Gli occhi.
Era quello il posto,
dove persi la strada e la ragione.
Mi bastò un attimo, uno
sguardo innocente, e fu come cadere in trappola. Una dolcissima ragnatela in
cui finii per rotolare, per rimanere incollato, inerme, ad aspettare, come la
mosca, una sorte inevitabile.
Ma andiamo in ordine.
Avevo quindici anni. La
guerra era finita da un decennio o poco più ma tante erano le cose ancora da
ricostruire e molto era stato abbandonato per mancanza di soldi.
Cumuli di macerie dove
prima c’erano case, fabbriche, ponti e piazze. Lo ricordo come un mondo triste,
che faceva fatica a tirarsi su, ho memoria di tanti particolari ma li ricordo
come guardare una vecchia foto, consumata e opaca, tutto in bianco e nero.
La scuola era ripresa,
i miei ci tenevano che riuscissi a diplomarmi. Eravamo in pieno boom economico
e nei campi ci andava sempre meno gente.
A scuola ci andai
volentieri, capivo che era importante per il mio futuro. Prendevo la vecchia
bici di famiglia. Tutti andavamo in bici, allora. Erano rare le automobili e
quelle poche sfrecciavano a tutta velocità, strombazzando il clacson e
rischiando di far cadere dalla sella le persone anziane.
Fu proprio andando a
scuola che la conobbi.
Era la ragazza più bella del liceo, il mio primo, vero
ricordo a colori. Fu il mio primo amore, mi rese cieco e sordo, diventai
stupido e testardo.
Passai quasi l’intero
anno scolastico senza fare niente, la guardavo sempre all’uscita di scuola, lei
non alzava mai gli occhi, sempre seria e composta com’erano allora le brave
ragazze. Ma una volta lo fece, una volta mi guardò e questo fu sufficiente per
farmi perdere la ragione.
Mi ci volle un coraggio
da leone e un pomeriggio riuscii a fermarla, le dissi qualcosa, è trascorso
troppo tempo per ricordare, rammento però che lei sorrise e scappò dalla sua
compagna.
La seconda volta che la
incontrai, fu dietro la scuola, avevo un fuoco dentro che mi consumava, le mani
tremavano ed ero deciso a tutto. Le sue amiche non c’erano, pensai che fosse
l’occasione per baciarla, così mi avvicinai alle sue labbra, vi poggiai le mie
e trovai il paradiso.
Qualcuno ci vide perché
al mio ingresso in classe il professore mi riservò una generosa dose di
bacchettate sulle mani, allora si poteva, e quando tornai a casa il maestro, si
prese la briga di venire con la sua bicicletta a trovare i miei genitori per
informarli del fatto e anche mio padre si sentì in dovere di darmi due
scappellotti e di mandarmi a letto saltando la cena.
La storia era chiusa,
non avevo il permesso d’innamorarmi, dovevo studiare o lavorare.
Lei la vidi di
sfuggita, un paio di volte, poi più nulla. Forse cambiò scuola, forse rimase a
casa a imparare un mestiere, come si usava a quei tempi.
Non la dimenticai, non scordai
i suoi bellissimi occhi, le sue labbra calde, e non dimenticai come il solo guardarla
camminare da lontano, mi faceva tremare d’amore.
Non dimenticai il suo
nome, si chiamava Marta.
Mio padre e il mio
insegnante diventarono inflessibili. Mi feci perdonare, tornai sui libri e ottenni
il diploma.
Passarono gli anni e
dopo aver trovato un buon lavoro, conobbi una brava ragazza che frequentava
casa nostra, con le mie sorelle, per imparare a cucire. Le feci una breve corte
formale e, con il consenso di tutti, ci sposammo.
È stato un buon
matrimonio, intendiamoci, solido e tranquillo. Ci siamo voluti bene e mai ho
pensato ad altre donne, abbiamo avuto tre figli e sono nonno da tanti anni. La
mia cara moglie se n’è andata ormai da cinque anni e ora vivo in questo mondo
troppo veloce, fatto di telefonini, comunicazioni elettroniche e rapporti
virtuali, un mondo che non capisco e non riconosco. A volte mi sento un alieno
piombato su una terra ostile con la sua navicella, non comprendo la lingua, non
capisco la gente.
Ma non sono qui a raccontare
questo.
Dopo la morte di mia
moglie, il mio motore ha cominciato a perdere qualche colpo.
Mi hanno diagnosticato
un problema di ritmo, se ho capito bene, non che m’importi molto. Comunque,
figli e nipoti si aspettano che mi curi e faccio del mio meglio per vederli
contenti.
Sono ricoverato in
ospedale da un paio di giorni, per controlli di routine.
Il reparto è molto
pulito e sono tutti gentili, tranne la mia cardiologa che mi ricorda, con la
sua severità, un vecchio insegnante…
Ieri pomeriggio sono
stato invitato dall’infermiera di turno, in una saletta, per eseguire un
prelievo di sangue. Mentre lei si è voltata per prendere le sue cose da un
cassetto, mi è caduto lo sguardo su di una lavagna.
Col pennarello blu,
erano scritti i nomi di pazienti ricoverati.
Sono rimasto senza
fiato a leggere nome e cognome di Marta.
Per fortuna
l’infermiera era concentrata sul mio braccio, perché non so proprio che faccia
ho fatto. E' stato come vedere un fantasma riemerso dal passato e la cosa mi ha tolto il
fiato.
Certo, avrebbe potuto
essere un’omonimia, ne ero consapevole, dopo sessant’anni poteva non essere lei!
Ma qualcosa mi diceva di sì.
Era lei ed io dovevo
vederla, salutarla.
Tornai in camera, era
orario di visita. Sarebbero arrivati tutti, figli con le loro ansie e
preoccupazioni e nipoti spensierati che mi avrebbero regalato i loro infantili
disegnini raffiguranti enormi cuori e fatti con lo stesso organo.
Ma il mio traballante
muscolo ora batteva per una persona in un letto, solo sei camere più avanti.
Finito il tempo delle
visite, rimasi solo e aspettai che passasse il carrello della terapia. Dopo, il
personale si sarebbe ritirato per cenare e per le consegne attorno a un caffè.
Quando la corsia fu
deserta, raggiunsi la camera. Ricordavo il numero di letto.
La donna adagiata sotto
il lenzuolo era più pallida della biancheria. Anche i capelli erano sottili e
bianchissimi, Il copriletto non bastava a nascondere una magrezza estrema.
Sussurrai il suo nome.
Marta.
Quando aprì gli occhi,
ebbi un brivido e fui sicuro che fosse lei, anche se non avevo mai nutrito
dubbi.
Marta mi osservò in
silenzio.
Non mi chiese cosa
facessi lì, ma quando sorrise il mio cuore si aprì in due lasciando sgorgare un
lago di dolcezza infinita, mi aveva riconosciuto.
Poi parlò: “Ricordo
come tremavi fuori dalla scuola. Mi sono sempre accorta di come mi guardavi,
quanto tempo mi hai fatto aspettare per un piccolo e casto bacio…”.
Mi vennero le lacrime
agli occhi, vedendo quanta fatica faceva a parlare, anche solo a tenere gli
occhi aperti. Ma sapevo che quell’istante stava regalando felicità a entrambi.
Sapevo che non ci
rimaneva molto tempo, presto sarebbe passato qualcuno del personale e mi
avrebbe rimandato in camera come un maestro mi avrebbe spedito in classe.
Lei mi strinse la mano
con poca forza e allora capii che tutto ciò che rimaneva da fare era baciarla.
Dopo sessant’anni le mie labbra si poggiarono sulle sue e la sensazione di
tutte le cose che avrebbero potuto essere, fu allo stesso tempo terribile e
dolcissima.
Uscii dalla stanza
sussurrando un semplice ciao, la mia gola era serrata dall’emozione e lei aveva
richiuso gli occhi. Ma il sorriso sulla sua bocca era rimasto.
Tornai alla mia stanza
sotto lo sguardo attento di un infermiere, che mi fece sentire in colpa.
Non lo credevo
possibile ma riuscii a dormire bene e il mio battito fu regolare, ai ripetuti
controlli che mi fecero, fino al mattino.
Il giorno successivo
ero in dimissione, la cardiologa era soddisfatta dei miei esami. Preparai la
borsa e poi, facendo finta di niente, arrivai fino alla stanza di Marta.
Due giovani ragazze in
divisa stavano rifacendo il letto vuoto.
Le guardai interrogativo
e una delle due si avvicinò e senza parlare mi fece capire che la paziente era
deceduta.
Ressi bene, ringraziai
la ragazza e mi voltai per evitarle lo spettacolo di un vecchio che piange.
Poi, dentro di me,
ringraziai il cielo per avermi concesso di rivederla, di averle potuto lasciare
un altro piccolo bacio, prima che lei andasse via.
Ringraziai per aver
potuto rivedere i suoi occhi, bellissimi come un tempo, un tempo perduto tanti
anni prima, dietro il muro di una vecchia scuola.
dolce, tenero, commovente
RispondiEliminagrazie, sconosciuto lettore :)
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