sabato 10 marzo 2018

Anestesia totale











Michele non piange da più di vent’anni.

L’ultima volta che ha pianto è stata al funerale di suo padre.
Aveva quattordici anni.

Non era successo tanto perché ne sentisse il bisogno, quanto perché vedeva gli altri farlo.
Sua madre, sua zia e i colleghi dell’uomo erano straziati e spremevano ettolitri di lacrime, il pianto di Michele durò tre minuti.
 In realtà era infastidito da tutta quella dimostrazione di emotività. Gli sembrava, come dire, non fuori luogo bensì inutile.
Badate bene, la sua non era insensibilità, era tutt’altro che impassibile di fronte quel lutto, qualsiasi cosa comportasse, piuttosto era una sorta di pigrizia dell’anima.
Indolenza dell’essere.

Così era cresciuto Michele, senza mai lamentarsi troppo quando soffriva, senza mai esultare troppo per una gioia.
Quando la nazionale di calcio vinse i mondiali Michele partecipò al corteo con bandiere e trombe ma non cantò i cori con i suoi compagni di scuola.
Quando una studentessa del suo liceo fu aggredita da un molestatore e ricoverata in ospedale, lui partecipò alla fiaccolata di protesta ma dimenticò di accendere la fiammella e restituì intatta la sua candela.

Questa sua apparente freddezza, impassibilità di fronte a tutto non gli rese comoda la vita. La sua ex fidanzata lo lasciò molto presto, mentre la sua ex moglie durò qualche anno di più. Michele non riuscì a versare lacrime nemmeno per queste occasioni perdute, pur soffrendo molto. O almeno soffrendo abbastanza.

Era sempre calmo, difficilmente si spazientiva per qualcosa.
Sopportava il caldo estremo d’estate quanto il freddo polare d’inverno. Semmai gli davano fastidio quelli che si lamentavano sempre, li trovava… banali!
Non si lagnava del traffico, al massimo alzava il volume dell’autoradio.
Non chiamava ad alta voce il cameriere per un difetto nella cottura della pizza.
Semplicemente accettava le cose.
Michele trovava troppo faticoso, dispendioso tradire le proprie emozioni, anche solo permettersi di provarne.

Di tanto in tanto qualcuno glielo faceva notare. Allora si accendeva un campanello d’allarme, una piccola spia come quella di un guasto al motore o della riserva di carburante.
Ma la spia tornava presto a spegnersi e l’allarme da fievole che era in principio, finiva per tacere lasciandolo nella sua imperturbabile apparente indifferenza.

Fino alla sera dell’incidente.
Un suo vecchio amico era stato travolto da un’auto pirata mentre costeggiava la statale, pedalando sulla sua bici. Invece di prestare soccorso, l’automobilista era fuggito, inseguito da sensi di colpa, vergogna e vana speranza di passarla liscia.
Il ferito era stato notato da un camionista, soccorso e trasferito in ospedale con fratture varie e una milza rotta che lo aveva quasi ucciso, ma i sanitari erano stati più veloci e lo avevano restituito alla vita e alla sua enorme sofferenza. Michele era andato a trovarlo tutte le sere senza riuscire a dire qualcosa, qualcosa che fosse di conforto, qualcosa che potesse diminuire il dolore, qualcosa che regalasse speranza.
Si era sentito un inutile e freddo pezzo di carne in movimento.
Si era chiesto a lungo, guardando il soffitto notturno della sua camera, quale fosse il senso della sua amicizia.
Poi, una sera, preparando una cena precotta, Michele rovesciò la padella dal fornello e versò sul polso dell’olio bollente.
Quel dolore acuto, urente, insopportabile lo fece gridare. Urlò di dolore e mentre lo faceva una lacrima prese a scorrere sulla sua guancia.
Il lancinante dolore al braccio lo avvicinò a capire cosa potesse provare il suo amico in trazione dentro un letto d’ospedale, cosa potevano aver provato la sua ex moglie e le tante persone che aveva visto soffrire e aveva sentito lamentarsi.
Il dolore di quella sera e le lacrime che gli stavano bagnando in viso, lo riportarono a ritroso fino al giorno del funerale di suo padre.
Allora Michele iniziò a singhiozzare, ora aveva la faccia bagnata, il gusto del sale nelle narici e sulle labbra gli dava una strana sensazione di conforto.
Stava piangendo come piange un neonato, per tutto il dolore mai provato prima, e tra i singhiozzi aveva capito che quel pianto lo stava guarendo.

Era finito l’effetto della sua anestesia.







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