domenica 3 marzo 2019

Occhi nel tempo










Gli occhi.

Era quello il posto, dove persi la strada e la ragione.

Mi bastò un attimo, uno sguardo innocente, e fu come cadere in trappola. Una dolcissima ragnatela in cui finii per rotolare, per rimanere incollato, inerme, ad aspettare, come la mosca, una sorte inevitabile.

Ma andiamo in ordine.
Avevo quindici anni. La guerra era finita da un decennio o poco più ma tante erano le cose ancora da ricostruire e molto era stato abbandonato per mancanza di soldi.
Cumuli di macerie dove prima c’erano case, fabbriche, ponti e piazze. Lo ricordo come un mondo triste, che faceva fatica a tirarsi su, ho memoria di tanti particolari ma li ricordo come guardare una vecchia foto, consumata e opaca, tutto in bianco e nero.
La scuola era ripresa, i miei ci tenevano che riuscissi a diplomarmi. Eravamo in pieno boom economico e nei campi ci andava sempre meno gente.
A scuola ci andai volentieri, capivo che era importante per il mio futuro. Prendevo la vecchia bici di famiglia. Tutti andavamo in bici, allora. Erano rare le automobili e quelle poche sfrecciavano a tutta velocità, strombazzando il clacson e rischiando di far cadere dalla sella le persone anziane.

Fu proprio andando a scuola che la conobbi. 
Era la ragazza più bella del liceo, il mio primo, vero ricordo a colori. Fu il mio primo amore, mi rese cieco e sordo, diventai stupido e testardo.
Passai quasi l’intero anno scolastico senza fare niente, la guardavo sempre all’uscita di scuola, lei non alzava mai gli occhi, sempre seria e composta com’erano allora le brave ragazze. Ma una volta lo fece, una volta mi guardò e questo fu sufficiente per farmi perdere la ragione.
Mi ci volle un coraggio da leone e un pomeriggio riuscii a fermarla, le dissi qualcosa, è trascorso troppo tempo per ricordare, rammento però che lei sorrise e scappò dalla sua compagna.
La seconda volta che la incontrai, fu dietro la scuola, avevo un fuoco dentro che mi consumava, le mani tremavano ed ero deciso a tutto. Le sue amiche non c’erano, pensai che fosse l’occasione per baciarla, così mi avvicinai alle sue labbra, vi poggiai le mie e trovai il paradiso.
Qualcuno ci vide perché al mio ingresso in classe il professore mi riservò una generosa dose di bacchettate sulle mani, allora si poteva, e quando tornai a casa il maestro, si prese la briga di venire con la sua bicicletta a trovare i miei genitori per informarli del fatto e anche mio padre si sentì in dovere di darmi due scappellotti e di mandarmi a letto saltando la cena.
La storia era chiusa, non avevo il permesso d’innamorarmi, dovevo studiare o lavorare.
Lei la vidi di sfuggita, un paio di volte, poi più nulla. Forse cambiò scuola, forse rimase a casa a imparare un mestiere, come si usava a quei tempi.
Non la dimenticai, non scordai i suoi bellissimi occhi, le sue labbra calde, e non dimenticai come il solo guardarla camminare da lontano, mi faceva tremare d’amore.

Non dimenticai il suo nome, si chiamava Marta.
Mio padre e il mio insegnante diventarono inflessibili. Mi feci perdonare, tornai sui libri e ottenni il diploma.
Passarono gli anni e dopo aver trovato un buon lavoro, conobbi una brava ragazza che frequentava casa nostra, con le mie sorelle, per imparare a cucire. Le feci una breve corte formale e, con il consenso di tutti, ci sposammo.


È stato un buon matrimonio, intendiamoci, solido e tranquillo. Ci siamo voluti bene e mai ho pensato ad altre donne, abbiamo avuto tre figli e sono nonno da tanti anni. La mia cara moglie se n’è andata ormai da cinque anni e ora vivo in questo mondo troppo veloce, fatto di telefonini, comunicazioni elettroniche e rapporti virtuali, un mondo che non capisco e non riconosco. A volte mi sento un alieno piombato su una terra ostile con la sua navicella, non comprendo la lingua, non capisco la gente.
Ma non sono qui a raccontare questo.

Dopo la morte di mia moglie, il mio motore ha cominciato a perdere qualche colpo.
Mi hanno diagnosticato un problema di ritmo, se ho capito bene, non che m’importi molto. Comunque, figli e nipoti si aspettano che mi curi e faccio del mio meglio per vederli contenti.
Sono ricoverato in ospedale da un paio di giorni, per controlli di routine.
Il reparto è molto pulito e sono tutti gentili, tranne la mia cardiologa che mi ricorda, con la sua severità, un vecchio insegnante…
Ieri pomeriggio sono stato invitato dall’infermiera di turno, in una saletta, per eseguire un prelievo di sangue. Mentre lei si è voltata per prendere le sue cose da un cassetto, mi è caduto lo sguardo su di una lavagna.
Col pennarello blu, erano scritti i nomi di pazienti ricoverati.
Sono rimasto senza fiato a leggere nome e cognome di Marta.
Per fortuna l’infermiera era concentrata sul mio braccio, perché non so proprio che faccia ho fatto. E' stato come vedere un fantasma riemerso dal passato e la cosa mi ha tolto il fiato.
Certo, avrebbe potuto essere un’omonimia, ne ero consapevole, dopo sessant’anni poteva non essere lei! Ma qualcosa mi diceva di sì.
Era lei ed io dovevo vederla, salutarla.


Tornai in camera, era orario di visita. Sarebbero arrivati tutti, figli con le loro ansie e preoccupazioni e nipoti spensierati che mi avrebbero regalato i loro infantili disegnini raffiguranti enormi cuori e fatti con lo stesso organo.
Ma il mio traballante muscolo ora batteva per una persona in un letto, solo sei camere più avanti.
Finito il tempo delle visite, rimasi solo e aspettai che passasse il carrello della terapia. Dopo, il personale si sarebbe ritirato per cenare e per le consegne attorno a un caffè.

Quando la corsia fu deserta, raggiunsi la camera. Ricordavo il numero di letto.
La donna adagiata sotto il lenzuolo era più pallida della biancheria. Anche i capelli erano sottili e bianchissimi, Il copriletto non bastava a nascondere una magrezza estrema. Sussurrai il suo nome.
Marta.
Quando aprì gli occhi, ebbi un brivido e fui sicuro che fosse lei, anche se non avevo mai nutrito dubbi.
Marta mi osservò in silenzio.
Non mi chiese cosa facessi lì, ma quando sorrise il mio cuore si aprì in due lasciando sgorgare un lago di dolcezza infinita, mi aveva riconosciuto.
Poi parlò: “Ricordo come tremavi fuori dalla scuola. Mi sono sempre accorta di come mi guardavi, quanto tempo mi hai fatto aspettare per un piccolo e casto bacio…”.
Mi vennero le lacrime agli occhi, vedendo quanta fatica faceva a parlare, anche solo a tenere gli occhi aperti. Ma sapevo che quell’istante stava regalando felicità a entrambi.
Sapevo che non ci rimaneva molto tempo, presto sarebbe passato qualcuno del personale e mi avrebbe rimandato in camera come un maestro mi avrebbe spedito in classe.
Lei mi strinse la mano con poca forza e allora capii che tutto ciò che rimaneva da fare era baciarla. Dopo sessant’anni le mie labbra si poggiarono sulle sue e la sensazione di tutte le cose che avrebbero potuto essere, fu allo stesso tempo terribile e dolcissima.

Uscii dalla stanza sussurrando un semplice ciao, la mia gola era serrata dall’emozione e lei aveva richiuso gli occhi. Ma il sorriso sulla sua bocca era rimasto.
Tornai alla mia stanza sotto lo sguardo attento di un infermiere, che mi fece sentire in colpa.
Non lo credevo possibile ma riuscii a dormire bene e il mio battito fu regolare, ai ripetuti controlli che mi fecero, fino al mattino.
Il giorno successivo ero in dimissione, la cardiologa era soddisfatta dei miei esami. Preparai la borsa e poi, facendo finta di niente, arrivai fino alla stanza di Marta.

Due giovani ragazze in divisa stavano rifacendo il letto vuoto.
Le guardai interrogativo e una delle due si avvicinò e senza parlare mi fece capire che la paziente era deceduta.

Ressi bene, ringraziai la ragazza e mi voltai per evitarle lo spettacolo di un vecchio che piange.

Poi, dentro di me, ringraziai il cielo per avermi concesso di rivederla, di averle potuto lasciare un altro piccolo bacio, prima che lei andasse via.

Ringraziai per aver potuto rivedere i suoi occhi, bellissimi come un tempo, un tempo perduto tanti anni prima, dietro il muro di una vecchia scuola.
















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