martedì 31 dicembre 2024

Ti auguro...

 





Ti auguro tante cose,

una giornata di sole quando hai voglia di stare fuori,

una coperta calda quando tremi di freddo,

la voce di un amico se ti senti solo,

il pieno fatto e l’autostrada libera,

che arrivi l’intuizione quando ti manca la parola,

che la tua ironia non sia irriguardosa, che non manchi mai la sensibilità,

che un estraneo ti mantenga aperta la porta, che le auto si fermino quando sei sulle strisce,

che un bimbo sconosciuto e distratto ti prenda la mano per poi scappare imbarazzato dalla mamma appena si accorge,

che tu possa cantare a squarciagola sotto la doccia, ululare alla luna come fanno i cani o i matti,

che una persona mai vista prima ti sorrida, libera e senza alcun altro fine,

che il vento ti porti profumo di fiori, che la pioggia incoraggi il tuo raccoglimento,

che tu non smetta di stupirti ogni volta che rivedi il mare,

che tu possa sentire il canto delle cose invisibili e che la sua melodia t’inviti a restare in contatto con l’universo,

che ti offrano un caffè quando ne hai più voglia, che una canzone ti carezzi l’anima, che le tue lacrime siano di gioia,

che ti possa inebriare il suono di un pianoforte,

che gli amori passati ti schiudano un sorriso, quelli attuali ti colmino la vita e quelli futuri ti strapazzino il cuore, che tu sappia riconoscere il bello che la vita ti concede,

che ti sia facile dire grazie e dire scusa, che tu possa prendere sonno come fanno i bambini.

Tutte queste cose ti auguro e auguro a me stesso.

Non tutte assieme, che non portino il caos, ma un po’ per volta, un giorno dopo l’altro, proprio com’è abituata a fare la vita anche quando siamo distratti e non ce ne accorgiamo.

Che torniamo a essere in grado di accorgerci delle cose buone che ogni giorno riempiono i nostri minuti.

Ecco il mio augurio,

non perché è un anno nuovo ma perché è sempre un nuovo giorno.






Giorgio P.


martedì 24 dicembre 2024

Cos'è il Natale?

 

 



Siamo arrivati al 24 dicembre.

Come ogni anno ci arriviamo pieni di frenesia, con il timore di avere dimenticato qualche regalo, e abbiamo paura che non ce la faremo a digerire antipasti, lasagne al forno, arrosti e panettoni.

Ma al di là delle nostre paure e dei nostri timori credo sia un bene ricordare una cosa.

Il Natale è stato, è e resterà, una festa religiosa.

Con buona pace dello stato laico. Con buona pace di chiunque non ricordi o peggio, non accetti questa particolare visione. Presi dagli acquisti, rapiti dalle luci colorate e dai babbi natale (sia quelli vivi che girano per le strade, sia i pupazzi appesi ai balconi), con la carie che incombe per il troppo torrone e il colesterolo ai massimi livelli per le besciamelle e gli zabaglioni.

 

 Il Natale resta una festa religiosa per chi la vuole trascorrere così, lontano dai rumori delle canzoni celebrative e dalle file nei supermercati, in silenzio e in raccoglimento, non per forza dentro le mura di una chiesa ma anche o soprattutto, in meditazione con se stesso, ascoltando il silenzio eloquente che come sempre proviene senza interruzione dalle cose invisibili.

Resta l'occasione, questa per tutti, di sperimentare che si può provare a essere persone migliori, che si può tendere al bene qualunque sia la credenza, qualunque sia la religione, qualunque sia la propensione alla spiritualità che ci spinge a vedere le cose in un modo piuttosto che in un altro.

Resta un momento di particolare atmosfera, qualcuno la chiama magia, in realtà è la volontà diffusa di provare a essere brave persone, cosa ammirevole in questo periodo natalizio, ancora di più tutti i giorni dell'anno.

Buon Natale a tutti.

25 dicembre 2024



giovedì 21 novembre 2024

Lezioni d'autunno

 





Nessuno è disposto a prendere lezioni.

Quantomeno tra pari.

Oggigiorno pochissimi adulti sono abbastanza aperti, abbastanza umili, abbastanza intelligenti da capire (e accettare) la semplice verità che si può sempre imparare qualcosa da un'altra persona.

Forse è per questo che i bambini imparano. Si dice che i bambini siano delle spugne, certo che è così, è un fatto innegabile ma forse lo sono perché inconsciamente hanno la contezza che l’insegnante di fronte ne sa di più di loro.

I bambini sono dei sapienti senza saperlo.

Tra adulti, questa sapienza ce la siamo persa.

A tutto questo pensa Giosuè, mentre calpesta le foglie gialle e marce del vialetto.

In realtà non si tratta di un vialetto ma di una pista ciclopedonale e a quest’ora della sera è deserta. Chi uscirebbe per una sgambata o anche una pedalata, una sera d’inverno, buia e nebbiosa, come stasera che ci saranno due gradi se va bene.

Ma Giosuè cammina perché ne ha bisogno, camminare gli fa bene, lo aiuta a schiarire i pensieri, a ripulirli, soprattutto quelli bui e sporchi.

Non si cura del freddo né del dolore alla guancia. Dovrà andare dal dentista a farsi vedere il molare che balla ma non stasera. Stasera per prima cosa deve sistemare i suoi pensieri.

Certo che il freddo disturba e un po’ li fa tremare, i pensieri cattivi, anche se tremare, lo facevano già prima ma di rabbia, di rancore e desiderio di vendetta.

Ma si può prendere un pugno in piena faccia per avere conteso un parcheggio? Si può essere così poco umani anzi, per nulla umani?

Le foglie calpestate sono molli di umidità e Gioele ha la sensazione di camminare su un tappeto molto morbido e così facendo gli si ammorbidiscono anche i pensieri, proprio come desiderava.

L’essere umano tocca vette altissime, pensa Giosuè, e non può fare a meno di sorridere ricordando quando all’università studiò i filosofi e i grandi della storia, Russell, Kant, Schopenhauer, Voltaire…

Ma raggiunge anche abissi spaventosi.

La supremazia del branco, l’ordine gerarchico, l’affermazione sessuale per la continuità della specie, la difesa del proprio territorio (anche un parcheggio…), tutte cose che ereditiamo dal mondo della natura, vero, ma oggi è così rilevante usare la forza fisica e imporsi sui pari per sopravvivere? Evidentemente per qualcuno è ancora così e secoli di storia non hanno portato a niente, e non solo perché non si è stati attenti a scuola!

Perso nei suoi elevati pensieri, Giosuè non sente arrivare alle spalle un uomo sul monopattino, che sfreccia ad alta velocità e lo supera. Fatti cinquanta metri il monopattino slitta sulle foglie e l’uomo ruzzola a terra.

Allora Giosuè inizia a correre per soccorrere l’uomo e accertarsi che non si sia fatto nessun danno serio.

Quando è vicino pochi passi, l’uomo si alza con fatica e solleva le braccia davanti a sé, gridando brusco:

“Mi lasci stare, sto bene!”

“Guardi che io volevo solo essere utile…”

Giosuè è disorientato dalla reazione assurda dell’uomo, che ora sta spazzando via le foglie appiccicate alla sua giacca.

L’uomo bisbiglia qualcosa, sembrano delle scuse poco convinte. Poi disorienta maggiormente Giosuè, dichiarando:

“Lei correva. Credevo volesse farmi del male”

Poi si volta e si allontana sul suo mezzo.

Giosuè pensa che sia ora di tornare a casa.

E si rende conto anche un'altra cosa.

È per questo che attaccano. Per questo che sono così aggressivi.

Hanno paura.

Lo fanno per cercare di annullare la loro stessa paura.

E mentre torna a casa, ha un altro pensiero che lo allieta.

Avrò anche tanti difetti, chi non ne ha, ma non permetto alle mie paure di impedirmi di vivere.

E ripercorre il vialetto nel senso opposto con un sentimento di speranza nel cuore.

 

 

 




domenica 20 ottobre 2024

Ad alta voce

 





Sullo scaffale più alto, dietro ai libri

Ma che diavolo vuol dire? “Sullo scaffale più alto, dietro ai libri”

Francesco ci si stava rompendo la testa. Si era svegliato con quella frase che non lo lasciava. Forse era il rimasuglio sfilacciato di un sogno, forse. Ma forse no.

A casa sua non c’erano scaffali e i suoi pochi libri e i preziosi fumetti, se li teneva tutti in una scatola di cartone tra il comodino e la parete, per averli vicino quando dormiva. Decise che non aveva importanza, doveva solo aspettare e si preparò per andare a scuola.

A scuola il solito trambusto, Tizio lancia i gessi a Caio, Sempronio tira la treccia a Squinzia, non potendo sollevarle la gonna, Marzio il bidello grida isterico di entrare in classe, il professor Publio che arriva sbadigliando incurante di chiunque.

Francesco siede al suo posto e dà una gomitata al suo amico/vicino di banco e subito è ricambiato. La botta sulle costole gli fa sputare la gomma sulla schiena di Lucrezia che sta seduta davanti ma lei non si accorge.

Nessuno è intenzionato a cominciare la lezione, tantomeno il professore ma a un certo punto, forse per decenza tutti si mettono in attesa. Il brusio è forte, assume un ritmo e nella testa di Francesco assume la forma di un suono che presto diventa una frase: scieph… ap… are, sciepa… ap… are! Scendi a dare… scendi a mangiare… scendi a mangiare … scendi a mangiare!  Ecco cosa diventa, un imperativo. Scendi a mangiare!

Poi il prof batte le mani e lo schiocco riporta tutti alla realtà.

L’ora di storia per cominciare è quanto di peggio, pensa Francesco. La seconda gli sembra più leggera, ma solo perché la professoressa d’inglese ha promesso di portare in classe tv e lettore dvd per fare loro vedere un film in lingua.

“Dove trovo il DVD, prof?” Chiede Tullio, il secchione della classe.

Sullo scaffale più alto, dietro ai libri!” risponde la prof e a Francesco sembra di avere ricevuto una sberla in pieno viso. Eccola… questa è la frase del mio sogno!

Il film in inglese è di una noia mortale e invece di ascoltare le frasi in lingua madre, Francesco non riesce a togliere dalla testa quella litania: Scendi a mangiare!” come una canzone che si ascolta alla radio appena svegli e ricircola nella testa tutto il giorno.

A un certo punto Sempronio interrompe la trance di Francesco, chiedendo a pieni polmoni alla professoressa: ”Come si traduce grab my arm, madam, prof?”

La professoressa gli risponde senza nemmeno mettere in pausa. ”Afferri il mio braccio, signora!”

Afferri il mio braccio, signora.

Afferri il mio braccio, signora.

La giornata continua, indifferente.

Francesco termina la mattina in classe come si termina un minestrone poco appetibile, un boccone amaro dietro l’altro ma alla fine vuota il suo piatto e può tornare a casa un po’ nauseato.

In viale Augusto vede una piccola folla davanti alla fermata del tredici. Sulle strisce pedonali un sacchetto ha seminato una scia di mandaranci. Poco più in là una donna col cappotto verde se ne sta seduta sull’asfalto umido. Un soccorritore, sceso dall’ambulanza parcheggiata in fondo al viale, si china sulla donna e dal momento che questa sembra stare bene, la invita ad alzarsi, dicendole: ”Afferri il mio braccio, signora.

Francesco sente una piccola vertigine che però passa subito, e si avvia verso casa quasi correndo.

Apre con le chiavi, urla un saluto a sua madre in cucina e corre sulle scale verso il piccolo bagno attiguo alla sua cameretta. L’ha trattenuta anche troppo…

Mentre si lava le mani sente la voce della madre che grida: Scendi a mangiare!

Francesco è frastornato. Non è il primo giorno, va avanti così da settimane. Non vuole parlarne ma a casa conoscono il suo problema. Perché è così che lui lo vede. Come un problema.

Soprattutto dopo la telefonata di tre sere fa di sua madre alla sorella.

”Abbiamo prenotato la risonanza come ci ha indicato il neuropsichiatra, ma… sono così preoccupata, potrebbe essere qualcosa di grave… potrebbe essere…”

Sua madre singhiozzava e Francesco aveva ritenuto che non fosse il caso di origliare oltre. Anche se la cosa lo riguardava. Anche se lo specialista che l’aveva visitato lo aveva trattato come uno grande. Come un adulto.

Pensava che aveva voglia solo di prendere un sonnifero e di dormire per un mese. Non aveva più pazienza di ascoltare quelle frasi stupide e banali e chiedersi quanto tempo ci avrebbero messo prima di concretarsi ed essere pronunciate da chissà chi.

Minuti, ore.

Quell’attesa lo sfiancava.

Il giorno dopo non sarebbe andato a scuola. Era il giorno dell’appuntamento per l’esame.

Lavò i denti e andò a dormire prima del solito.

Era sicuro che non ci fosse nulla di magico in ciò che stava vivendo.

Mentre leggeva il suo fumetto, un altro fumetto gli esplose improvviso e vivido come un fuoco d’artificio davanti agli occhi.

”Non tema signora, vede è una lesione benigna e tutto si risolverà dopo l’intervento.”

Quel fumetto, quella frase, letta con gli occhi della mente, gli rese il sonno ristoratore e gli diede conforto e pace.

Rimaneva l’attesa.

C’era solo da aspettare che qualcuno la pronunciasse ad alta voce.

Che qualcuno la proferisse.

Alla fine, qualcuno lo avrebbe fatto.

E con quel pensiero, Francesco si addormentò.





sabato 5 ottobre 2024

La strage azzurra

 





Nel vicolo echeggia un ululato ultrasonico.

“Ciiiiiirooooooooo, Ciro miooooooo!!!”

Due cani sollevano il muso dal sacchetto dei rifiuti, alzano le orecchie e scappano spaventati.

L’invocazione è seguita da strepitii e lamenti, nella migliore tradizione della tragedia greca. Il Ciro in questione è un ragazzone di centoventi chili, che resta immobile nel suo letto nonostante le grida dell’anziana genitrice. Ciro usa dormire con una maglietta del Napoli calcio, che gli sta pure stretta. Gli stava, dovremmo dire, perché Ciro è morto.

Dall’altra parte del quartiere, in fondo alla via, per essere precisi, un urlo uguale in tutto e per tutto al primo sale dalle finestre di un basso, uguale tranne che per il nome che in questo caso è Pasquale.

Anche Pasquale non risponde. Anche Pasquale è morto.

Tutto il quartiere è svegliato da un concerto di grida strazianti e straziate. Presto le grida sono sostituite dal suono dei clacson di chi, spinto dalla disperazione, ha caricato i corpi di figli, mariti, zii, genitori, nelle vecchie auto e, incurante del traffico già intasato di prima mattina, delle buche, dell’assicurazione scaduta e soprattutto incurante di quanto sia morto il passeggero sul sedile posteriore, cerca disperatamente di arrivare al primo ospedale per rimediare al malanno.

Quasi tutte le salme trasportate indossano una maglia del Napoli calcio, tutti sono sovrappeso.

Solo al Cardarelli, il più grande nosocomio del mezzogiorno, giungono cadavere ventinove Maradona, undici Bruscolotti, sedici Hamsik, sei Insigne, quattro Juliano, un Ferrara e un Cannavaro. I conti precisi li ha fatti un portantino dall’alito agghiacciante, che ha catalogato tutti i capi di vestiario, con la speranza di guadagnare qualcosa extra.

Una strage.

La strage azzurra”, intitoleranno il giorno seguente i quotidiani nazionali, dimostrando la loro pochezza in fatto di fantasia.

Dopotutto non è colpa loro se la gente ha l’esecrabile abitudine di dormire con la maglietta del proprio idolo calcistico. Soprattutto qui a Napoli.

La strage azzurra fa diventare matto il questore, che non sa che pesci pigliare e se la prende col vicequestore, che sbraita col commissario che maltratta i poliziotti che urlano insulti in faccia agli informatori che schiaffeggiano i piccoli spacciatori che vanno a presidiare il pronto soccorso e quando esce il portantino sono pronti a minacciarlo di morte, anche perché indossa il famoso numero “10” e sospettano che non sia stata acquistata in uno store ufficiale.

La scientifica è al lavoro e l’anatomopatologo, che deve asciugare le lacrime ogni venti secondi, non perché sia sensibile, è pure Juventino, ma per una forma d’allergia, è oberato e sa che farà le ore piccole, anzi, che lavorerà tutta la notte.

Il questore ce l’ha a morte con me, per ragioni di tifo calcistico, e trova sempre il modo di farmela pagare, si lamenta il medico legale con il suo aiutante ma non riceve conforto e considerazione da quest’ultimo, poiché anche lui dorme con una maglia della nazionale Belga, quella di Mertens!

Per qualche giorno la città è nel caos assoluto.

Negozi chiusi, traffico paralizzato. Gli incidenti raddoppiano e scoppiano tumulti. Il sindaco proclama il lutto cittadino ma i funerali non si possono fare. Tutto rimandato finché qualcuno non ci capisce qualcosa.

Dopo tre giorni anche i capi Ultras della tifoseria, si muovono. Con la consueta grazia del classico elefante nella celebre cristalleria.

Muovono alla testa di decine di migliaia di bravi ragazzi, ed esigono una spiegazione. Perché sono morti tutti quei valenti tifosi, perché non sono morti i rappresentanti delle altre squadre di calcio?

Queste ultime, piccate dalle dichiarazioni ostili e insinuanti, rilanciano accuse e minacciano vie legali, il clima in tutto il paese è avvelenato.

A questo punto l’anatomopatologo ha un’illuminazione. Clima avvelenato uguale tifoso avvelenato.

E ci azzecca!

Viene trovata, grazie all’invio di campioni si sangue e tessuti a un costosissimo laboratorio di Dallas, U.S.A. una sostanza chimica liposolubile, neutra se ingerita ma potenzialmente letale se prima è sciolta in acqua bollente.

Trovata la causa di morte, quello che non capisce il questore è perché solo i tifosi del Napoli.

L’agente scelto Esposito sapendo di essere l’ultima ruota del carro, ne parla con sua moglie fidandosi poco dei colleghi. “Intanto, in città è difficile trovare anche solo uno che dorma con la maglia dell’Inter, sai che scandalo in caso di emergenza notturna? Poi mi chiedo una cosa? Sto veleno, che per essere velenoso, deve essere bollito, come fai a farlo prendere a qualcuno senza che se ne accorga?”

La signora Esposito, che fino a quel momento non era molto interessata, s’illumina.

“Io saprei come fare!”

Esposito non sa se essere orgoglioso della moglie o preoccupato, ma la soluzione della donna lo impressiona.

Corre dal Commissario che chiama il Vicequestore che informa immediatamente il Questore.

Esposito si trova, convocato, a balbettare la soluzione della sua signora e ha una maledetta paura di perdere il posto.

“Come nel caffè? Tutti beviamo il caffè, e come ce l’avrebbero messo il veleno nel caffè, secondo lei agente Esposito?”

Esposito sente il coraggio alimentato dall’arroganza di quel superiore così potente e così incapace. Sente di averlo in mano e smette di balbettare.

“La sostanza, sappiamo che è innocua se ingerita, giusto? Ma se la facciamo bollire, diventa pericolosa, giusto? Allora mia moglie ha detto che lei la metterebbe nell’acqua per fare il caffè, sul fuoco il veleno si attiva e quando ci beviamo la nostra tazzina, anzi tante tazzine, il veleno agisce dentro il nostro corpo!”

Il questore riflette in silenzio. Poi obietta.

“E perché non siamo morti tutti quanti?”

“Basta chiedere quante tazze erano soliti consumare quelli che sono morti, io per esempio ne bevo tre al giorno ma ci sta chi ne beve pure venti!”

“E il veleno? Dove stava?”

“Nell’acquedotto, sempre secondo mia moglie” risponde timido Esposito.

Il questore sembra convinto, ordina al commissario di procedere e prima di sbattere fuori dal suo ufficio tutti quanti, da un’ultima indicazione all’agente:

“La proporrò per una promozione e, stia attento a non litigare mai con sua moglie.”

Le indagini dureranno qualche settimana ma nessuno riuscirà a capire chi ha potuto versare la sostanza nelle riserve idriche.

Nessun indizio, nessun movente, nessun colpevole per la strage azzurra.

Alla fine anche i giornali spostano su altro l’attenzione.

Esposito è promosso a vice Sovrintendente.

Il portantino fa un sacco di soldi, vendendo all’asta le storiche magliette.

Gli ultras, ricominciato il campionato, hanno altro cui pensare.

Negli uffici periferici dell’azienda gestore delle acque potabili, Alberico Rota, un piccolo impiegato con la faccia da topolino, gli occhiali tondi e una lieve zoppia, apre con la chiave l’ultimo cassetto della scrivania e controlla che nessuno abbia rovistato tra le sue cose.

Tutto a posto.

Le fiale vuote di plastica stanno li, dove le ha nascoste, sotto la maglietta stirata e piegata dell’Atalanta calcio.

Richiude a chiave il cassetto e sorridendo cattivo se ne va in bagno.

 

 

 

 

 


venerdì 30 agosto 2024

Emilio che parla agli animali

 





Emilio frena perché in discesa la bici ha acquistato troppa velocità e lui non vuole ridursi male come quella volta che era caduto alla fine della discesa.

L’infermiere aveva dovuto staccare le pietruzze di ghiaia più piccole con le pinzette, dalle larghe abrasioni che si era provocato sul fondo schiena ed Emilio era stato costretto a pranzare in piedi per una settimana. E aveva pianto. Molto.

La bici si ferma sul vialetto.

Emilio si guarda dietro. Allarga un braccio e, come comparsa dal nulla, una piccola gazza bianca e nera plana dolcemente, fermandosi leggera sul suo polso.

Il ragazzo sorride, bisbiglia qualcosa, poi il pennuto si volta a guardare verso di lui, allarga il piccolo becco nero, emette un flebile, stridulo gracchio e vola via silenzioso, com’è arrivato.

Emilio è contento che sia successo lontano da casa sua.

A casa non capiscono.

Gli hanno fatto sopportare una montagna di visite.

La psicologa infantile, quella dell’età evolutiva, ore di logopedia… il neurologo, anche un dottore con l’accento estero, che aveva indossato per la visita un piccolo, buffo naso rosso da clown.

Ma Emilio non aveva riso, perché un dottore che indossa un naso da clown resta un dottore e non è capace di far ridere, almeno non quello che era venuto da lui, piuttosto lo aveva colmato di una sorta di malinconia che non si era saputo spiegare.

Emilio non era muto. Aveva anzi una bella voce e non sembrava avere disturbi cognitivi.

Nessuno riusciva a comprendere le ragioni del suo mutismo, e lui non si sentiva malato, non sentiva di avere un problema. Perché poi, non parlare doveva per forza essere un problema?

I suoi prolungati silenzi erano indecifrabili e intollerabili per la sua famiglia. Emilio era capace di stare giorni e giorni, settimane intere senza pronunciare una parola. A volte se ne usciva con brevi, smozzicate quanto improvvise frasi, che riempivano di speranza i genitori, ma il più delle volte non ne sentiva il bisogno, era in grado di comunicare a gesti o con piccoli cenni del capo.

Per Emilio il problema ce l’avevano gli altri, quelli che parlano senza avere qualcosa da dire.

Sua madre iniziò a preoccuparsi maggiormente quando lo trovò a tu per tu con il gatto del vicino, un grosso e grasso siamese che non usciva quasi mai dal proprio appartamento, tranne che per brevi e pigri giri nel cortile. Era rimasto immobile per un minuto intero, il naso umido contro quello di Emilio. Emilio era corso in cortile e, salito su una scala, aveva recuperato una palla di pezza dalla tettoia antipioggia del portoncino. Poi aveva lasciato la palletta davanti alla porta del vicino perché questi la consegnasse al legittimo proprietario.

Ogni volta che Emilio usciva con la madre, questa doveva fermarsi a ogni passante che avesse un cucciolo al guinzaglio perché non c’era cane che non gli facesse le feste. Il ragazzino dava loro una grattatina dietro le orecchie, bisbigliava qualcosa e i cani tornavano a trotterellare per la loro strada, seguiti dagli orgogliosi padroni.

Quando aveva sei anni, i genitori lo portarono al delfinario di Rimini. Appena i conduttori dello spettacolo chiesero chi, tra i bambini se la sentisse di avvicinare gli animali, Emilio senza chiedere il permesso, si tuffò come un fulmine e prima che mamma e papà potessero aprire bocca, lui era già a bordo vasca.

In quel periodo era già in piena fase mutacica e lo specialista di turno aveva predetto fallacemente che tutto si sarebbe risolto con la scolarizzazione.

Quel giorno i delfini erano nervosi e inquieti tanto da rischiare l’annullamento del programma ma quando Emilio scese e iniziò a parlare con loro, i tursiopi presero a fare capriole come non avevano mai fatto, compreso il più pigro che solitamente si limitava a farsi ingozzare di pesce.

Fu un successo di meraviglia e stupore, gli unici a non essere meravigliati furono i genitori di Emilio.

Inutile precisare che a casa, il mondo di Emilio tornò nel silenzio più completo.

Sono passati due anni dallo spettacolo al delfinario, Emilio ci pensa ancora e ride ricordando gli allegri scoppiettii singhiozzanti e i fischi che quei simpatici mammiferi gli avevano dedicato.

Ora però è tardi ed è ora di tornare a casa.

Emilio guarda il cellulare, i suoi l’hanno comprato e gli hanno chiesto di rispondere ai messaggi. Emilio lo fa.

D’improvviso ha un’idea, inforca la sella e vola sui pedali fino a casa.

Si tratta di una cosa troppo grande e bella e sa che non può scrivere, non sarebbe sufficiente.

Suona due volte, si precipita in cucina e appena la mamma gli da retta, quasi le urla in faccia:

“Cosa ne pensi se prendiamo un cane?”

La mamma di Emilio resta un momento immobile sbigottita e incredula. Poi senza nemmeno cercare di arrestare le lacrime lo stringe forte senza riuscire a pronunciare una parola.

Ma Emilio ha capito subito la risposta.

A volte le parole sono superflue.

 

 




sabato 18 maggio 2024

Le presentazioni, quelle belle

 






La sala polifunzionale della biblioteca è uguale a tutte quelle viste in precedenza.

È un’area rettangolare. Su un lato corto l’ingresso da un’ampia vetrata, su quello opposto lo spazio per un piccolo palco rialzato in caso di rappresentazioni teatrali, oppure per un tavolino con due o tre sedie in caso di una chiacchierata, come stasera.

All’angolo un paio di microfoni e il leggio per le letture.

Circa dieci file di poltroncine, quattro posti per lato con un passaggio centrale.

Questa sera i posti a sedere sono tutti occupati e c’è gente al fondo che resta in piedi. Succede quando chi presenta un libro, fa parte della comunità locale ed è conosciuto oppure se è molto celebre, ma non è sempre detto.

Il terrore di chi organizza presentazioni è di vedere la sala tristemente semivuota tanto che ho sentito dire che, per evitare fiaschi, molte associazioni sono “precettate” pur di fare numero ed evitare imbarazzi.

Non è il caso di stasera.

Ci sono partecipazione, curiosità ma si sente odore di vero interesse, profumo di affetto. La gente sorride, si sente a proprio agio e anche queste condizioni non è detto che siano abituali alla presentazione di un libro. Anzi.

Ascolto le letture, trasformate dalla sapiente arte teatrale di chi legge in puro spettacolo, ma di là dell’intrattenimento apprezzo la qualità del testo che c’è dietro.

Lo so già che l’autore è bravo, ho acquistato il libro all’ingresso perché odio le code, inoltre volevo leggere la quarta di copertina prima che tutto cominciasse.

Ascolto domande poste con arguta cortesia e risposte che mi toccano il cuore.

L’argomento non mi lascia indifferente, si parla di persone che hanno lasciato la propria terra per cercare un nuovo lavoro, una nuova vita in una regione sconosciuta e si finisce inevitabilmente a discutere dei flussi migratori che in ogni tempo hanno interessato il genere umano.

La serata evoca in me un ricordo.

Per anni ho vissuto uno strano stato conflittuale che mi vedeva figlio di meridionali a casa mia e turista Torinese quando d’estate si passavano le vacanze al paese dei nonni, con i cugini che si stupivano perché non si era capaci di parlare in dialetto.

Come essere né carne né pesce.

Risolto il conflitto, rimase una sorta di leggera malinconia per una terra che non si è persa perché non è mai stata veramente mia.

Ma sto divagando.

Ciò che volevo dire, e che non sono riuscito a dire in questa sala forse per timidezza o perché si è fatto tardi, riguarda l’autore.

Ha raccontato di avere incontrato, in occasione di un Salone del Libro, un vero Scrittore, di quelli con la esse maiuscola.

Avrei voluto alzare la mano e dissentire. Anche Quell’autore, certamente bravo e famoso, ha a sua volta incontrato un vero Scrittore, perché questo è ciò che fai e ciò che sei.

Ecco, ora mi rivolgo direttamente all’autore del libro.

Hai dichiarato di avere utilizzato come materiale, i racconti di tanti vecchi perché non fossero dimenticati, per dare loro una voce e questo ti fa onore. Nonostante i fili bianchi della barba, la luce negli occhi e la voce sono di un ragazzino curioso e attento, che non ha perso la capacità di scrivere un sogno e non ha nessuna intenzione di smettere.

Altro punto.

Hai giustamente detto che col tuo libro non vuoi salvare il mondo.

Certo. È comprensibile.

Nessuno può salvare il mondo con un libro.

Io sono convinto però che i libri siano letti (e scritti) al contrario, per salvare noi stessi.

E sono sicuro che nelle tue pagine, oltre all’intrattenimento, troverò un po’ della mia salvezza.

Torno a casa, con un nuovo libro sottobraccio e mi sento bene.

Le presentazioni, quelle belle, mi sento di consigliare a tutti.

 

 



venerdì 26 aprile 2024

Il giusto padre

 





- L’altra sera in tv davano un film su due uomini che passano le vacanze in tenda a pescare e s’innamorano.

I due ragazzini se ne stanno appoggiati al muretto a fare aeroplanini di carta, come se fosse la cosa più importante del mondo e forse alla loro età, lo è.

Roberto osserva l’amico per saggiarne la reazione.

Elio rimane impassibile, concentrato sul foglio che sta piegando.

- Hai sentito quello che ho detto? Insiste Robi, con tono aggressivo.

Elio cerca di non scomporsi.

- Certo che ho sentito, ma non l’ho visto.

- C’erano scene in cui si baciavano e altre dove erano nudi e non ti dico cosa combinavano. Mio padre ha detto che facevano schifo e ha cambiato canale dopo una sfilza di parolacce che nemmeno conoscevo!

Elio pensa che il padre di Roberto sia un idiota ma ritiene saggio stare zitto.

Poi cambia idea.

- Tuo padre è un idiota.

Nemmeno finisce la frase che si è già pentito.

Roberto pesa il doppio di lui e tira sberle micidiali sul collo. Elio attende il dolore ma questo non arriva.

Per un attimo il silenzio è insopportabile, poi Robi parla.

- Sì, è vero. Mio padre è un pirla ma anche a me quegli uomini che si baciavano facevano un po’ schifo. Lo so benissimo che sono attori e recitano ma io non ci riuscirei mai…

- A recitare o a baciare un maschio?

Elio, con la sua intelligenza, certe volte è davvero impertinente e ti tira gli schiaffi dalle mani ma Robi ha iniziato un discorso e ora vorrebbe essere all’altezza.

 - A baciarsi tra maschi, ovvio. Non capisco come ci riescano.

Elio non fatica a credere all’amico quando afferma di non capire qualcosa, vista la quantità di compiti che è costretto a spiegargli. Anche se è probabilmente il motivo per cui può permettersi di dire quelle cose sul padre e passarla liscia.

Roberto non è precisamente un genio e non potrebbe essere diverso, considerato il genitore che si ritrova, riflette Elio.

-Tu vuoi bene a tua madre?

Prova a spiegare Elio, prendendola larga.

- Certo che le voglio bene, cosa c’entra adesso?

- Ma non la baci come se fosse la tua fidanzata.

- Elio, le vuoi prendere? Roberto fa per posare il foglio ripiegato.

- No, no. Lasciami finire… ma se avessi una fidanzata, la baceresti sulla bocca, vero?

- Certo! E chi ti dice che io non l’abbia già fatto?

A dodici anni il mondo si divide in due categorie. Quelli che hanno già baciato e quelli come questi due.

Elio lo sa ma non vuole vedere il bluff dell’amico, oggi ha già rischiato abbastanza.

- Quindi sai benissimo che esistono diversi tipi di amore e diversi modi di manifestarlo.

- OK, ho capito, ma cosa c’entra col film dell’altra sera?

- Semplice. Se un maschio e una femmina si vogliono bene, si baciano sulla bocca, giusto?

- Lo so benissimo! Afferma con forza Roberto, credendo lui per primo alla sua menzogna.

Elio finisce il suo aereo di carta e lo osserva soddisfatto.

È sempre stato bravo anche con gli origami.

- Quindi capisci che anche due uomini oppure due donne si possono amare tra di loro!

- Come marito e moglie? Robi non sembra convinto.

- Come marito e moglie.

La sicurezza di Elio scioglie un poco la tensione e anche il fatto che l’aereo di carta di Robi sia venuto altrettanto bene.

- Ma tu come fai a sapere queste cose, che sai appena allacciarti le scarpe?

Robi da uno spintone all’amico ma senza cattiveria, solo per sottolineare una superiorità almeno fisica. Elio per poco non cade ma è sollevato dal gesto quasi affettuoso del suo amico più grande.

- A casa qualche volta ne abbiamo parlato.

Roberto tace, in cuor suo invidia al compagno di avere un padre che gli parli. Deve essere il motivo della sua intelligenza.

- Noi a casa non parliamo molto. A volte si guarda un film tutti assieme ma se a mio padre il film non piace, nemmeno questo.

Elio tace.

Per oggi ha già consumato la sua dose di buona sorte e non vuole irritare l’amico.

Tra i due sa di essere lui il più fortunato.

Roberto è grande e grosso e sostiene di avere già baciato una ragazza.

Lui è il più leggero e non ha mai baciato nessuno.

Ma tra i due è lui ad avere il genitore giusto.

 




domenica 14 aprile 2024

Dante guarda le pozzanghere

 





Avete presente quelle persone che sono in grado di comprendere la personalità di un estraneo già a prima vista?

Dante non è una di queste.

Certo, anche lui ha le sue buone capacità. È in grado di percepire a pelle, quando qualcuno gli ispira simpatia, persino fiducia. O al contrario se qualcuno ha una pessima aura e quando entra in un luogo la temperatura si abbassa di una decina di gradi.

Il problema è che se uno gli ispira fiducia, lui poi questa fiducia la investe sul serio.

Da bambino questa caratteristica gli fece patire qualche pena.

All’età di sette anni prestò non si sa quante scatole di soldatini da collezione, al ragazzino dell’ultimo piano, si capisce, quando i bambini giocano assieme, si deve condividere il gioco, questo gli era stato insegnato.

Ma quando si accorse che, trascorse alcune settimane, i soldatini non facevano ritorno nella loro scatola sulla mensola, la cosa iniziò a dargli un certo fastidioso prurito.

Lui si fidava dell’amichetto dell’ultimo piano e decise di concedergli del tempo.

Solo che poi l’amico, assieme ai suoi genitori, aveva traslocato e dei soldatini era rimasto un vasto cimitero di croci che Dante aveva disegnato col pennarello sul plastico, come per giustificarne l’assenza agli altri commilitoni sopravvissuti. Passò una notte a piangere la perdita di quei preziosi elementi ma di più gli bruciava la fregatura patita dal vecchio compagno di giochi.

Anni dopo, in pieno caos adolescenziale, iniziò a frequentare Fabio, un controverso elemento, un tipo carismatico ed esuberante. Fabio era il giovane ripetente della terza C, si faceva già la barba da qualche tempo e andava forte con le ragazzine, fumava puzzolenti sigarette senza filtro e non aveva paura nemmeno del preside. Dante, come del resto tutti i suoi compagni, lo ammirava e gli invidiava certe caratteristiche. Lo spirito di emulazione gli era costato un furioso litigio con la madre e, peggio ancora, il divieto di partecipare alla gita scolastica.

Dante si era detto che non gli importava di quella gita di ragazzini, che anche Fabio non ci sarebbe andato, ma tutto questo somigliava all’uva acerba per la volpe.

Passò la gita e Dante ebbe il tempo per meditare. Gli passò per fortuna anche l’entusiasmo per Fabio il bullo, e non rimase che la tristezza per la sua scarsa capacità di capire le persone.

Capire chi si ha davanti non è facile, si diceva, ci vuole tempo e per rendere le cose difficili molti non sono davvero come si sforzano di apparire.

Nonostante questo barlume di maturità, Dante continuò a fidarsi delle persone che incontrava.

Della compagna di banco al liceo, di cui si era perdutamente innamorato e che lei ricambiava facendosi passare sottobanco le soluzioni di equazioni e le traduzioni dall’inglese.

Del suo amico che trascorreva i pomeriggi a casa sua divorando tutto ciò che trovava nel frigo.

Dell’insegnante di ginnastica che lo aveva incoraggiato a partecipare a durissimi allenamenti di atletica, con la promessa di portarlo alle gare nazionali, per poi leggere sul comunicato il nome di un altro.

Insomma Dante diventò adulto coltivando in sé un nodo di cinismo e disincanto che difficilmente si sarebbe sciolto.

Non ci si può fidare di nessuno, era diventato il suo mantra e questo lo aiutava a costruirsi una corazza di distacco e a non soffrire.

Un giorno, era uscito in pausa e si stava recando al solito bar per un tramezzino, non si accorse dell’auto che sopraggiungeva e che lo travolse, facendogli volare zaino e ombrello e lasciandolo sull’asfalto privo di coscienza.

Qualcuno chiamò un’ambulanza e lui si risvegliò il giorno dopo, con un gran mal di testa e una gamba ingessata.

Sua madre, che lo aveva vegliato, fu felice e gli spiegò quello che era successo.

Non erano stati in grado di ritrovare i suoi documenti ma nel bar sapevano chi fosse e dove lavorasse.

Sconosciuti erano stati vicini a sua madre e l’avevano tranquillizzata e sostenuta. I medici confermarono che Dante non era in pericolo e presto sarebbe stato dimesso.

Dante sopportava il dolore della frattura, meno quello per la scomparsa del suo zaino. Dentro c’era, oltre ai documenti, il PC portatile, da cui non si separava mai e qualcuno lo aveva rubato.

Le pozzanghere osservate dalla finestra della sua camera, avevano il colore del fango.

All’improvviso, un estraneo bussò alla porta e sporse la testa.

- Cerco Dante, il giovane investito qualche giorno fa.

- Chi è lei, cosa vuole?

Dante si rese conto della sua maleducazione, ma non riusciva a smettere di pensare a quelle pozzanghere di fango e a quando fosse brutta la vita.

- Scusi, mi hanno detto che l’avrei trovata qui. Le ho portato questo.

E dicendolo tirò fuori da una borsa il suo zaino, sporco e lacerato. Dentro i suoi documenti e soprattutto il suo portatile.

Dante non sapeva cosa dire.

L’estraneo continuò timidamente.

- Dopo il suo incidente è rimasto sul marciapiede e ho pensato di prenderlo per evitare che qualcuno lo rubasse. Poi non è stato facile capire dove consegnarlo, con questa mania della privacy… ma alla fine sono riuscito a sapere che era stato ricoverato e così eccomi qui.

Dante se ne rimaneva inebetito sulla sua sedia a rotelle, col gambone avvolto dal gesso. La prima impressione, vedendo quell’estraneo, con quei capelli legati da un elastico e la barba lunga e nera, non era stata positiva. Si rilassò e invitò l’uomo ad avvicinarsi alla finestra. Il tizio si avvicinò chiedendosi il perché.

- Le vede le pozzanghere?

- Sì, rispose l’uomo, Ha piovuto molto stamattina.

- Come le sembrano? Insistette Dante, che doveva sembrare un matto.

- Piene di acqua sporca. Rispose paziente l’uomo.

- Se guarda bene, oltre l’acqua sporca, vedrà altro.

Le pozzanghere riflettevano la luce di un cielo tornato sereno e, pensava Dante, non erano mai state così azzurre.

L’uomo si disse d’accordo. Non è prudente fermarsi a un primo sguardo, come a un giudizio affrettato. Sorrise e pensò che quel matto ingessato non fosse poi così male.

Dante capì in quel momento che anche su una pozzanghera di fango può specchiarsi un pezzo di cielo limpido.

E la vita non gli sembrò più così brutta.