sabato 20 giugno 2020

luoghi insoliti: il cane, lo scecco e il carretto

luoghi insoliti: il cane, lo scecco e il carretto: Perché piangi piccolino?  Vieni qua da tuo nonno…  Mamma non vuole comprarmi un cane. Risponde il bimbo, tirando su c...

il cane, lo scecco e il carretto














Perché piangi piccolino? 

Vieni qua da tuo nonno… 

Mamma non vuole comprarmi un cane. Risponde il bimbo, tirando su col naso. 

Nonno ma tu… hai mai avuto un cane? Io ne vorrei tanto uno… 

Il nonno prende Gigi e lo fa sedere sulle gambe. 

Ora nonno ti conta una storia. E mentre lo dice, si asciuga un occhio col fazzoletto… 



Il cielo della Sicilia, privo di nuvole, già minacciava di arroventare tutto mezz'ora dopo l'alba ma per un ragazzo di dodici anni, come me, non sarebbe stato un problema. Il mattino, dopo la zuppa di pane e latte, partivo per il campo a tracciare i solchi, al pomeriggio a ripassare per spargere la semenza e la sera a dare acqua e controllare che i corvi non si mangiassero tutto. 

Mio padre aveva stabilito che ero abbastanza uomo da badare a quel terreno arido e scosceso, distante mezza giornata di cammino da casa e mi ci aveva lasciato per una settimana da solo, unica compagnia lo scecco1 che serviva a tirare il carretto e Camilla, una bastardina di quindici chili tutto pelo biondo e occhioni che stravedevano per me. In verità io, quando la sera scendeva lo scuro mi scantavo2 un poco e mi nascondevo sotto la coperta dopo aver chiuso bene il lucchetto della porta. Ma ai piedi del letto si acciambellava la cagnetta e il suo respiro forte mi dava consolazione. 

Non potevo contrariare mio padre, all’epoca di tuo nonno bambino, l’educazione s’insegnava con la cinghia, ed io ne avevo paura e poi non volevo deluderlo. Così ogni sera, con l’aiuto di Camilla, mi facevo forte e mi ripetevo, sono un uomo e gli uomini non hanno paura! 

Poi l’alba arrivava ed era subito ora di uscire e andare a girare la terra nel campo che in quei giorni secchi e caldi pareva non finire mai. 



Devi sapere, Gigi, che quando ero piccolo io, non c’erano i telefonini come oggi, e nemmeno i telefoni nelle case. Quello era un lusso per i signori, i baroni e i proprietari terrieri. Potevi fare o ricevere una telefonata all’ufficio postale o nella farmacia, quando il dottore era di buon umore. 

Non potevo chiamare a casa o chiedere aiuto, non potevo sentire la voce di mia mamma che pure mi mancava tanto. 

Così io me ne stavo buono, nella baracca spoglia, al campo di mio padre, a badare alla terra e a sperare che non venissero i ladri. 

La mattina del penultimo giorno, avevo ricevuto l’ordine di recapitare tre sacchi di olive, raccolte la settimana prima ai piedi del monte, nel terreno di mastro Santo, un compare d’affari di mio padre e li avevo caricati senza sforzo sul piccolo carretto che avevo legato all’asino. Mastro Santo era un uomo burbero, che masticava tabacco in continuazione e viveva a cinque chilometri dal nostro piccolo campo. Non ci avrebbe dato soldi per quelle olive ma mi avrebbe consegnato cinque sacchi di farina che il giorno dopo avrei portato alla mia famiglia, quando sarebbe finalmente terminata la settimana di lavoro. 

Sarei tornato a casa con la farina e sarei tornato da uomo. Forse mio padre mi avrebbe regalato un rasoio e avrebbe accordato il permesso di radermi, anche se i peli sotto il mento ancora non si decidevano a crescere. 

La cagnetta intanto mi seguiva come un’ombra ovunque andassi. 



La strada per il terreno di mastro Santo era in leggera salita ma lo scecco era giovane e forte e tirava il carretto senza accorgersi. Ogni tanto chiamavo Camilla con un fischio e la invitavo a salire sul legno dove stavo seduto io, ma lei preferiva seguirci da lontano, scorrazzando tra il sentiero e i campi, inseguendo chissà quali piste di odore, tracce invisibili e invitanti di animali selvatici, erba buona da masticare e sassi contro i quali grattarsi. Insomma la cagnetta faceva un percorso tutto suo, ma non smetteva mai di osservare il carretto con me sopra e appena ci allontanavamo dava un guaito come a dire, non temere, ora ti raggiungo, e si metteva a galoppare fino a trovarsi fra le ruote del carro. 

La casupola di mastro Santo puzzava di sudore e di quel tabacco amaro che masticava e sputava ovunque. Mi diede una manata sulle spalle magre che avrebbe potuto ammazzare l’asino e disse con acida allegria: Ecco il figliolo di Salvatore, ti stai facendo uomo, vero? Se ti lasciano lavorare il terreno da solo… poi indicò i sacchi di farina con un gesto del mento e senza dire una parola mi comandò di fare il lavoro. 

Se volevi diventare adulto, dovevi capire il linguaggio dei grandi, che parlavano con gesti che anche senza parole stavano a dire discorsi completi. Questo io lo avevo capito e non mi facevo mai dire una cosa due volte. 

Scaricai i tre sacchi di olive e li poggiai sul tavolo. Poi, sempre senza parlare, andai a caricare sulla schiena i cinque sacchi di farina, uno per volta, trasportandoli fuori sul carro. Camilla si era sdraiata sotto a godersi un poco d’ombra. Finii il lavoro che ero sudato e rientrai per salutare. 

Baciamo le mani, don Santo. 

Capisci, l’educazione era necessaria, era tutto, educazione e rispetto, così mi aveva cresciuto mio padre e così doveva essere se volevi lavorare e se volevi mangiare, ma lo vedo che mi guardi strano, oggi è tutto diverso… 

Mastro Santo mi strinse la mano, proprio come si faceva tra uomini, e mi sorrise mostrando i denti ingialliti, mi disse di portare i suoi saluti alla mia famiglia. Sì, mi sorrise, ma i suoi occhi rimasero seri, e quegli occhi mi facevano paura. 

Poi tornai sul carro e col bastone pungolai lo scecco che ripartì lento. Fischiai alla cagna che obbediente si rimise dietro, trottando fresca e riposata. 

L’aria calda del pomeriggio, la stanchezza della settimana, il dondolare delle ruote mi facevano chiudere gli occhi, così forse mi addormentai per qualche minuto ma non importava, perché lo scecco sapeva la strada e per quella trazzèra3 assolata non c’era anima viva cui badare. 

Quando arrivai alla porta di casa, ero contento che quella sera non ci sarebbe stata terra da dissodare e seminare. Avevo terminato il lavoro, avrei divorato le ultime provviste della settimana e mi sarei fatto una bella dormita fino al momento di ripartire per casa, all’alba di domani. 

Mi girai a fischiare al cane ma il sentiero era vuoto. Chiamai Camilla e restai in silenzio ad ascoltare quello che mi sembrava un abbaiare lontano. Non ero contento ma sapevo che sarebbe arrivata presto, così scesi dal carretto, staccai lo scecco e andai a legarlo, riempii il suo secchio di acqua e gli misi da mangiare. Poi andai al carro per mettere in casa i sacchi di farina e per un momento rimasi come un balordo davanti al carro. Contavo solo quattro sacchi. 

Ricontai tante volte, come se contandoli potessero aumentare ma niente da fare, sempre quattro erano. 

Mi venne da piangere per la rabbia. Volevo chiamare Camilla, ma dove si era cacciato quello stupido cane? Mi avrebbe sentito, avrei usato il bastone, non doveva allontanarsi. Urlai forte ma niente, dai campi rispondeva solo il silenzio. 

Portai i quattro sacchi in casa, tremante di rabbia per la mia stupidità. Li avevo caricati tutti? Ero stato attento a contarli? Non potevo mica tornare a casa a dire che mastro Santo mi aveva fregato… e neppure potevo permettere che mio padre e quell’uomo si facessero cattivo sangue… avrei preso la mia colpa e l’avrei scontata a suon di cinghiate. 

Mentre la notte scendeva, tornai a chiamare la cagna ma niente, avevo perso anche lei. Portai il pane che non ero riuscito a mangiare, fuori dalla porta perché la fame la facesse tornare da me. Dopo mi chiusi la porta e andai sulla branda da dove avrei fissato il soffitto buio per gran parte della notte. 



Quella notte mi sentivo come un bambino impaurito, altro che uomo che ha bisogno di radersi… 

Però mi addormentai, male ma dormii. All’alba ero in piedi, il carro attaccato all’asino, i sacchi, sempre quattro, caricati sul carretto. 

Misi il catenaccio alla porta e partii. Del cane nessuna traccia. 

Stavo male e mi veniva da piangere. 

In cima alla strada, invece di girare a mancina verso casa, seguii l’istinto, e tirai le redini verso destra, in direzione della proprietà di mastro Santo. Avrei tardato di qualche ora e mio padre si sarebbe arrabbiato ancora di più ma ormai, nella mia disperazione, cosa contavano due cinghiate in più? Dovevo trovare Camilla e mi misi a gridare come un pazzo. Dopo mezz’ora di strada vidi una macchia scura sui sassi bianchi. A dodici anni ci vedevo come le aquile, non come ora, e dopo poco capii cos’era. Scesi dal carretto e mi misi a correre ridendo e piangendo assieme, pazzo di gioia e felice come mai ero stato prima… Camilla alzò la testa e abbaiò quando mi vide, ma non si mosse e non lasciò di fare la guardia all’oggetto che aveva tra le zampe. Stava proteggendo il sacco di farina e non lo avrebbe abbandonato. Mi buttai sopra al cane, gli spazzolai in pelo corto sulla testa, gli massaggiai la schiena, gli carezzai le orecchie e mi accorsi che aveva una ferita dietro al collo ed era sporca di sangue ma stava bene e non la smetteva di leccarmi le mani. Il sacco ai suoi piedi era graffiato e lacero, doveva averlo difeso con i denti da chissà quale animale e lo aveva protetto con la sua vita. Lo aveva fatto per me ed io ero felice che stesse bene, potevo tornare a casa pazzo di gioia, nemmeno tanto per il sacco di farina ritrovato, ma perché affianco a me c’era la mia compagna Camilla. 

Non l’ho più persa di vista, ha sempre viaggiato sul carretto al mio fianco, ha camminato con me finché ha avuto la capacità di stare dritta e non l’ho lasciata sola neanche quando non ha più avuto la forza di vivere. 

Sono diventato uomo quell’estate, lavorando da solo nei campi e portando a termine il travaglio che mio padre mi aveva affidato ma se così è stato è grazie al cuore e al coraggio di quella cagnetta di quindici chili, dal pelo biondo e grandi occhioni che aveva solo per me. 



Gigi guarda suo nonno, lui ha smesso di piangere ma ora è suo nonno ad avere gli occhi lucidi. 

Non piangere nonno, sai cosa facciamo? Lo chiediamo insieme a mamma il permesso di prendere un cane. 

L’uomo stringe il nipote e risponde sereno: Si Gigi, faremo così, vedrai, mamma non dirà di no… 




Ispirato a una storia vera.



1 asino

2 spaventavo
3 via tra i campi








sabato 6 giugno 2020

luoghi insoliti: acqua e fuoco

luoghi insoliti: acqua e fuoco: Ho, di recente, letto un saggio che mi ha molto fatto pensare.  Siamo consapevoli delle conseguenze che le nostre...

acqua e fuoco











Ho, di recente, letto un saggio che mi ha molto fatto pensare. 

Siamo consapevoli delle conseguenze che le nostre azioni, decisioni, prescrizioni hanno sugli altri? Probabilmente no, o di certo non sempre. 

Si possono usare modi gentili per indurre qualcuno a produrre azioni sbagliate o malvage. Al contrario con maniere sgarbate e perentorie si può persuadere uno a fare una cosa corretta e giusta. 

Qual è la differenza? 

Il risultato ma non solo quello. 

Se si vuole raggiungere a tutti i costi il target prefissato, è lecito utilizzare modi aggressivi? 

Se pensiamo di sì e lo facciamo, raggiungeremo il risultato atteso ma le persone saranno scontente. 

Diversamente, se il risultato è irrilevante, si potrà utilizzare la gentilezza, non si otterrà alcunché ma le persone si sentiranno felici. 

Quindi la questione è cosa si vuole ottenere e in quanto tempo. E quanto teniamo al benessere altrui. 

E’ meglio ricordare che è inutile chiedere cose irrealizzabili. Non posso esigere da un pesce rosso di arrampicarsi su un albero, potrebbe sembrare una banalità ma questa semplice regola è fondamentale se si vogliono gestire persone, e vale per ogni tipo di gruppo, familiare, amicale, lavorativo. Quando si danno indicazioni o s’impartiscono ordini, è necessario essere affidabili e chiari. Se impartiremo ordini confusi, saremo la causa della confusione di chi li eseguirà. 

Nel menzionato celebre saggio “L’arte della guerra” l’autore ci insegna che: “Truppe disorganizzate indicano che il comandante non ha autorità” e noi che viviamo la modernità ci preoccuperemo oltre che dell’autorità anche dell’autorevolezza. 

Il segreto, che poi tanto segreto non è, sta nel definire che chi governa e chi è governato abbiano il medesimo intento. 

E’ fondamentale conoscere inoltre chi ci sta attorno e chi è amico, ma anche chi ci osserva da più lontano senza benevolenza. E’ importante capire i piani delle persone se si vogliono stringere alleanze e concludere affari. 

Provo a fare un esempio. 

Osserviamo due uomini discutere animatamente, ci accorgiamo dei segnali corporei che l’uno invia all’altro. Se non si è ciechi, si potrà capire se la discussione terminerà con un accordo oppure se degenererà in un litigio. Poniamo che la zuffa li faccia rotolare sulla riva scoscesa di un fiume e questi, perdendo l’equilibrio caschino su una barca lasciata sulla riva e finiscano così in balia della corrente. Poniamo che essi avvertano presto il rumore delle rapide. Non cesseranno forse di litigare per governare la barca e raggiungere lo scopo comune, quello di ritrovare il riparo a riva prima di finire nelle acque vorticose? Stringeranno presto un accordo tacito, secondo il quale dall'aiuto prestato all’altro deriverà un vantaggio personale. E appena toccata terra, questi due cosa faranno? Ricorderanno quanto sono stati preziosi l’uno all’altro, o ripenseranno al precedente disaccordo e torneranno a discutere? 

Ecco perché per conoscere le persone è indispensabile osservare i segni. 

Occorre essere come fuoco, che scalda e conforta chi sta attorno ma all’occorrenza brucia e divora chi ha l’ardire di avvicinarsi troppo e toccare con mano. 

Bisogna essere come acqua e riposare placidi se tutto intorno è calmo e fermo, pronti a creare flutti pronti a invadere e inondare laddove si trovino punti di cedevolezza. 

Ebbene, meglio essere tutto, fuoco all’occorrenza ma anche acqua. Meglio saper osservare e interpretare i segnali. Meglio saper riconoscere le persone senza nascondersi davanti ai pericoli, senza avere timore di prendere dei vantaggi. 

Non essere troppo spaventati dai nemici, in definitiva ma nemmeno aver paura di avere amici, persone fidate che non si vedono e non occupano i primi posti tra chi ci sta attorno, ma saltano fuori quando abbiamo più bisogno. 

E ci sono quando sappiamo di essere fragili.