venerdì 7 febbraio 2020

Sus scrofa









A Enrico piace camminare. 

Anche pedalare non gli dispiace. Ciò che ama è stare all’aria aperta. 

Anche quando, come ora, l’inverno non è ancora finito e l’aria fredda gli punge le mani e gli screpola la pelle. 

Ha pedalato per una decina di chilometri ed è arrivato alla radura in fondo al percorso, al centro della quale si erge un villino abbandonato e diroccato. L’edificio, in stile barocco, è abbastanza rovinato perché sia vietato l’accesso alle persone e abbastanza bello perché sia un ottimo soggetto per le foto, quando la luce del sole scende e si fa obliqua e dorata. 

Come il solito non c’è nessuno, Enrico ama quel posto anche per questo motivo. Si accomoda sulla panca di legno per riposare e godersi il silenzio. L’inverno è una bella stagione, la tenuta è poco frequentata e non ci sono insetti a molestare la pace del luogo. I raggi del sole scaldano la pelle, Enrico chiude gli occhi e si rilassa. 

Alle spalle gli tengono compagnia i suoni del bosco, cinguettii, schiocchi di rami secchi, fruscii vari. Enrico c’è abituato, visita abitualmente quell’angolo di natura. 

Il rumore che sente lo allarma come uno squillo improvviso nel cuore della notte. Tonfi di passi pesanti e un grufolare profondo e minaccioso. 

Enrico non fa in tempo a voltarsi e a focalizzare la scena, quando un’enorme massa scura colpisce la panca di legno spostandola di un metro e facendo finire il ragazzo con le ginocchia a terra. Enrico si porta le mani al viso e si accorge di aver perso gli occhiali. Anche se non può mettere a fuoco ciò che vede, capisce che non è il caso di soffermarsi a studiare etologia ma è il momento di rimettersi in piedi e scappare. 

I versi si fanno più acuti e minacciosi, quasi uno strillo femminile, il grosso cinghiale che ha caricato la panchina si è rimesso in piedi e sta per ripetere l’attacco. 

Enrico si mette in piedi a fatica, vede di fronte alla panchina, il cancello che chiude l’uscita verso un viale esterno. Se fosse stato aperto… pensa per un attimo, poi i versi dell’animale infuriato gli mettono le ali ai piedi e con due balzi si arrampica sulle sbarre mezze arrugginite del cancello. Scivolando con i piedi sull’inferriata sfiora con le suole la folta pelliccia della scrofa e ne prova repulsione. 

Le dita sono strette alle fredde sbarre, scivolano verso il basso perché ha sanguinato dai palmi delle mani e la cancellata è scivolosa. Scalcia un paio di volte a vuoto e mentre inizia a piangere, si appoggia col piede sinistro su qualcosa di solido. Raccoglie un po’ di coraggio e guarda in basso, si tratta della serratura su cui ora, facendo perno con la gamba sinistra, è riuscito a spingersi verso l’alto, dove il grosso cinghiale non può arrivare. 

Prova a placare il terrore, a calmarsi respirando a lungo e a fondo e piano piano la cosa funziona. 

Il cinghiale sembra più tranquillo, annusa qualcosa al suolo, prova a dare un morso poi, capendo che non si tratta di niente di commestibile, lo inonda con un getto di urina odorosa. 

Enrico non ha gli occhiali, ma teme di aver capito di cosa si tratta. 

Ora, col piede poggiato sulla serratura, abbracciato al montante centrale, si arrischia a liberare la mano destra, che porta veloce alla tasca del pantalone e, trovandola vuota, il suo sospetto diventa realtà. Quello sulla ghiaia è il suo cellulare, non ci sono dubbi. 

L’animale che aveva dato una gran testata al cancello, ora si è calmato, annusa in giro ma non sembra avere nessuna voglia di tornarsene da dove è venuto. 

Enrico è terrorizzato, sa che non potrà stare all’infinito col peso su una gamba e sente il principio di un crampo a peggiorare le cose ma sa che non lascerà il salvifico abbraccio con quel provvidenziale cancello per niente al mondo. 

Non voglio morire, piagnucola e trema scosso dal freddo e dalla paura, percepisce in lontananza un calore alla coscia ma non capisce nemmeno di essersi pisciato addosso. L’animale sotto di lui fa qualche grugnito e lui chiude gli occhi per non vedere la disperazione della situazione in cui è finito. 




Non voglio morire, pensa, mentre lacrime scivolano sulle guance.

La presa sulle sbarre metalliche è sempre più dolorosa.

Non voglio morire, implora, mentre urina inzuppa l’interno dei jeans.

La vista gli si annebbia e inizia a sbattere i denti e a tremare.

Non voglio morire, sussurra con un filo di voce, mentre il cinghiale che ha perso interesse per l’essere umano sposta i suoi duecento chili e in silenzio rientra nel bosco.



Enrico stringe gli occhi per non vedere, contrae allo spasimo i muscoli per smettere di tremare, s’immerge nel nero dei suoi pensieri per fuggire da quella crudele realtà.

Così facendo non si accorge.

Non si accorge che l’animale ha cessato il suo assedio.

Che in fondo al vialone tre tizi si stanno avvicinando in bici.

Che i tre l’hanno visto e stanno dirigendo verso di lui.

Enrico apre gli occhi quando sente il rumore delle ruote sulla ghiaia e voci umane che ridono sguaiate.

-Che ci fai arrampicato lassù, tipo? Urla il primo.

-Stava tentando di evadere! Risponde il secondo.

-Scendi deficiente. Lo apostrofa il terzo.

Enrico si accorge di due cose, l’animale selvatico che l’ha immerso nel panico non c’è più ma al suo posto ci sono tre tipi che non hanno un aspetto rassicurante, anzi sembrano in qualche modo più selvatici del cinghiale stesso.

Si stacca dall'inferriata e cerca di saltare giù con disinvoltura ma la gamba sinistra, già sofferente per il crampo, lo tradisce e cede facendolo rotolare a terra. Cerca e trova gli occhiali graffiati, ma prima prova ad asciugarsi le lacrime col solo risultato di sporcarsi la faccia di sangue.

-Questo sembra mezzo matto, inizia uno dei tre, lasciamolo andare…

-Prima voglio capire cosa ci faceva aggrappato al cancello, poi lo lasciamo stare. Risponde perentorio il tizio più alto e mentre lo dice, si fa avanti.

Enrico, ancora sotto shock, cerca di parlare la inizia un balbettio incoerente misto a singhiozzi e senza capire ciò che sta per fare si lancia in avanti e cerca riparo abbracciando quel giovane che l’ha salvato.

Il tipo reagisce molto male.

-Che cazzo fai? Non vedi che mi hai imbrattato il piumino? Ma che, sei frocio? Urla spingendolo lontano.

Il secondo ragazzo gli indica i pantaloni, divertito e schifato assieme.

-Guardate! Se l’è fatta addosso! E gli assesta una nuova spinta, mandandolo di nuovo tra le braccia del tizio alto.

-Ma allora è vero, sei proprio frocio! E gli allunga un gancio, assestato da professionista, che colpisce Enrico in piena faccia e gli spezza un incisivo.

Enrico è confuso, un migliaio di aghi gli infuocano la faccia, pensa: speriamo che sia il dente cariato, così risparmio sull’estrazione, e questo pensiero gli fa scappare un sorriso isterico.

-Capo, questo ride, ci sta prendendo per il culo. Diamogli una lezione.

Appena finita la poco edificante frase, il teppista fa partire un gran calcio, si nota che è allenato, ed Enrico torna nella ghiaia ferendosi nuovamente mani e ginocchi.

-Razza di frocio, ti cancello quel sorriso sulla bocca da fighetta.

I calci arrivano da tre lati diversi.

Lo colpiscono sulle spalle, sul sedere, sulle costole, sembrano non finire mai. I tipi non parlano, riservano tutto il loro fiato per pestare, fare male, provocare danno. Sono forti, giovani, possono andare avanti molto molto tempo.



Enrico non piange più, non ha aria nei polmoni per farlo, sputa sangue e saliva, assorbe i colpi stringendo gli occhi come prima li aveva stretti per non vedere la bestia.

Ripensa al cinghiale, quanto sarebbe contento se tornasse ora, sul sentiero, di sicuro farebbe scappare i tre picchiatori da codardi quali sono. Di sicuro si fermerebbe lì a fissarlo con i suoi occhi piccoli e neri.

Enrico sarebbe contento di quello sguardo animale. Di certo non ci troverebbe odio, non leggerebbe rabbia e rancore.

Solo un antico istinto animale di sopravvivenza.

Il cinghiale, ora che ha visto lo sguardo delle vere bestie, non gli farebbe più così tanta paura.

















































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