Una lacrima scivola
calda e salata, percorrendo la dolce curva dello zigomo e piegando improvvisa
verso il vertice delle labbra.
Cate si guarda allo
specchio, non vorrebbe piangere ma il rubinetto si è aperto da solo.
Meno di mezz’ora e il
suo turno sarebbe terminato ma il collega di reparto, visto l’accaduto, è sceso
prima a darle il cambio in guardia.
Cate asciuga le lacrime
e poi soffia forte il naso.
Sulla guancia appena un
segno rosso, domani non si vedrà nulla. Sull’anima il segno si sentirà per
molto più tempo. È dentro che sente il bruciore più intenso.
Aveva percepito l’ostilità
dell’uomo, si era accorta subito di essere in pericolo, infatti, aveva lasciato
la porta spalancata e questo l’aveva salvata da danni maggiori. Ai primi rumori
sospetti, il raschiare della sedia che cadeva, la voce e il tono dell’utente,
Duilio, una guardia armata sveglia e grossa, era accorso e tutto si era risolto
immediatamente, sgonfiato come un palloncino bucato, accartocciato come una
foglia secca gettata nel fuoco.
L’uomo si era fatto
piccolo di fronte al metro e novanta di Duilio, poi era scomparso attraverso la
porta. La guardia non aveva perso tempo e lo aveva fermato in portineria.
-Tu non vai da nessuna
parte. Poi aveva chiamato il pronto intervento.
Cate, o meglio la dottoressa
Caterina Rossini, medico specializzando, era rimasta attonita nello studio, con
la mano a coprire il segno dello schiaffo ricevuto, come fosse una cosa
vergognosa da mostrare, nemmeno fosse stata colpa sua.
Tutto per una ricetta
di farmaci che lei non era autorizzata a rilasciare, tutto per l’arrogante e
ignorante supponenza del cafone che si era trovata davanti.
Non voleva piangere,
mostrarsi debole ma ora sembrava non poter controllare la reazione del suo
corpo. Aveva chiamato il collega medico in reparto, questi le aveva controllato
la ferita, poi era scesa negli spogliatoi a darsi una rinfrescata.
Non sentiva dolore e
anche ora, che si guarda allo specchio, capisce che il danno è minimo ma il
collega e Duilio l’avrebbero convinta a sporgere denuncia.
Quello che le fa male
ora sono le parole che l’uomo le ha rivolto dopo averla schiaffeggiata.
-Se non mi scrivi
quella ricetta ti vengo a trovare a casa, so chi sei lesbica di merda!
Mentre un'altra lacrima
scende, seguendo il percorso bagnato delle prime, ripensa all’università, alle
notti insonni a bere caffè a litri, agli esami impossibili da passare davanti ai
vetusti baroni, ai sacrifici economici quando la borsa di studio non copriva le
spese, e tutto questo per arrivare qua, turni di dodici ore notturne, in balia
del primo idiota pronto a minacciare e a passare alle vie di fatto.
Cate sentiva la rabbia
montare dentro e quelle parole “lesbica
di merda” bruciare come se fossero state marchiate a fuoco sulla sua pelle.
Che cosa importava agli
altri come lei aveva scelto di vivere? Come si era permesso quello, che credeva
uno sconosciuto, di fare quell’intrusione nella sua sfera privata, di esprimere
in quel modo banale e orribile il suo orientamento sessuale?
Lesbica di merda.
Come avrebbe potuto
raccontare a Patrizia, la sua compagna, senza che questa avrebbe preteso di
sapere nome e cognome di quell’essere meschino?
Il loro rapporto era
basato sulla completa sincerità e Cate non voleva comprometterlo. Ma aveva
anche paura della reazione della compagna.
Patrizia era
istruttrice di Tai Boxe e una volta, in un bar, aveva appiccicato al muro un
tizio, solo perché si era permesso una battuta fuori luogo. Questa volta
Patrizia non avrebbe fatto passare liscia l’aggressione, sapendo che dopo la
denuncia non sarebbe accaduto nulla.
Cate si lava la faccia
e si aggiusta la coda scompigliata di capelli. Torna su, ora saranno arrivati
gli agenti e vorranno chiederle com’è andata. Faranno il verbale e tutto si
chiuderà.
Ma niente si chiuderà
per lei, né il ricordo dello schiaffo, né le parole dell’uomo.
Sarebbe tornata a casa
con il cuore gonfio di sentimenti nuovi e dolorosi, sarebbe tornata a coprire i
turni in guardia medica con la certezza che prima o poi si sarebbe ripetuto un
incidente simile, con lo stesso uomo o con un altro, il mondo era pieno di
questi vermi su due piedi.
E lei? Come doveva
considerarsi?
Non abbastanza grave da
essere una vittima, non abbastanza medico da imporre la propria decisione, non
abbastanza donna da avere un marito… come la vedeva il mondo?
Cate, finito tutto,
mette il cappotto e si affretta verso casa.
Non le importa di come
la vede il mondo e questo pensiero le dona una forza fresca nelle gambe. Non le
interessa di com’è stata chiamata da quell’uomo.
È un problema degli
altri non riuscire a capire e ad accettare il prossimo, non suo.
Vuole solo tornare a
casa dal suo amore.
Vuole solo farsi
abbracciare addormentarsi e dimenticare lo schifo che c’è nel mondo.
Fare una doccia
bollente e togliersi il fango che abbonda nelle vite degli altri e che a volte,
malauguratamente, questi ti schizzano sulle gambe.
Cate osserva il sole
che spunta e avverte che il bruciore di quelle lettere sta velocemente
scomparendo.
Lei ora è solo Cate e a
casa c’è una donna che la ama così com’è.