Emilio frena perché in
discesa la bici ha acquistato troppa velocità e lui non vuole ridursi male come
quella volta che era caduto alla fine della discesa.
L’infermiere aveva
dovuto staccare le pietruzze di ghiaia più piccole con le pinzette, dalle
larghe abrasioni che si era provocato sul fondo schiena ed Emilio era stato
costretto a pranzare in piedi per una settimana. E aveva pianto. Molto.
La bici si ferma sul
vialetto.
Emilio si guarda
dietro. Allarga un braccio e, come comparsa dal nulla, una piccola gazza bianca
e nera plana dolcemente, fermandosi leggera sul suo polso.
Il ragazzo sorride,
bisbiglia qualcosa, poi il pennuto si volta a guardare verso di lui, allarga il
piccolo becco nero, emette un flebile, stridulo gracchio e vola via silenzioso,
com’è arrivato.
Emilio è contento che
sia successo lontano da casa sua.
A casa non capiscono.
Gli hanno fatto sopportare
una montagna di visite.
La psicologa infantile,
quella dell’età evolutiva, ore di logopedia… il neurologo, anche un dottore con
l’accento estero, che aveva indossato per la visita un piccolo, buffo naso
rosso da clown.
Ma Emilio non aveva
riso, perché un dottore che indossa un naso da clown resta un dottore e non è
capace di far ridere, almeno non quello che era venuto da lui, piuttosto lo
aveva colmato di una sorta di malinconia che non si era saputo spiegare.
Emilio non era muto.
Aveva anzi una bella voce e non sembrava avere disturbi cognitivi.
Nessuno riusciva a
comprendere le ragioni del suo mutismo, e lui non si sentiva malato, non
sentiva di avere un problema. Perché poi, non parlare doveva per forza essere
un problema?
I suoi prolungati
silenzi erano indecifrabili e intollerabili per la sua famiglia. Emilio era
capace di stare giorni e giorni, settimane intere senza pronunciare una parola.
A volte se ne usciva con brevi, smozzicate quanto improvvise frasi, che
riempivano di speranza i genitori, ma il più delle volte non ne sentiva il
bisogno, era in grado di comunicare a gesti o con piccoli cenni del capo.
Per Emilio il problema
ce l’avevano gli altri, quelli che parlano senza avere qualcosa da dire.
Sua madre iniziò a
preoccuparsi maggiormente quando lo trovò a tu per tu con il gatto del vicino,
un grosso e grasso siamese che non usciva quasi mai dal proprio appartamento,
tranne che per brevi e pigri giri nel cortile. Era rimasto immobile per un
minuto intero, il naso umido contro quello di Emilio. Emilio era corso in
cortile e, salito su una scala, aveva recuperato una palla di pezza dalla
tettoia antipioggia del portoncino. Poi aveva lasciato la palletta davanti alla
porta del vicino perché questi la consegnasse al legittimo proprietario.
Ogni volta che Emilio
usciva con la madre, questa doveva fermarsi a ogni passante che avesse un
cucciolo al guinzaglio perché non c’era cane che non gli facesse le feste. Il
ragazzino dava loro una grattatina dietro le orecchie, bisbigliava qualcosa e i
cani tornavano a trotterellare per la loro strada, seguiti dagli orgogliosi
padroni.
Quando aveva sei anni,
i genitori lo portarono al delfinario di Rimini. Appena i conduttori dello
spettacolo chiesero chi, tra i bambini se la sentisse di avvicinare gli
animali, Emilio senza chiedere il permesso, si tuffò come un fulmine e prima
che mamma e papà potessero aprire bocca, lui era già a bordo vasca.
In quel periodo era già
in piena fase mutacica e lo specialista di turno aveva predetto fallacemente
che tutto si sarebbe risolto con la scolarizzazione.
Quel giorno i delfini
erano nervosi e inquieti tanto da rischiare l’annullamento del programma ma
quando Emilio scese e iniziò a parlare con loro, i tursiopi presero a fare
capriole come non avevano mai fatto, compreso il più pigro che solitamente si
limitava a farsi ingozzare di pesce.
Fu un successo di
meraviglia e stupore, gli unici a non essere meravigliati furono i genitori di
Emilio.
Inutile precisare che a
casa, il mondo di Emilio tornò nel silenzio più completo.
Sono passati due anni
dallo spettacolo al delfinario, Emilio ci pensa ancora e ride ricordando gli
allegri scoppiettii singhiozzanti e i fischi che quei simpatici mammiferi gli
avevano dedicato.
Ora però è tardi ed è
ora di tornare a casa.
Emilio guarda il
cellulare, i suoi l’hanno comprato e gli hanno chiesto di rispondere ai
messaggi. Emilio lo fa.
D’improvviso ha un’idea,
inforca la sella e vola sui pedali fino a casa.
Si tratta di una cosa
troppo grande e bella e sa che non può scrivere, non sarebbe sufficiente.
Suona due volte, si
precipita in cucina e appena la mamma gli da retta, quasi le urla in faccia:
“Cosa
ne pensi se prendiamo un cane?”
La mamma di Emilio
resta un momento immobile sbigottita e incredula. Poi senza nemmeno cercare di
arrestare le lacrime lo stringe forte senza riuscire a pronunciare una parola.
Ma Emilio ha capito
subito la risposta.
A volte le parole sono
superflue.
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