mercoledì 10 agosto 2022

L'avvocato

 


                                                                                                       





Il secondino fa roteare il pesante mazzo di chiavi attorno al pollice.

Buriani! Urla, pensando di svegliarmi, ma io sono già sveglio da due ore.

Ha un’aria allegra, lavorare all’alba lo deve mettere di buon umore.

Da che sono in gabbia non ho mai dormito più di quattro ore per notte e sono passati quasi undici anni. Non è stata una passeggiata di salute. Il secondino è nuovo, lavora qui da non più di sei mesi. Loro sì che non ce la fanno, occorre cambiarli spesso altrimenti si bruciano. Si chiama Aldo Morozzi, ma l’ultimo che l’ha chiamato per nome è finito in infermeria con la mano rotta, meglio chiamarlo Signore.

Buriani, sveglia! A colloquio con l'avvocato tra dieci minuti!

Stavolta si che sono sorpreso. Non ho chiesto nessun colloquio. Ma se c'è una cosa che s’impara subito qui dentro è che non si discute con le guardie. Men che meno con questa.

Sì, signore! Urlo io di rimando e reprimo un sorriso quando vedo che c’è rimasto male.

Il molosso che russa sulla branda sotto la mia, non si è spostato di un millimetro. Perde bava come un mastino di centotrenta chili e più che addormentarsi, sembra che vada in coma. Forse lo è davvero in coma, visto che è diabetico e che divora tutti i dolci che trova.

Sebastiano, così si chiama il molosso, è dentro per spaccio. Organizzava da casa, con la madre ottantenne, una rete di velocissimi corrieri, che con bici e monopattini coprivano tutte le esigenze della provincia. Altro che Glovo…

Lui sconta qualcosa come quattro o cinque anni, l’ho detto, reati di droga.

Io sono dentro per omicidio.

Ci vogliono due minuti per infilare i calzoni e allacciare i bottoni della camicia azzurra, che andrebbe larga anche al molosso che continua a russare. La barba è di un giorno e non devo radermi, sciacquo il viso nel piccolo lavabo arrugginito e mi pettino i capelli appena bagnati. Poi mi metto davanti alle sbarre per mostrare la mia sollecitudine.

Evito di poggiare le mani, come hanno imparato tutti. A Morozzi piace usare il manganello. Mi vede, apre la piccola inferriata e con un cenno m’invita a uscire. Porgo i polsi e lui annuisce soddisfatto. Conosco la procedura, quindi meglio non perdere tempo. Mentre mi ammanetta, mi scruta ma non sorride, sa bene che con quelli come me è inutile la maschera. Io faccio in modo che non abbia problemi di lavoro e lui in cambio mi lascia intatte le ossa. Mi sembra un vantaggio per tutti. Per me lo è di sicuro.

Cammino guardando la schiena muscolosa della guardia. Due chiazze scure si vanno allargando dalle sue ascelle, scendendo sui fianchi fin quasi alla cintura. Sono solo le sette e fa già un caldo insopportabile. Morozzi cammina veloce, ascolta i miei passi che lo seguono come fossi il suo cagnolino. Non ha paura di voltarmi le spalle, Qui è lui quello forte, quello che ha il potere, quello che comanda. E poi ho già scontato undici anni, me ne rimangono tre scarsi, fatti di permessi per buona condotta e inserimenti in progetti per lavori sul territorio. Sono sulla strada della riabilitazione, sarei un bello stupido a cercarmi guai con un fottuto secondino.

Lui lo sa, io lo so. Discorso chiuso.

Arriviamo al primo cancello. Morozzi chiama il collega di guardia. Gli mostra il pass, attende lo scatto della serratura e mi tiene la porta come farebbe con la sua donna a un appuntamento galante. Poi ride e la risata si trasforma presto in un accesso di tosse catarrosa.

Imbocchiamo un lungo corridoio in penombra.

Chi può essere l’avvocato che ha chiesto di parlarmi e perché a un orario così strano? Il mio avvocato, se così posso definirlo, visto che non lo pago da anni, si è sentito qualcosa come cinque o sei anni fa, per una richiesta che lui mi proponeva di fare. Trasferirmi in un altro istituto di pena. Perché poi, per avvicinarmi alla famiglia? Gli ho detto di non farsi più vedere e lui ha eseguito gli ordini. Non ho un avvocato, qui non mi serve, ho tutto, il molosso che dorme sotto di me e divide cella e le giornate, i secondini, il cortile col campo da basket, un avvocato? Davvero non saprei che farmene.

Ci avviciniamo alla zona del parlatorio, non che lo usi spesso, ma ricordo bene la strada.

Morozzi mi conduce nella stanza, vicino al tavolo è seduto un tizio magro come un chiodo e pallido come un fantasma. Sul tavolo vi è poggiata una borsa di pelle. Da avvocato.

Sono l’avvocato Guidoni. L’esordio dell’omino non è dei più felici. Timido, imbarazzato, la voce di chi vorrebbe essere da tutt’altra parte.

Vorrei dirglielo ma la curiosità è più forte.

Rappresento la famiglia Butera.

Faccio per alzarmi ma Morozzi mi preme una mano grossa quanto un badile, sulla spalla e mi rimette a sedere.

Cerca di fare il bravo, mi intima Morozzi in un orecchio, sta seduto e ascolta quello che ti deve dire l’avvocato, io vado a prendere un caffè ma sono sicuro che non darai problemi. Tranquillo avvocato, Buriani qui non è una testa calda. Poi strizza gli occhi a entrambi ed esce dalla stanza.

Non mi resta che ascoltare e poi tornarmene in cella dove Sebastiano il molosso mi aspetta.

Mi chiamo Andrea Guidoni. Ricomincia a dire il giovane in giacca e cravatta. Almeno è educato.

Deve perdonare la visita senza preavviso ma così mi è stato suggerito di fare dai miei clienti. Hanno anche detto che lei non avrebbe accettato di parlare con un rappresentante della famiglia di Leonardo Butera, se lo avesse saputo in anticipo.

Leonardo Butera.

Solo sentire nominare il nome di Leonardo mi dava come una scossa dentro, dalle parti della colonna vertebrale, al centro del petto. Leonardo che era morto da dodici anni e che non aveva mai smesso di tormentarmi.

Rimorso, senso di colpa, peccato mortale. Leonardo mi aveva costretto a diventare un assassino. A diventare un galeotto dall’età di trent’anni e lo sarei rimasto per tutta la vita.

Sapevo cosa aveva da dirmi l’avvocato Guidoni. Avevo già ascoltato la stessa richiesta da altri. E avevo sempre rifiutato.

I fratelli Butera, Antonio e Maria Angela avrebbero molto piacere di incontrarla durante il suo prossimo permesso. Per loro è importante poterla vedere, dirle che hanno perdonato il suo gesto, il crimine da lei commesso. Sono molto credenti e hanno pregato tanto per lei.

Guidoni ha preso confidenza col ruolo, parla più speditamente. Sono contento per lui, la stoffa c’è e magari un giorno diventerà un avvocato di grido. Ha una specie di tic, strizza ripetutamente l’occhio sinistro e gli si forma una ragnatela di rughe. Ci dovrà lavorare ma è giovane, avrà tempo.

Fa una pausa, mi crede meditabondo ma io osservo solo il suo occhio. Riprende.

Comprendo il suo timore ma le posso assicurare che nell’animo dei fratelli di Leonardo non c’è nessun intento di vendetta. Vorrebbero solo che lei sentisse il loro perdono.

Resto in silenzio.

Dopotutto l’agente Morozzi mi ha intimato di ascoltare. Non di dare una risposta. L’avvocato rimane in attesa ma il mio silenzio lo atterrisce. Non è preparato, penso io, non sa cosa fare ed io non ho intenzione di aiutarlo. Deve capire che venire in carcere a parlare con un omicida non è una passeggiata, non gli offrirò un aperitivo.

Non ha niente da chiedermi? Prova lui speranzoso. Io faccio cenno di si con il capo. Lui spalanca gli occhi, quasi famelico ed io riconosco di nuovo la stoffa dell’avvocato.

Vorrei tornare in cella. Mi chiama il secondino, per favore?

La delusione del giovane avvocato Andrea Guidoni mi lascia indifferente.

Mentre torno in cella, scortato da Morozzi che ora sembra piuttosto annoiato, penso che vada bene così. Ho fatto quello che ho fatto perché non avevo scelta. Leonardo Butera non mi ha dato alternative. Forse è stato un errore, anzi, di sicuro lo è stato. Pagherò quell’errore, non solo con la pena, lo pagherò tutta la vita.

Non è affare che riguardi i fratelli devoti.

Non voglio il loro perdono. Non lo merito.

Non li incontrerò mai.

Sarò sempre Buriani, quello che si è fatto il carcere per omicidio e nessun perdono potrà cancellare questo.

Dietro l’inferriata, Sebastiano il molosso mi chiede con voce gentile, da innamorato, se ho una sigaretta.

Il suo sorriso marcio fa sparire temporaneamente la faccia di Leonardo dai miei pensieri.

Fino al prossimo permesso.







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