlatorio, non che lo usi spesso, ma ricordo bene la strada.

Morozzi mi conduce nella stanza, vicino al tavolo è seduto un tizio magro come un chiodo e pallido come un fantasma. Sul tavolo vi è poggiata una borsa di pelle. Da avvocato.

Sono l’avvocato Guidoni. L’esordio dell’omino non è dei più felici. Timido, imbarazzato, la voce di chi vorrebbe essere da tutt’altra parte.

Vorrei dirglielo ma la curiosità è più forte.

Rappresento la famiglia Butera.

Faccio per alzarmi ma Morozzi mi preme una mano grossa quanto un badile, sulla spalla e mi rimette a sedere.

Cerca di fare il bravo, mi intima Morozzi in un orecchio, sta seduto e ascolta quello che ti deve dire l’avvocato, io vado a prendere un caffè ma sono sicuro che non darai problemi. Tranquillo avvocato, Buriani qui non è una testa calda. Poi strizza gli occhi a entrambi ed esce dalla stanza.

Non mi resta che ascoltare e poi tornarmene in cella dove Sebastiano il molosso mi aspetta.

Mi chiamo Andrea Guidoni. Ricomincia a dire il giovane in giacca e cravatta. Almeno è educato.

Deve perdonare la visita senza preavviso ma così mi è stato suggerito di fare dai miei clienti. Hanno anche detto che lei non avrebbe accettato di parlare con un rappresentante della famiglia di Leonardo Butera, se lo avesse saputo in anticipo.

Leonardo Butera.

Solo sentire nominare il nome di Leonardo mi dava come una scossa dentro, dalle parti della colonna vertebrale, al centro del petto. Leonardo che era morto da dodici anni e che non aveva mai smesso di tormentarmi.

Rimorso, senso di colpa, peccato mortale. Leonardo mi aveva costretto a diventare un assassino. A diventare un galeotto dall’età di trent’anni e lo sarei rimasto per tutta la vita.

Sapevo cosa aveva da dirmi l’avvocato Guidoni. Avevo già ascoltato la stessa richiesta da altri. E avevo sempre rifiutato.

I fratelli Butera, Antonio e Maria Angela avrebbero molto piacere di incontrarla durante il suo prossimo permesso. Per loro è importante poterla vedere, dirle che hanno perdonato il suo gesto, il crimine da lei commesso. Sono molto credenti e hanno pregato tanto per lei.

Guidoni ha preso confidenza col ruolo, parla più speditamente. Sono contento per lui, la stoffa c’è e magari un giorno diventerà un avvocato di grido. Ha una specie di tic, strizza ripetutamente l’occhio sinistro e gli si forma una ragnatela di rughe. Ci dovrà lavorare ma è giovane, avrà tempo.

Fa una pausa, mi crede meditabondo ma io osservo solo il suo occhio. Riprende.

Comprendo il suo timore ma le posso assicurare che nell’animo dei fratelli di Leonardo non c’è nessun intento di vendetta. Vorrebbero solo che lei sentisse il loro perdono.

Resto in silenzio.

Dopotutto l’agente Morozzi mi ha intimato di ascoltare. Non di dare una risposta. L’avvocato rimane in attesa ma il mio silenzio lo atterrisce. Non è preparato, penso io, non sa cosa fare ed io non ho intenzione di aiutarlo. Deve capire che venire in carcere a parlare con un omicida non è una passeggiata, non gli offrirò un aperitivo.

Non ha niente da chiedermi? Prova lui speranzoso. Io faccio cenno di si con il capo. Lui spalanca gli occhi, quasi famelico ed io riconosco di nuovo la stoffa dell’avvocato.

Vorrei tornare in cella. Mi chiama il secondino, per favore?

La delusione del giovane avvocato Andrea Guidoni mi lascia indifferente.

Mentre torno in cella, scortato da Morozzi che ora sembra piuttosto annoiato, penso che vada bene così. Ho fatto quello che ho fatto perché non avevo scelta. Leonardo Butera non mi ha dato alternative. Forse è stato un errore, anzi, di sicuro lo è stato. Pagherò quell’errore, non solo con la pena, lo pagherò tutta la vita.

Non è affare che riguardi i fratelli devoti.

Non voglio il loro perdono. Non lo merito.

Non li incontrerò mai.

Sarò sempre Buriani, quello che si è fatto il carcere per omicidio e nessun perdono potrà cancellare questo.

Dietro l’inferriata, Sebastiano il molosso mi chiede con voce gentile, da innamorato, se ho una sigaretta.

Il suo sorriso marcio fa sparire temporaneamente la faccia di Leonardo dai miei pensieri.

Fino al prossimo permesso.