Vittorio, che si
chiamava così perché suo padre era un nostalgico e suo nonno aveva fermamente
creduto nella vittoria finale e all'affermazione dell'impero italiano, era un
uomo senza mezze misure.
Per lui tutto era nero
o bianco, non c'era spazio per toni intermedi. Non sapeva cosa fosse la
moderazione, non gli piacevano i tipi tranquilli, quelli che preferivano la
diplomazia.
Vittorio non era mai
dovuto ricorrere alla diplomazia. Fin dalla tenera età di sei anni era stato il
più alto e grosso della classe. Gli altri bambini erano terrorizzati, erano
spinti, minacciati, graffiati. Le bambine piangevano al solo sguardo e lui si
divertiva a farle soffrire.
Nessuna maestra aveva
trovato il metodo giusto e lui sembrava refrattario sia a lusinghe e premi sia
a punizioni e castighi.
Alle medie Vittorio era
alto un metro e ottanta per settantacinque chili. Si radeva con regolarità ogni
due giorni. Un pacchetto di Marlboro gli durava qualche giorno ma non gli
mancavano mai i soldi perché i compagni erano costretti a investire i soldi
delle paghette per pagarsi l’incolumità.
Il suo fisico notevole
e la sfrontatezza lo aiutavano a uscire con le ragazze facili del vicino
istituto tecnico. Senza motivo scatenava una rissa un giorno sì e l’altro pure.
Aveva bisogno di
provocare e picchiare qualcuno, non frequentando palestre. A dire il vero con
due ganci e un diretto stendeva chiunque ma spesso la prendeva per le lunghe
con spintarelle e pizzicotti che prolungavano il divertimento. Era come un
gatto che si diverte col topolino prima di finirlo.
Gli insegnanti
avrebbero preferito allontanarlo dalla scuola ma si limitavano a bocciarlo per
non averlo più in classe.
Finite a fatica le
scuole medie, Vittorio si iscrisse al Tecnico più che altro per avere a
disposizione sigarette, ragazze e imbranati da spremere e pestare.
Ripeté diversi anni
senza mai avere una concreta possibilità di raggiungere il diploma.
In ogni caso a Vittorio
il diploma non sarebbe servito.
Negli ambienti giusti
la manodopera era sempre ricercata. Buttafuori in locali malfamati ma anche
autista, guardia del corpo, fattorino per consegne particolari, insomma tutto
ciò che a un certo mondo oscuro necessitava.
Tutto questo per
spiegare chi e cosa fosse Vittorio.
Un predatore.
Uno che la vita la
sbranava, ne dilaniava le carni da quando era al mondo. Uno che non si fermava
davanti a niente e a nessuno, abituato a vincere sempre tutti gli incontri e le
sfide.
Uno davanti cui era
meglio levarsi e lasciar passare, se non si voleva essere schiacciati.
Un re della giungla.
Finché un giorno, un
tizio non decise di usare una mazza da baseball, sentendosi un piccolo Joe Di Maggio
e facendo una battuta valida sulla testa di Vittorio.
La
jeep corre a velocità folle non perdendo nemmeno una buca di quest’assurda e
secca savana. Un africano, dall’aria stupida, guida senza curarsi di tenere gli
occhi sulla strada anche perché la strada non esiste. Vittorio si tiene al
sedile, grida: vai piano, così ci ammazziamo, ma la guida fa finta di non
sentire. Tutto attorno è giallo e asciutto, sabbia, arbusti, erba secca. Al
centro dell’orizzonte un albero enorme, come si chiama, baobab, un mostro che
sarà alto almeno venti metri con un tronco poderoso e rami che sembrano voler
abbracciare il mondo. Vittorio si sta arrabbiando, vorrebbe tirare giù dall’auto
quell’idiota a calci ma d’improvviso sente uno scoppio, come una fucilata, il fuoristrada
sbanda con violenza e si rovescia, Vittorio abbraccia il cruscotto prima che
questo si spacchi in due, è investito da una pioggia di frammenti di vetro da
ogni lato del corpo e mentre il cielo e la terra scambiano più volte di posto,
picchia la testa e chiude gli occhi.
Quando
li riapre, prova un dolore lancinante alla nuca, uno strato appiccicoso di
sangue gli chiude l’occhio destro e ha una spalla incastrata nella lamiera.
Prova
a girarsi, l’auto è messa su un fianco, il lato che guarda verso il cielo è
squarciato, una scimmietta lo osserva incerta se scappare. La guida non si
vede, di certo sbalzata fuori nell’incidente.
Se
lo trovo vivo, lo ammazzo io, pensa Vittorio con un certo prurito.
Si
alza a fatica, gli sembra di avere il braccio rotto e sente la testa in fiamme.
Il babbuino scappa facendo rumore, lui esce dai rottami. Per fortuna le gambe
sono sane, ha diverse ferite e non muove il braccio ma poteva andare peggio.
Occorre chiamare i soccorsi, pensa mentre cerca quel subumano… trova la sterrata
e la percorre per una cinquantina di metri in direzione del grosso albero. Non
ha nessuna idea di come sia finito in quel pasticcio, la botta alla testa deve
avergli fatto perdere la memoria, poi sente un verso, come un ringhio basso e
prolungato che gli fa accapponare la pelle, aumenta il passo ma ha dolori
ovunque, cerca di correre tenendosi in braccio e vede un movimento poco
lontano. Si avvicina, tra l’erba giace supino il corpo dilaniato dell’africano,
ha gli occhi aperti verso il cielo che sta per imbrunire, ma non può vedere più
nulla. Sono atterrati sulla carcassa due uccellacci, forse sparvieri, di sicuro
voraci e famelici, Vittorio pensa: sono contento di non essere io al tuo posto…
Poi sente di nuovo il brontolio, questa volta più vicino. Non vuole finire
mangiato, quindi cerca di correre verso l’albero.
L’ha
quasi raggiunto quando sente rumore di ali che sbattono, si gira e vede che due
leonesse hanno spaventato gli uccelli per cibarsi di quel disgraziato e alla
vista gli si vuota la vescica nei pantaloni.
Vittorio
raggiunge i rami più bassi dell’albero, a fatica, usando il solo braccio
sinistro, si issa e cerca con le poche forze rimaste di salire più possibile in
alto. E’ stremato, trema di freddo e di paura, si chiede se i leoni sappiano
arrampicarsi sugli alberi, sente lo stridio degli uccelli cui sta invadendo il
territorio, un ruggito spaventoso e per niente lontano, vede il cielo che si
tinge di colori straordinari, ma non riesce a coglierne la bellezza.
Trema
Vittorio, sa che fra poco scenderà la notte, il freddo lo avvolgerà e sarà un
nero sudario, non potrà reggersi in equilibrio per molto, le bestie saranno
presto affamate e lui sarà inerme, preda di un predatore molto più forte,
vittima di una natura che non aveva mai considerato, lui che si era sempre
sentito forte, invincibile, lui che aveva sottovalutato come un uomo fosse così
piccolo davanti al creato e alla bestiale forza di altri esseri. Poi, così come
aveva previsto, nel cuore di una nera notte africana, Vittorio in preda a un
folle delirio di terrore e senza più forze per aggrapparsi alla vita, perde la
presa sul ramo al quale è aggrappato per scivolare giù per alcuni metri e
picchiare nuovamente la testa, precipitando in un luogo di buio senza fine.
Quando Vittorio si
sveglia non vede leoni né avvoltoi né babbuini. Una donna in camice bianco gli
sta cambiando la benda attorno alla testa.
Gli sussurra di stare
fermo ma lui vorrebbe alzarsi, scappare, uscire da quel letto. Lei finisce il
lavoro e Vittorio non sa cosa dire, poi sussurra un flebile grazie.
Nei giorni successivi
Vittorio, grazie alle infinite risorse di un fisico giovane e forte, si
riprende con una velocità che sorprende tutti. Il più sorpreso però è lui,
sorpreso di non sentire rabbia, sorpreso di poter dire grazie a chi lo aiuta,
sorpreso di non avere voglia di vendetta, di aggredire qualcuno, di essere come
nato a una nuova vita, fatta di cose buone, di tranquillità e pacatezza.
Vittorio capisce che
esiste qualcosa a metà strada dell’essere preda o predatore, qualcosa che non
comprende necessariamente stare agli estremi ma che la vita si può vivere anche
in un territorio neutrale, un posto dove ci si può rilassare, in cui è facile
apprezzare la bellezza di un cielo africano ma anche la quotidianità della
città.
Un posto in cui non
bisogna avere il terrore di essere sbranati o vivere la violenza di sopraffare
qualcuno.
Vittorio è grato per quella botta in testa, grato per non essere più un predatore.
Grato per non avere più
timore di diventare preda.
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