domenica 29 giugno 2025

Il lago

 





La vecchia barca beccheggia sull’acqua scura del lago.

Nicola non è sicuro che sia il termine giusto ma gli suona bene.

La barca è sporca e la vernice è scrostata. Il cavo che la tiene ormeggiata scompare sotto la melma. Sul lato si legge il nome: “Desiree”, Nicola lo trova molto bello.

Tre anatre nuotano attorno alla chiglia e spuntano alla vista dell’uomo. Sono germani reali, due maschi dalla testa verde brillante e una femmina. Tutto quello che sa sulla natura del luogo, frutto di antiche visioni di documentari.

Desiree, il desiderio. Nicola capisce che non sa cosa desiderare e lo spettro dell’assenza di desiderio lo atterrisce.

Pensa ai pesci.

Si ostina a visitare quella zona di acqua stagnante e scura, solo perché poco frequentata. Gli sembra di essere al sicuro, seminascosto e protetto dalla macchia verde, in quel versante dove nessun altro va a pescare.

Oggi nemmeno i pesci desiderano cibarsi né delle molliche di pane né dei vermetti che usa come esca. Non che abbia mai pescato molto, in ogni caso…

Probabile che i vertebrati acquatici che popolano il lago abbiano sviluppato una sorta di comunicazione rudimentale e che questa sia stata sufficiente a condividere l’informazione di non cadere nella trappola attaccata al filo.

Soddisfare la fame per un breve istante a costo del sacrificio della propria vita non può valere la pena. Anche i pesci lo capiscono.

Nicola quella lezione l’aveva capita troppo tardi. Dopo che aveva abboccato all’esca della bellissima Corinna, una giovane donna, piena di vita e di libertà, sempre sorridente, sempre affamata di vino, risate, gioia e abbracci. E sesso.

In verità l’esca non era per lui, sarebbe stato ingiusto e non veritiero dare la responsabilità alla giovane donna. Sarebbe stato conveniente. Era semplicemente lo stile di vita di lei. La responsabilità era tutta sua, Nicola lo sapeva. Nemmeno le attenuanti generiche che qualcuno gli raccontava, l’attimo di fragilità, un bisogno emotivo, la prorompenza fisica della ragazza, e la peggiore di tutte: l’uomo è cacciatore, potevano alleggerire il peso che si portava sulla schiena e nell’anima.

Nicola si era diretto con voracità verso l’esca, quel bocconcino prelibato, prima che fosse preda per altri pesci, e lo aveva addentato senza avere l’intenzione di dividerlo con nessuno.

Aveva stretto fra le braccia quella giovane vita e come un pesce è tirato fuori dall’acqua con uno strattone della lenza, era stato tirato fuori dalla sua vita di uomo sposato. Non si era accorto subito, inebriato com’era da quell’effimera storia sconvolgente, della mancanza di ossigeno.

Quel nuovo ambiente lo aveva condotto a una morte lenta e dolorosa, fatta di problemi di condotta sul lavoro, d’irascibilità, di voltafaccia di vecchi amici che si erano schierati dalla parte della moglie tradita e della promessa di quest’ultima che avrebbe pagato cara quella scelta.

Ora Nick sapeva.

Sapeva che non sarebbe mai più rientrato in acque tranquille di uno stagno calmo e fin troppo familiare. Sapeva che il debito con l’onestà avrebbe richiesto il pagamento di rate che non avevano una data di scadenza. Sapeva che non gli sarebbe rimasto altro che la vista di quel lago e la compagnia di pesci che lo guardavano muti, dall’acqua fonda e scura, ignoranti della propria sorte quanto di quella dell’uomo.

Nicola sperò con tutto il cuore che nessun pesce abboccasse all’amo e morisse annegando nell’aria, e per quella mattina fu accontentato dalla sorte.

Ora è calmo, come l’aria ferma sopra al lago.

Le anatre sono scomparse.

Passano due ragazzini, la femmina lo saluta ridendo, e presto spariscono tra le foglie.

A Nicola evocano allegria, immagina i loro scherzi, la loro ingenua passione, i loro baci. I loro errori e le loro future esperienze con altri.

Sorride mentre spera, anzi augura a quei giovanissimi amanti, che possano avere quello che a lui è mancato. Non la passione, non gli sguardi, non il dolce profumo di una pelle abbronzata. Ma quello che a volte manca nella vita degli adulti, quello che è racchiuso in una parola, che è forse la parola più bella dell’universo.

Legge quella parola proprio lì, scritta sulla superficie dell’acqua.

E quella parola è PERDONO.

 

 




sabato 28 giugno 2025

Il senso di Martino

 





Il lenzuolo è ruvido e gratta la pelle.

Sembra di riposare su carta abrasiva.



Martino avverte il bruciore, che non è più dolore, sotto la garza. Non ricorda il momento del ricovero ma sa che il trauma cranico prevede un iter dal quale non ci si può discostare. TAC, ricovero in osservazione, allettamento, antidolorifici e ghiaccio. E lui si sta sorbendo tutta la trafila.

Entra nella stanza una donna.

Lei non guarda le persone nei letti, non saluta. Efficiente ed efficace come ha richiesto il suo responsabile, il suo sguardo, la sua attenzione, sono rivolte al pavimento che le impegna anche tutte le energie. Pulire e sanificare, non le è richiesto altro.

Quel detersivo finirà per farle del male, pensa Martino. Anche se non legge l'etichetta, il contenitore è troppo distante dal suo letto, sa che contiene etanoammina, un composto che sebbene sia incolore, ha un leggero odore di ammoniaca. La signora ovviamente non ne è consapevole e prosegue a passare lo straccio.

Lui è sorpreso da quella sua considerazione, stupito ma fino a un certo punto e si gratta leggermente sopra la medicazione con il mignolo.

La signora incaricata delle pulizie finisce ed esce per dirigersi con efficienza svizzera verso un'altra stanza.

Entra una donna in divisa, molto giovane e molto bella. Sorride e saluta i ricoverati. Martino la saluta e osserva le mani curate della giovane donna. Oleammide, Parabeni Petrolati e Siliconi, sostanze che non dovrebbero stare sulla pelle di una giovane donna. Fa per parlare, vorrebbe spiegare all'infermiera di non utilizzare le creme che contengono tali sostanze ma si rende conto che non sa come fare, non saprebbe spiegare a qualcuno come fa a sapere quello che sa, così come non lo sa spiegare neanche a se stesso. Certo che quella botta in testa lo ha cambiato, gli permette, anzi lo costringe a sentire odori e a riconoscere sostanze di cui non ha mai sentito parlare. Ma com’è possibile, si chiede, può un trauma cranico causare questo cambiamento?

Il lenzuolo continua a grattare e l'odore della formaldeide contenuta nel detersivo usato per il lavaggio lo turba e non gli permette di riposare.

Improvvisamente prende la decisione. Deve uscire da quel luogo, chiederà di essere dimesso.

Attende che passi un medico in visita.

Martino deve osservare il digiuno e dopo la prima colazione (degli altri) un medico entra. Si presenta in modo formale. Si tratta del direttore, e come tale adegua i suoi gesti misurati e il suo parlare forbito. Gli altri degenti ne hanno timore reverenziale e fanno bene, lui ha assoluto potere sulle persone assistite nel suo servizio.

Martino avverte chiaro, sotto l’alcool contenuto del dopobarba del primario, il butilidrossitoluene, un conservante potenzialmente pericoloso, e oltre a quello un odore più profondo, un prodotto enzimatico originato dalla riproduzione cellulare di un carcinoma.

È spaventato, dovrebbe informare il medico ma si chiede con quale diritto farlo. E poi il medico è l’altro, lui è solo il paziente e quindi tiene la bocca chiusa, non vuole essere trasferito in psichiatria.

Il primario lo informa che la TAC eseguita ha dato esito negativo e se vuole, può essere dimesso nel primo pomeriggio.

Martino quasi non ascolta, distratto dai suoi pensieri. Si chiede: tutto questo che senso ha?  Certo che vorrebbe uscire dall’ospedale e tornare a casa ma più ancora vorrebbe che qualcuno lo liberasse da quella condizione, lo riportasse allo stato precedente, senza superpotere, ma libero.

Tornato in se, insiste per essere dimesso immediatamente. Il Direttore della struttura non ha nulla in contrario ma gli chiede di firmare in cartella la volontà di essere dimesso contro il parere del sanitario.

Martino firma e si dispone ad aspettare la lettera delle dimissioni.

Si cambia, toglie quel ridicolo camice e veste i panni di prima del trauma. Quanto vorrebbe liberarsi oltre che dal camice ospedaliero anche da quella dannata “condizione” ma non si pente di non averne parlato col primario.

Pensa che non dovrà parlare con nessuno se non vuole finire i suoi giorni rinchiuso in qualche istituto per la cura di malattie mentali.

Più tardi l’infermiera viene a prenderlo con una carrozzina, Martino si vergogna, non vuole sembrare più malato di quello che è, quindi rifiuta l’assistenza.

Basta non può restare un minuto di più in quel reparto.

Non vuole riconoscere gli odori dei prodotti chimici, dei disinfettanti, delle persone, delle malattie, della morte imminente.

S’incammina con le sue carte in mano senza nemmeno conoscere la strada ma è fortunato e vede l’uscita.

Indovina anche la posizione degli ascensori, scopre di trovarsi al terzo piano, scende premendo lo zero e si trova in un corridoio che finisce nella vasta sala d’ingresso del nosocomio.

Oltre le vetrate c’è la sua libertà.



Si chiede come sarà d’ora in avanti la sua vita ma adesso la priorità è andare fuori.

Nel salone c’è l’efficiente signora di prima che ha appena lavato il pavimento di marmo lucido e si appresta a posizionare gli avvisi per la cautela ma non fa in tempo perché Martino è troppo veloce. La scivolata è inevitabile, così come la caduta a terra comprensiva di trauma contusivo all’occipite.

Martino è prontamente soccorso e trasportato nei meandri dell’ospedale.

Non può opporsi, non è cosciente e forse per lui questa è una fortuna.



Il primario legge i referti mentre lui se ne sta col respiro pesante e la bava sul mento nel letto che aveva occupato solo qualche ora prima.



Poi lentamente riemerge alla coscienza.

Prima annebbiato, poi sempre più lucido.

E finalmente, uscito dalla nebbia dell’inconsapevolezza... VEDE.



E gli è chiara finalmente, l’essenza stessa dell’universo.








sabato 10 maggio 2025

La lepre che non voleva smettere di camminare

 






A quell’epoca la radio non trasmetteva a tutte le ore.

Giovanni, il padre di mio padre, quel nonno che non avevo mai conosciuto aveva raccontato quella storia a suo figlio e questi l’aveva passata a me, distratto da mille cose. Per me, inconsapevole ragazzino cresciuto all’età dell’oro fatta di certezze, scuola, cartoni animati, libri, compiti e fumetti, ascoltare di quel mondo alieno in cui la scuola era aperta a singhiozzo, quando non fischiavano le sirene dell’allarme, e si doveva raggiungere passando tra le macerie delle case bombardate, era fastidioso e imbarazzante. Provavo una certa vergona che mio nonno potesse avere patito freddo e fame e mi provocava rabbia riconoscere nel profondo un subdolo senso di colpa, io che colpe non ne avevo.

A quell’epoca la radio comunicava informazioni sulle varie battaglie vinte, sui metri di montagna conquistati dai nostri eroici giovani combattenti, sulle linee di sbarramento difese a prezzo della vita. Aveva raccontato il nonno con gli occhi di un undicenne. Lui in realtà si chiedeva cosa dessero da mangiare a quegli eroi, perché capiva che a pancia vuota si resta a malapena in piedi, figurarsi essere eroi. Così giovane la sua ossessione era mettere qualcosa sotto i denti e non si preoccupava delle bombe sganciate dagli aerei inglesi o dei camion tedeschi che periodicamente passavano giù nel paese a reclutare soldati sempre più giovani. Le armi erano state le prime cose a essere portate via dalle case, prima ancora delle galline e delle capre, prima ancora dei contadini e dei padri di famiglia. Nella loro cantina erano rimasti, nascosti sotto a vecchio legname marcio, alcuni sacchi di fagioli secchi e questo aveva rappresentato la sopravvivenza della sua famiglia durante quel freddo inverno. Fagioli a pranzo e fagioli a cena, se andava bene con mezza cipolla, con un filo d’olio più raccontato che versato. Ma nessuno osava lamentarsi, non lui, non Antonio, suo fratello maggiore che aveva scampato l’arruolamento perché zoppo dopo una brutta caduta dall’albero, non Francesco suo fratello più piccolo che forse la carne non l’aveva nemmeno mai conosciuta. Se almeno avessero avuto un fucile per poter cacciare piccoli animali, uccelli, lepri o qualsiasi forma animale si potesse arrostire sul fuoco. Solo l’idea faceva venire a quei ragazzini magri e pallidi un dolore alle mascelle. Avevano preso l’abitudine di masticare foglie e fili d’erba, per tenere la bocca impegnata in qualcosa, e bighellonare per il paese, rovistando nelle cantine delle case abbandonate. Se la loro madre lo avesse saputo, sarebbe stata la rovina, lei sapeva usare il vecchio battipanni sui loro fondoschiena con maestria e quando si arrabbiava, tirava fuori energie nascoste. Durante uno dei loro vagabondaggi, Antonio il maggiore aveva trovato un fuciletto a molla, poco più che un giocattolo e due scatole di pallini da venti grammi ancora buoni. Avevano trovato anche un arco e delle frecce, un autentico tesoro, ma l’elastico si era rivelato sfibrato e inutilizzabile. Erano tornati a casa pieni di eccitazione e di speranza, sarebbero andati a caccia e avrebbero procurato selvaggina per tutto il paese! Badarono bene a non dire niente ai genitori per paura di punizioni, al contrario furono servizievoli, andarono a prendere l’acqua alla fontana, Antonio andò nel bosco vicino a procurare un carico di legna da bruciare nel camino e Giovanni aiutò la madre a pulire la casa. Il loro padre, troppo vecchio per fare il soldato, girava tra le case e riparava finestre e serrature ma sempre più spesso le famiglie non avevano di che pagare e lui riparava lo stesso, dicendo senza crederci: quando potrete, mi aiuterete voi. La scuola era stata chiusa definitivamente, il maestro era partito al fronte e qualcuno andava raccontando che era stato ucciso. La madre di Antonio, Giovanni e del piccolo Francesco, pretendeva che i figli leggessero ogni mattina e ogni sera per mezz’ora prima di andare a dormire al lume di candela e smise quella richiesta solo quando le candele avevano cominciato a scarseggiare.

 

Una mattina Antonio mi disse di seguirlo, aveva raccontato il nonno Giovanni al mio babbo, e vidi che aveva il fucile sotto il cappotto. Lui camminava deciso e la neve nascondeva la sua zoppia, io seguivo la sua pista col fiato sempre più grosso e l’eccitazione crescente. Entrammo nel bosco imbiancato dal gelo e dalla neve e m’intimò di fare silenzio. Avevo le mani gelide e mi facevano male il naso e la punta delle orecchie. Mi accovacciai su una grossa radice e restai a guardare le nuvole di fiato. Lui si appoggiò su un masso in posizione di tiro. Passò tempo, minuti ghiacciati che s’infilavano sotto la pelle attraverso le scarpe vecchie come spilli ma non osavo muovermi. E finalmente successe qualcosa. Una forma grigia apparve incerta da dietro un albero. Antonio puntò il fucile e dopo un’attesa interminabile, durante la quale trattenni in respiro, tirò il grilletto e subito dopo ruppe il silenzio con un urlo feroce. Mi spaventò ma non lo confessai per non fare la figura del bambino piccolo e frignone. Urlò come dovevano avere fatto gli uomini di Neanderthal, urlò come un cacciatore che abbatte un rinoceronte che lo sta caricando. Urlò e il suo gridio fece alzare in un momento tutti gli uccelli del bosco. Per poco non mi alzai anch’io ma non avevo ali per fuggire, solo tanto freddo e tantissima fame. Antonio si mosse, fece i pochi passi che lo dividevano dall’animaletto abbattuto e lo sollevò dalla neve. Una lepre, anche bella grossa, disse trionfante. Con questa ci faccio un po’ di soldi e potrò comprare un fucile vero. Quella frase mi colpì come un pugno nello stomaco vuoto. Avevo sognato per un istante di cenare con tutta la famiglia, per una volta non attorno alla pentola di stufato di fagioli ma con arrosto di lepre nel piatto. A quanto pare mio fratello aveva progetti diversi. Disse che avrebbe nascosto la bestiola sotto la neve e così fece, segnando un simbolo sulla corteccia dell’albero per ritrovare la sua preda. Mi disse di non dire niente a nostro padre, di giurare ed io dovetti trattenere le lacrime di rabbia che mi avrebbero tradito. Tornati a casa, corsi da mio fratello più piccolo e gli raccontai tutto per sfogarmi. Gli dissi che avrei rubato il coniglio e che lui avrebbe dovuto aiutarmi. Un’ora dopo eravamo sotto l’albero con il segno e scavando nella neve rubammo il nostro tesoro. Lo nascondemmo pochi metri più avanti, sempre seppellendo il coniglio sotto la neve e mettendo delle assi per ritrovare il luogo. Volevo mangiare quel coniglio, inoltre con un fucile mio fratello si sarebbe messo nei guai ed io non volevo che morisse. Devi sapere, proseguì a raccontare mio nonno a suo figlio, che il mio fratellino aveva un compagno di scuola, Angelo credo si chiamasse, e Angelo era orfano di padre e aveva un fratello grande che combatteva da qualche parte del mondo e non si sapeva se fosse ancora vivo.  Angelo viveva con sua madre in una catapecchia fredda, in condizioni estreme. Quando andai da solo a recuperare la lepre e sotto le assi trovai solo neve smossa da piccole mani, dovetti avere la stessa stupida espressione che ebbe Antonio quando non trovò la lepre sotto al suo albero. Quella lepre era più veloce e aveva percorso più strada da morta che da viva. Non potevo denunciare il nostro fratellino, ero certo che avesse voluto aiutare il suo amico e poi nostro fratello Antonio lo avrebbe picchiato. Così tornai a casa senza sapere se ridere o piangere per tutto l’accaduto. Persi tempo e quando rientrai, stava facendo buio, entrai e fui investito da un odore inebriante che innescò una salivazione dolorosa e inarrestabile. Carne cotta. In cucina affaccendate e maniacali due donne si alternavano, mia madre e la madre di Angelo, gridavano e si muovevano in un vortice frenetico ma a vederle mettevano felicità. Comandarono di mettersi tutti a tavola e servirono la cena. Arrosto di selvaggina!

 

Al mio babbo s’inumidivano gli occhi, come ogni volta che raccontava qualcosa riguardante suo padre e i vecchi tempi della guerra. Questa volta il suo racconto era riuscito ad affascinarmi e a catturare la mia attenzione. La lepre che continuava a spostarsi e a cambiare nascondiglio era stata esilarante ma la tenerezza per il gesto di condivisione di quella gente che non aveva niente ma quel niente lo divideva tra vicini, era stata toccante.

Mi chiedo se oggi saprei fare lo stesso.

Sentii che mi mancava quel nonno.

Ero certo però, che qualcosa di lui viveva ancora, dentro di me.





sabato 22 marzo 2025

Se è destino, verrà come un vento

 






Come aveva fatto a finire in un letto d’ospedale, Ludovico non sapeva dirlo.

Tutto ciò che sapeva, era che gli facevano male tutte le ossa. E aveva un dolore lancinante alla nuca, come se qualcuno stesse spingendo con un trapano per bucarla. Anzi con un martello pneumatico. Inoltre aveva la bocca secca e amara e un bruciore intenso al pisello.

Provò a muovere le gambe ma il bruciore crebbe, allora tastò con le mani sotto le lenzuola e scoprì che gli avevano infilato un tubicino per farlo urinare.

Gli venne una gran voglia di piangere.

In quella stanza pervasa dal buio, rotto solamente da una tenue luce notturna, e invasa da odori sconosciuti e penetranti, Ludovico sentì freddo e paura. Si sentì solo.

Aspettò per un tempo lunghissimo, annegato da pensieri ossessivi e pesanti come macigni che qualcosa accadesse. E qualcosa accadde.

La figura di donna, candida come neve, apparve sulla soglia.

Lei si accorse che l’uomo nel letto era sveglio e si avvicinò per poggiare una mano sulla sua fronte.

Buona sera, o dovrei dire buongiorno, perché sono le tre del mattino… come si sente?

Ludovico trovò quella voce dolce come il miele e vellutata come il suono di un flauto traverso suonato con maestria. Scordò per un momento il dolore, il bruciore, lo spavento e la disperata sensazione di abbandono.

Bene, ora che c’è lei mi sento bene, per favore non se ne vada…

La donna agì veloce e silenziosa, com’era abituata a fare durante i suoi turni di notte. Rilevò parametri vitali, polso, pressione, temperatura, mise una garza pulita sulla testa di Ludovico, vuotò la sacca danese, tutto questo con un’eleganza impressionante e senza mai perdere il sorriso.

Ludovico capiva che l’infermiera sarebbe passata in tutte le stanze del reparto per ripetere quei gesti e già sentiva il vuoto crescere dentro per la sua assenza.

Non se ne vada… provò a rilanciare ma sentiva che la sua richiesta non avrebbe potuto essere evasa.

Lei lo stupì, prese una sedia e si accomodò accanto al letto.

Non deve agitarsi, ha subito un brutto trauma e deve riposare. Andrà tutto bene. È solo, piuttosto non vuole che appena farà giorno, avvisiamo qualcuno?

No, non ho nessuno. Ma ora non più, c’è lei.

La donna sorrise. Scostò la sedia, scrisse qualcosa sulla cartella e si congedò. Verrò a ricontrollare tutto ancora una volta e poi, a fine turno verrò a salutarla.

Non si dimentichi…

Non lo farò, rispose lei. E uscì dalla stanza.

Ludovico si addormentò. Nonostante il dolore, nonostante la paura, nonostante la sensazione d’abbandono. Lei fu di parola, tornò due volte e fu così silenziosa e leggera che lui quasi non si accorse. Ma si accorse quando venne per il saluto, come aveva promesso, lei lo salutò dalla porta e lui avrebbe voluto saltare fuori dal letto e correre ad abbracciare quella donna, per avere la conferma che si trattava di una persona reale e non di un essere luminoso e incorporeo ma si dovette accontentare, per quel giorno di alzarsi non se ne sarebbe parlato.

Ludovico non si alzò ma partecipò a diverse amene attività. Fu accompagnato in TAC ed essere portato, dentro il suo letto, in giro per i corridoi dell’ospedale gli diede le vertigini e aumentò la sua nausea latente. Poi fu visitato dal tirocinante, dopo fu visitato dall’assistente, infine fu visto dal primario. Gli diede un senso d’importanza ma a riflettere bene lo preoccupò non poco. Gli fecero visita anche le forze dell’ordine, avendo avuto il nulla osta da parte dei medici. A quanto pare era stato investito da un’auto ma era forte il sospetto che non fosse stato un incidente fortuito. Il tizio alla guida voleva mandarlo in ospedale o addirittura lo voleva morto. Ma perché? Ludovico si era sentito raggelare alla spiegazione dell’agente e non poteva credere all’ipotesi che qualcuno volesse il suo male. Gli fecero un nome che subito non gli disse niente, tale Pasquale Gradazzo, ma Ludovico non ricordava nessuno con quel nome. Gli chiesero se conoscesse la moglie del tale, ma lui negò. Se solo avessero mostrato una foto di quelle persone, ma non fu così. A dire il vero Ludovico alla vista della foto della signora Gradazzo avrebbe riconosciuto quella gentile giovane alla quale teneva sempre la porta dello stabile, che aiutava quando lei era piena di pacchi, cui una volta aveva raccolto un fiore del giardino sotto casa. Ludovico era fatto così, era un tenero romantico e la ragazza con quei profondi occhi neri lo turbava, sebbene lui non sapesse niente di lei. Gli piaceva attardarsi quando sentiva i suoi passi, solo per poterla salutare, solo per ricevere il suo sorriso sincero. A essere turbato da quelle piccole attenzioni era stato quel poco di buono del marito che ora si era guadagnato un arresto per lesioni personali gravi che avrebbero portato a un procedimento penale. A sentire tutte quelle cose, Ludovico era stato male, vomitò e gli salì la febbre. Intervenne il personale e Ludovico fu lasciato tranquillo a riprendere il suo percorso di guarigione.

Quella sera al cambio turno arrivò l’infermiera della notte precedente. Si era sciolta la coda di cavallo ed era bellissima. Si soffermò nella stanza di Ludovico e chiacchierarono di ciò che era successo quel giorno. Miranda, questo era il suo nome, si era spaventata dall’evento e gli disse che avrebbe dovuto essere cauto quando fosse stato dimesso. Lei stessa in passato aveva subito gli atti aggressivi di un ex violento ma era storia finita. Lui le chiese se ora fosse libera e lei rise imbarazzata, ma non negò. Il seguito del turno la vide in un atteggiamento neutro e professionale ma andò spesso a controllare quel paziente fragile.

Credi nel destino? Sussurrò lei in un orecchio di Ludovico prima di finire il turno. A lui era aumentata la frequenza e se avesse avuto un monitor collegato, sarebbe partito l’allarme. Riuscì solo a rispondere con voce flebile una frase che aveva letto in un libro. Se è destino, verrà come il vento e i tuoi progetti faranno la fine di un fienile nella tempesta. Non riuscì a dire altro perché lei gli carezzò con tenerezza il dorso della mano e uscì. Stava succedendo qualcosa che Ludovico non capiva e quella notte la passò ad ascoltare il suo battito cardiaco.

Lentamente si riprese e il decorso fu regolare, non si parlava ancora di dimissioni ma il dolore era accettabile e Ludovico si fece portare un libro. La terza notte Miranda non era in turno, lui chiese di lei e le maliziose colleghe lo canzonarono. Lui passò la notte a leggere ma in testa e nel suo cuore c’era ben altro.

Passò una settimana dal suo ricovero, non rivide l’infermiera Miranda ma rincontrò un agente che gli disse di passare in stazione quando sarebbe stato dimesso, per verbalizzare la denuncia. Infine fu dimesso con un vistoso turbante di garze.

Quando, dopo qualche giorno, si dovette recare in ospedale per il controllo, comprò un mazzo di rose e uscì. Davanti al portone incrociò la bella moglie di Gradazzo, lei sussultò ma Ludovico nemmeno si accorse e tirò dritto per la sua strada.

Avrebbe parlato con la sua infermiera o le avrebbe lasciato i fiori. Lei avrebbe deciso cosa fare. Dopotutto, come citava il suo libro preferito, il destino è come un vento.

Ludovico avrebbe lasciato le finestre aperte in attesa del suo.

 


sabato 15 febbraio 2025

A passo lento

 






-Cos’hai oggi? Mi sembri giù di corda.

Iacopo guarda l’amico attraverso il calice di Spritz e ghiaccio e si diverte un poco a vederlo colorato di arancio. Anche di quel colore all’amico non sfugge niente, pensa.

-Hai finito di osservare il mondo attraverso il bicchiere e mi racconti cosa non va?

Iacopo apprezza i modi sbrigativi dell’amico, lui non è mai riuscito a essere così diretto, così incisivo. Lui è uno che la prende larga, che riflette. È sempre stato quello che pesa le parole, che predilige la diplomazia. Ha bisogno di qualcuno che ogni tanto gli dia una pungolata e non stia troppo a tergiversare.

-Solite cose, problemi di lavoro…

-Iacopo finiscila, i problemi di lavoro non esistono!

-Che cosa stai dicendo Willies! Non è così bravo Iacopo a recitare la parte del fratellino Arnold nella famosa sit-com americana ma ci prova ugualmente.

-Semplice, dico che sul lavoro si cercano le soluzioni. Quando queste si trovano, il problema scompare. Quando non si trovano, si continua a lavorare su ipotesi risolutive finché non è dimostrato che la soluzione non esiste e allora si passa a qualcos’altro e quel problema scompare.

-Mi sembra molto orientale la tua filosofia…

L’amico ignora Iacopo e continua.

-L’unico problema che esiste nelle organizzazioni lavorative è quello che nasce dalle relazioni umane, dai rapporti tra le persone. Invidie, gelosie, comunicazioni distorte o ambigue, leader ufficiosi, capi inadeguati, dispetti puerili, relazioni sentimentali, molestie e altre amenità del genere.

-Mi sembra che tu stia semplificando troppo…

-Certo, mica abbiamo tutto il giorno, dopotutto ho quasi finito il mio Spritz, quindi o ne ordiniamo un secondo o la discussione termina qua.

Compare dal nulla il cameriere e ordinano il secondo giro.

I due giovani gustano e sorseggiano in un silenzio che parla di approvazione. Forse una gradazione alcolica eccessiva ma nessuno dei due si lamenta.

Iacopo si sforza di spiegare.

-Mi sembra che si vada a diverse velocità. Ho la sensazione, anzi la certezza, che si siano formati sottogruppi che non comunicano tra loro e che questo generi contrasti interni.

Iacopo guarda l’amico finché questo non si decide a parlare.

-Non crederai davvero di poter risolvere da solo tutti i problemi di un’organizzazione? Fammi il piacere, finisci il tuo aperitivo e non ci pensare. Sarebbe più facile travasare il mar Ligure nel bacino Adriatico usando un bicchierino di carta!

-Tu quindi, come la vedi?

-Hai presente i gruppi di cammino?

-Noi siamo andati tante volte a camminare off road…

-No, Iacopo, stammi a sentire. I gruppi di cammino sono un'altra cosa, deve esserci un leader aiutato almeno da altri due facilitatori. Il leader si mette in testa e tiene il passo adeguandolo a quelli più allenati e veloci, il secondo sta nel mezzo a controllare il passo di chi segue e il terzo chiude il gruppo prestando attenzione che non si perda nessuno lungo il cammino...

Iacopo sembra perplesso.

-Questo però non impedisce al gruppo di disgregarsi e frammentarsi.

-Vedi Iacopo, il leader deve tenere presente due cose. Per primo: che chi resta nel gruppo di mezzo non si senta secondo e meno importante di quelli che guidano e sono più veloci e resistenti e che quelli nel gruppetto di coda non si sentano mai abbandonati. Secondo: è fondamentale che tutti conoscano in anticipo il percorso che si vuole fare e la meta da raggiungere, in questo modo nessuno ha bisogno di vedere chi è davanti per trovare la strada. Inoltre ha dietro un facilitatore che lo incoraggia a proseguire fino all’arrivo andando alla sua velocità che, anche se è lenta, per qualsiasi ragione, è quanto di meglio possa fare.

Iacopo guarda l’amico come se lo vedesse per la prima volta.

-Mi stai dicendo che non è un problema se si va avanti a diverse velocità?

-No ma solo se tutti sanno bene e hanno condiviso dove si sta andando. E per di più, a mano a mano che il gruppo cammina assieme, quelli che sono più veloci e che in un primo momento tendevano a voler primeggiare, finiscono per senso di responsabilità, ad aiutare chi va più lentamente.

Iacopo ora sorride, mentre continua a osservare il cielo arancione dietro il vetro del proprio bicchiere.

-A cosa pensi ora, Iacopo?

- Che forse hai ragione, non c’è niente di male a procedere ognuno alla velocità che si vuole quando è chiara la meta.

Finiscono l’ultimo sorso.

-E ora, cosa pensi di fare?

-Penso che continuerò a procedere come ho sempre fatto, a passo lento e misurato.

I due si salutano, si alzano e lasciano le loro sedie e Iacopo si dirige verso casa.

Come sempre.

A passo lento.





sabato 1 febbraio 2025

La mia armonica

 





Ho un’armonica a bocca ma non la suono mai.

Prende polvere nel cassetto, sotto le calze e quando lo apro, faccio finta di non vederla.

Credo sia in tonalità di DO ma non ne sono sicuro. Quello di cui sono sicuro è che la suonerei tutte le sere, se vivessi in un altro dove e in un altro quando.

E mi piacerebbe, quanto mi piacerebbe.

Me ne starei seduto sul porticato di legno davanti casa, a godermi il fresco e a guardare la luce del giorno che lenta lascia spazio al nero della notte, passando per tutte le tonalità dell’arancione, del viola e del blu.

Farei risuonare la voce aspra dell’armonica e farei abbaiare i cani dei vicini.

Guarderei la polvere della giornata, depositarsi lenta sulla strada e sui cespugli. Farei cigolare la sedia a dondolo per interrompere quello scricchiolio e il suono dell’armonica solo per sorseggiare il rum contenuto nel bicchiere scheggiato poggiato sul pavimento.

Lo so, è la classica visione romantica dei primi coloni nei territori del west, che tanti film ci hanno proposto ma che ci volete fare, Sergio Leone impera nell’inconscio collettivo e non solo lì.

La mia armonica.

Vorrei averla se vivessi nel diciannovesimo secolo in una cittadina fondata dove prima c’erano solo prateria e bisonti e rapaci arrivati dalle vicine montagne in cerca di cibo.

Naturalmente vorrei anche avere una colt calibro quarantacinque sei colpi nella fondina e una carabina Winchester, poggiata sulla parete di casa, proprio alle spalle della sedia a dondolo, una discreta assicurazione sulla vita in un posto dove mancano molte cose ma soprattutto è assente uno sceriffo.

Perché una cittadina porta tante cose, una ferrovia in costruzione, luoghi di ristoro, scambio e commercio tra le persone, affari. E porta tanti soldi. E i soldi portano anche ladri e truffatori. Gente cui piacciono l’alcool, le donne, il poker e soprattutto piacciono proprio i soldi, tanti, fatti senza dover passare la giornata a sudare vangando e zappando il campo o trasportando merce pesante sulla schiena.

Le strade fangose, le costruzioni di legno che presto saranno banche, alberghi e mercati e saloon attirano le persone come il miele fa con le mosche e la ferrovia, appena terminata, trasformerà questo piccolo agglomerato di contadini in una città viva e fiorente.

Meglio essere armati, non c’è dubbio.

Mi rendo conto di stare raccontando una serie di luoghi comuni che tutti conoscono e hanno ben presente a causa dei film, dei romanzi, dei telefilm come si chiamavano una volta e delle serie televisive, come si chiamano oggi.

Tutti abbiamo ben presente l’immagine del pianista del Saloon, con i suoi occhialetti tondi da miope, chino sulla tastiera a leggere spartiti e a evitare bicchieri volanti e proiettili vaganti. Tutti abbiamo sognato la bellissima ma poco raffinata e pure avanti con gli anni maitresse, avanzare provocante e procace con una sottile sigaretta fumante stretta tra le dita guantate. Tutti conosciamo il barbiere del posto, con lacci a reggere le maniche della camicia bianca che alterna con eguale destrezza rasoi da barba a pinze cavadenti e tutti abbiamo ben presente il tizio vestito di nero che passa a prendere le misure a clienti senza più un alito di vita, riconosciamo il gringo messicano dal sombrero e dal poncho, sappiamo che un fazzoletto davanti alla faccia serve a non mangiare la polvere durante una galoppata ma è buono anche per assaltare e rapinare una diligenza.

Sappiamo bene quando il baro sta per tirare fuori l’asso dalla manica, lo tradisce un guizzo del muscolo facciale e capiamo in anticipo quando il pistolero sta per premere il grilletto in un duello. Conosciamo il suo sguardo, lo leggiamo nei suoi occhi.

Ecco perché mi piacerebbe essere armato.

Quello che non mi spiego è perché dell’armonica.

Forse perché non posso fare a meno della musica e di uno strumento che possa riprodurla, anche in un posto così duro.

Forse perché penso che sia questo a distinguerci nel mondo animale tra le altre mille caratteristiche che al contrario rendono gli animali migliori di noi.

Forse perché vorrei vivere in un luogo che mi permettesse di suonarla seduto sul porticato di casa invece di trascorrere le serate a inebetirmi davanti uno schermo.

Tutte queste cose, di certo.

Allora meglio smettere di sognare.

Vado in camera, apro il cassetto.

Tiro fuori l’armonica dalla custodia.

Mi verso un dito di rum.

Mi siedo sulla sedia a dondolo e soffio nello strumento.

I cani del vicinato iniziano il loro concerto.




domenica 12 gennaio 2025

L'uomo che sapeva le cose

 





Cima sghemba non è il vero nome della montagna, anche se tutti la chiamano così da sempre.

L’ultimo paese, prima che la strada asfaltata si trasformi in una sterrata pietrosa, è costituito da una manciata di case, sparpagliate sul versante come formaggio sulla pasta.

È lì che vive Hidalgo, da sempre stando alla memoria storica dei paesani. Dal dopoguerra raccontano i pochi altri anziani. Nel paese sono quasi tutti anziani ma qualcuno lo è di più.

Hidalgo è una specie di eremita, che si fa portare le scorte di cibo e se le fa lasciare nel capanno del giardino. Paga tramite la banca e sembra non avere contatti, che non siano occasionali, con altri esseri umani da anni. In giro si dice che era un nobile portoghese, scappato dal suo paese durante o poco dopo la guerra per non essere arrestato dopo un duello a fuoco finito male. Per l’altro, ovvio.

Qui in giro è conosciuto come l’uomo che sa le cose.

Seppe dire dove si erano perse le gemelle di sette anni, sottratte alle attenzioni della madre durante una gita nei boschi. Le avevano cercate ovunque ma non dentro la grotta dove si erano nascoste, spaventate dai versi degli animali, e qualcuno era salito alla cascina di Hidalgo pensando che l’uomo potesse indovinare il posto.

Seppe raccontare dove si era rifugiato l’ex assessore, fuggito con il tesoretto del comune, e pensionato temporaneamente con un documento falso, da un affittacamere con pochi scrupoli, sul lago d’Orta. Lo avevano ritrovato i carabinieri mentre si radeva la barba e sperava di attraversare il confine con la Svizzera.

Aveva rivelato che il giovane garzone scomparso da qualche giorno, non era scappato con la fornaia del paese vicino ma si trovava, cadavere, nel canale dietro la falegnameria, cadutoci dopo l’incidente sul lavoro e in cui era morto dissanguato.

Naturalmente gli scettici non credevano alla capacità del vecchio di conoscere le cose ignorate dagli altri e lui non aveva il minimo interesse a fare sì che gli altri credessero.

Un giorno il mio amico Giovanni andò a bussare alla porta di Hidalgo.

Giovanni era triste e disperato. La madre era ammalata e i medici volevano tentare una nuova linea di chemioterapia e chiedevano il consenso. La donna soffriva e lui non sapeva cosa fare.

Sulle prime Hidalgo era restio a far entrate il mio amico, poi decise di ascoltarlo.

La casupola, che sembrava in pessime condizioni vista dall’esterno, dentro era riscaldata da un bellissimo camino. Le pareti erano ricoperte da libri e mappe geografiche. Sul tavolo di legno massiccio c’erano una tazza piena di latte e un pesante tomo di astronomia.

Giovanni restò sorpreso ma opportunamente non fece commenti.

“Sono qui perché mia madre è grave, lei forse non è a conoscenza della cosa.”

“In questo posto sono poche le cose degli altri che non conosciamo.” Rispose Hidalgo tranquillo, riprendendo a sorseggiare il suo latte.

Giovanni prese a raccontare tutte le fasi della malattia che sua madre si portava addosso ormai da più di un anno. Poi gli spiegò quello che avevano proposto gli specialisti dell’ospedale in città.

“Io non voglio che muoia.”

“ Quello che vuoi tu non è importante, quello che vuoi tu non conta più di una cacca di mosca!”

Giovanni sgranò gli occhi per lo stupore, mai si sarebbe aspettato una risposta simile. Poi il vecchio riprese a parlare.

“ Vedi, quello che è importante è la volontà della persona interessata. Gli esseri viventi non possono tollerare, sentono come un’aberrazione, lo stato di malattia. Il corpo fa di tutto pur di liberarsene, finché non ci riesce, mettendo in campo qualunque strategia, utilizzando ogni risorsa. E per liberarsi da una malattia, per quanto grave, ci sono solo due modi: guarire o morire.”

Giovanni ora era atterrito dall’affermazione del portoghese.

“Sì, ma io non voglio, non accetto che mia madre morirà…”

“Quello che tu vuoi, che tu sei in grado o meno di accettare è un problema tuo, che ti suggerisco di affrontare prima e meglio possibile, non suo. Che tu accetti o no non cambierà le cose. Fai in modo di lavorare su te stesso e provvedi a che lei non debba soffrire più del necessario e che il suo ultimo tempo su questa terra sia sereno e agevole.”

“Come?”

“Come non posso dirtelo io, ognuno trova il suo modo. Qualcuno studia, altri parlano con specialisti, chi prega. Tutto quello che ti occorre per vivere nella maniera migliore ogni fase della vita, è ben accetto.”

Hidalgo si mise in piedi.

Giovanni capì che quello era un commiato.

Mentre salutava e usciva dalla casa del portoghese, per non ritornarvi più, era stato pervaso da una sensazione che subito aveva scambiato per delusione.

Questo sarebbe l’uomo che sa tutte le cose? Non mi ha detto molto, anzi non mi ha nemmeno saputo dire se mia madre ce la farà…

Poi la sera ebbe modo di riflettere.

E capì che non era quello il punto.

Avrebbe trovato la forza, da qualche parte avrebbe trovato il coraggio e, grazie alle parole di Hidalgo, avrebbe provato a essere un buon sostegno per la madre malata.

Nessuno poteva sapere tutte le cose. Nemmeno un vecchio portoghese.

Dopo qualche tempo la madre di Giovanni ci lasciò. Qualcuno mi disse che negli ultimi mesi la donna ebbe molte occasioni per sorridere e a volte rise di gusto.

Il mio amico aveva trovato il modo.

Forse il vecchio portoghese non sapeva tutte le cose, ma molto sì.