sabato 29 novembre 2025

LUOGHI INSOLITI in cammino con Giorgio Papa: Sebastiano, l'ultimo poeta

LUOGHI INSOLITI in cammino con Giorgio Papa: Sebastiano, l'ultimo poeta:   Sebastiano lo ricordo bene. Viveva nel piccolo appartamento sotto al mio, già a quei tempi aveva più di settant’anni. Sebastiano usciv...

Sebastiano, l'ultimo poeta

 





Sebastiano lo ricordo bene.

Viveva nel piccolo appartamento sotto al mio, già a quei tempi aveva più di settant’anni.

Sebastiano usciva poco, una volta di sabato per fare la spesa, occasionalmente per i controlli dal medico. Non ricordo ricevesse mai visite, ma non sono il tipo che si è mai fatto gli affari dei vicini.

Lo vedevo dal terrazzino, che utilizzo ancora oggi come rifugio per le mie letture, mentre usciva in balcone per innaffiare i gerani e in quelle occasioni scambiavamo le nostre rade parole.

Anche se brevi dialoghi, avevo sempre la sensazione di essere più ricco, rientrando in casa.

Non mancava mai di farmi notare la fragranza e il tepore dell’aria all’inizio della primavera o di condividere la bellezza delle diverse tonalità dell’indaco, poco prima del tramonto.

Una volta mi disse che non avrebbe sopportato il buio della notte senza prima gustare la tavolozza di colori preparata dalla natura, quando il sole andava a ristorarsi nei mari del sud.

Fu da quel momento che iniziai a riportare le considerazioni di quel vecchio su di un quaderno, che ancora oggi conservo con cura.

Anche perché Sebastiano non avrebbe potuto.

Non sapeva scrivere.

Appena si accorse che ero il tipo di vicino discreto, educato e rispettoso, iniziò a scambiare qualche frase, non mi risulta avesse altri contatti nel condominio.

Un giorno venne da me, si scusò molte volte per il disturbo ma aveva ricevuto una lettera dalla banca e dovette confessarmi, pieno di vergogna e rosso per l’imbarazzo, che ne riconosceva il logo ma che non era in grado di leggere e capire quello che c’era scritto. Provò anche a spiegarmi, a giustificare la sua “debolezza”, come la definiva lui, derivante dal fatto di avere frequentato la scuola fino alla seconda elementare ma che dopo suo padre lo aveva costretto a lasciare perché era necessario il suo aiuto al lavoro nei campi e lo aveva ritirato dalla scuola “come si ritira un pacco alle poste” e quello che aveva imparato era considerato poco importante dalla sua famiglia. Chiaramente nella sua casa non vi era presenza di alcun libro né transitavano giornali e lui non aveva potuto conservare molto di quell’alfabeto che prometteva di contenere mille e mille mondi che anche se lui bramava non avrebbe mai visitato.

Dopo quel giorno gli offrii il mio aiuto ma lui approfittò ben poche volte. Con le bollette se la cavava, i numeri sapeva usarli e faceva i calcoli a mente. Conosceva alcune opere classiche perché amava il teatro, c’era stato tante volte con sua moglie e ora che era rimasto solo, ascoltava tutti i programmi radiofonici che mettevano in programmazione racconti. Mi sono chiesto più volte, col senno del poi, come avrebbe reagito se avesse saputo dell’universo di internet e dell’esistenza dei Podcast… ma Sebastiano era uomo di altri tempi e l’offerta esistente gli bastava.

“Ma tu li hai mai visti i colori del paradiso?” Mi chiese un pomeriggio afoso di un’estate caldissima. Ero seduto in balcone a tentare di leggere Viaggio al termine della notte ma faceva caldo anche dentro il romanzo e mi veniva sonno. La voce di Sebastiano mi colse e mi strappò dal sopore. “Quali sarebbero i colori del paradiso?” Mormorai confuso e lui continuò come se parlasse più a se stesso che a un'altra persona.

“Il nero profondo degli occhi di una donna che ti ama, che diventa brillante quando ti guarda ma che se non fai attenzione si tramuta nel nero di un pozzo in cui cadere e perdersi per sempre, il blu del mare in lontananza che senza che ti accorgi si fonde con il colore del cielo quando scende la notte, il verde delle foglie in primavera, brillante più di mille smeraldi e il bianco accecante, che taglia come una lama, dei raggi del sole che passano attraverso le foglie e ti feriscono gli occhi… nessun quadro contiene questi colori”

Stavo per rispondere una stupidaggine come, dovresti scrivere queste considerazioni ma mi fermai in tempo, mi sembrò comunque che il silenzio avesse trasmesso il messaggio con dolorosa puntualità.

E dopo il silenzio, lui proseguì.

“E la senti la musica? Il suono regolare e maestoso dell’universo che si muove e ruota tutte le cose? Il rombo del nostro pianeta che sfreccia nel vuoto assieme agli altri, con il sole e tutte le altre stelle che viaggiano verso chissà cosa? Lo senti nel cuore della notte, quando sembra tutto immobile e silenzioso e quel rombo muto è così spaventoso? Non dirmi che non lo senti?”

Invitai Sebastiano a salire per bere un tè ma lui rifiutò, mi disse che gli dispiaceva avermi disturbato e che sarebbe rientrato per godersi il fresco della sua cucina.

Una sera, mentre irrigava i fiori e staccava minuscole foglioline secche dalle piantine, mi vide, alzò l’indice ad ammonirmi:

“Non posare mai nemmeno un dito su un essere vivente, se non per una carezza e se tendi la mano che sia solo per aiutare l’altro a rialzarsi dopo una caduta.”

Avrei risposo di sentirmi una persona mite ma lui non mi lasciò il tempo di aprire bocca, perché continuò.

“Gli uomini che colpiscono una donna o un bambino sono i più perduti, sono condannati perché camminano su questa terra ma in realtà vivono già all’inferno, e questo cerca di invadere il mondo attraverso di loro. Non basterebbe un oceano di lacrime per chiedere pietà di certi gesti”

Mi colse alla sprovvista, capii la sera, vedendo il notiziario e sentendo annunciare l’ennesimo caso di violenza.

Ha ragione Sebastiano, non basterebbe un oceano di lacrime a chiedere pietà.

 

Sono passati tanti anni, ci sono momenti in cui mi manca quel bizzarro vecchio del mio vicino.

Ora nell’appartamento sotto, sono venuti a vivere due giovani, lui barba rada sul mento e un sorriso contagioso, lei capelli rame e un’aria bambinesca con un miliardo di efelidi.

Sono chiassosi e divertenti, salutano con trasporto e la notte non s’imbarazzano a farsi sentire quando fanno l’amore.

Hanno portato gioia, anche se non tutti apprezzano.

A Sebastiano sarebbero piaciuti.

Chissà, forse anche a loro sarebbero piaciute le storie che mi raccontava quel vecchio poeta, strambo e saggio allo stesso tempo.

Quel vecchio analfabeta, che mi ha insegnato che non basta guardare ma occorre vedere, che non è solo sentire ma ascoltare e capire.

Sebastiano che quando raccontava, dipingeva.

Quel poeta che non sapeva scrivere ma con le parole ti entrava dritto nel cuore.

Proprio come fanno i poeti.

 

 

 




sabato 15 novembre 2025

Raul torna indietro

 





“Hai portato le scarpe a riparare?”

“Ricordati di andare a prendere mia madre alla stazione!”

“Ancora le calze nere nel bucato bianco! Ma non impari mai?”

“Di nuovo questi biscotti. Perché compri sempre questi biscotti, lo sai che non mi piacciono…”

“Non possiamo passare tutti i sabati sera a casa!”

Questa era sua moglie Clara. Questa era la routine di Raul. Non ci si abitua a tutto? Raul, trent’anni, da dieci impiegato di un’importante assicurazione con sede in centro e come direttore il prestigioso suocero, l’ingegner Rinaldi, affettuoso padre di sua moglie Clara, autrice delle “attenzioni” sopra citate verso il proprio maritino.

Rinaldi non era meglio, negli ultimi diedi anni la frase più gentile che aveva rivolto al genero, era stata: Il nome Raul da chi è ispirato? Orchestra Casadei? Dovresti darti al clarinetto… e giù una grassa risata, condita da esplosioni di tosse, tipici del fumatore di sigaro.

Raul mandava giù di tutto.

Per mantenere saldo il matrimonio, per non perdere un lavoro di cui aveva bisogno. Per… non sapeva nemmeno più lui perché lo faceva. In dieci anni mai un ritardo, mai un’assenza, una sbavatura. Scrivania in ordine, pratiche evase e archiviate nei tempi e nei modi corretti. Ma nemmeno un’alzata d’ingegno, un segnale di creatività, un contratto fuori dell’ordinario. Insomma tutto lavoro eseguito nell’anonimato e all’insegna della mediocrità. Mediocre come solo può essere un’ex promessa dello sport, il talento del pattinaggio, una promessa non mantenuta. Come tante altre promesse…

Raul aveva capito presto che l’atteggiamento più importante verso suo suocero, era non strafare, non tanto perché l’altro non accettasse errori ma perché non tollerava chi dimostrava più brillantezza e un’intelligenza superiore.

A casa era anche peggio. Sua moglie Clara pretendeva cene eleganti e regali costosi, a lui piaceva la pizza mentre lei preferiva i ristoranti stellati, lui una passeggiata sul lungomare, lei le piste da sci.

Raul sapeva una cosa che lo teneva sveglio quasi tutte le notti. Troncare con quel surrogato di matrimonio, che lo stava lentamente soffocando, sarebbe stato l’equivalente di farsi dare un calcio sul sedere dal Direttore, che lo avrebbe spedito dalla sua scrivania direttamente in mezzo a una strada.

Non una strada qualunque, no, l’autostrada a sei corsie diretta alla miseria e alla rovina.

A tutto questo stava pensando quella sera di metà autunno mentre tornava a casa in bici. Quella sera c’erano ancora sedici gradi e si sentiva accaldato e per questo non aveva indossato in caschetto.

La ciclabile attraversava un boschetto di Tigli che di giorno produceva una gradevole ombra e la sera il viottolo diventava buio e nero. Raul pedalava veloce pensando ai fatti suoi e la distrazione non gli fece vedere il ramo che invadeva la pista, all’altezza della sua fronte.

Passanti, poco lontano sentirono un cozzo e corsero vedendo le lucette di una bici, abbandonata di traverso sulla strada. Nessuna traccia del ciclista…

 

“Raul, Raul… sveglia, come stai?”

La voce è di un ragazzo, e, infatti, il giovane avrà massimo diciassette anni.

“Non saprei, che male… cosa è successo?”

Raul si porta la mano alla fronte e tocca qualcosa di ruvido che non è altro che un turbante di garza.

“Non ricordi? Sei caduto facendo lo scemo sui pattini e hai battuto la testa!”

Sandro guarda stranito Raul e pensa che la botta in testa abbia peggiorato il suo amico, già strambo di suo… Raul si guarda le mani e strabuzza gli occhi, sono magre e senza peli, e soprattutto manca l’anello. Prova così a chiedere all’amico: “La mia fede?” Sandro per poco non si strozza con l’aranciata che sta bevendo. “Ma sei diventato matto? Quale fede, ma credi di esserti sposato stanotte, in ospedale? E chi, l’infermiera?” Poi ride sguaiato.

“Sei ricoverato, sei stato un giorno privo di sensi, guarda, ci sono ancora i pattini sporchi di fango nell’armadietto, anche se tuo padre ha detto che te li butta.”

Detto questo apre l’armadietto e indica i pattini a rotelle di Raul.

Raul chiude gli occhi, li stringe ma il dolore alla testa gli impedisce di capire qualcosa, poi spossato, si riaddormenta. Sogna Raul, nel suo dormire sudato e sofferente. Ma non era autunno? Si chiede nel sogno, ma non ero sposato e non stavo pedalando? Per andare dove, poi non ricorda bene, è come se tutto appartenga a immagini oniriche, prodotte dalla sua testa conciata male, forse dal suo bernoccolo. Ma mi sono fatto male cadendo con i pattini o da una bici? Raul non può rispondere, perché il suo sogno confuso lo porta da un'altra parte, è vecchio, ora, sposato con una donna che non lo sopporta e lo maltratta, e lui non capisce perché non ha fatto carriera nello sport poiché tutti puntano su di lui per portare a casa qualche medaglia.

La sua società sportiva è orgogliosa delle gare cui partecipa e dei trofei che conquista e il suo allenatore gli confida che lo vorrebbe vedere alle Olimpiadi.

Dopo qualche ora si risveglia. È comodo quel letto d’ospedale e si sente meglio, tanto che passa un medico e gli anticipa che l’osservazione sta terminando e presto potrà tornare a casa.

Raul si osserva le mani, il torace glabro e ossuto e non riesce a capacitarsi. I suoi ricordi sono confusi. Poi riceve una visita, suo padre entra in stanza. Raul ha la sensazione di non vedere l’uomo da una decina d’anni ma sa che deve essere stata la botta in testa.

Il genitore è preoccupato, vorrebbe che lui smettesse di allenarsi con quei pattini che non ha mai approvato. Poi gli racconta una cosa: “Appena tornerai a casa, verrà a trovarti l’ingegnere, Rinaldi, lo conosci, abita nella villa in fondo al viale. Sa che tra un anno ti diplomerai e ha accennato che potrebbe assumenti come apprendista nel suo ufficio. Ha anche una figlia della tua età, mi pare si chiami Clara… quella è gente che sta bene, io al tuo posto smetterei di pensare ai pattini…”

Raul non ascolta più. Qualcosa gli dice che deve andare via da quel letto, da quella stanza, da quella vita. Attende il termine della visita, il padre tornerà nel pomeriggio quando sarà dimesso.

Lui aspetta di essere solo, indossa la tuta ginnica conservata nell’armadietto, le scarpe non ci sono e infila i pattini, la fuga sarà più veloce. In corridoio un carrello con le cartelle, messo di traverso, lo informa che il personale è impegnato dentro una camera. Sente i passi di qualcuno ma prima che la persona sbuchi da dietro l’angolo, Raul è già dentro l’ascensore. L’atrio è piccolo e mentre una donna sta entrando, lui infila la porta a vetri dell’ingresso, salta elegante i tre gradini e fugge sulla piazza. Il sole gli ferisce gli occhi, prende velocità per la discesa ma è abbagliato dalla luce e finisce dritto a sbattere la fronte, già bendata, sullo sportello posteriore di un furgone parcheggiato in doppia fila. Il botto è violento e Raul perde i sensi. La prima sensazione consapevole è di avere bisogno di ghiaccio, molto ghiaccio.

“Raul mi senti? Che cosa combini, non è da te cadere in quel modo, devi stare concentrato!”

Raul guarda il suo allenatore come se non lo conoscesse. Nel palazzetto la poca gente intervenuta per osservare gli allenamenti, è in piedi dietro la vetrata e trattiene il fiato per l’apprensione.

Il ghiaccio sotto al sedere e alla schiena di Raul lo sta gelando ma per fortuna riesce a rimettersi in piedi. Arriva Rita, la sua fidanzata, lo bacia felice di vedere che non si è fatto davvero male.

“Cosa è successo, mi è girata la testa e ho perso l’equilibrio…”

“Sei solo stanco, amore mio, stavi provando l’Axel, e sei davvero bravo, quando, non so come, sei caduto con la testa in avanti”

“Non preoccuparti, sto bene, molto bene!”

Raul è confuso, certo, ma il sentimento che lo pervade è il sollievo. Tra poco ci saranno le gare per le qualifiche nazionali e lui è deciso a entrare nella selezione Olimpica.

Non sarà un piccolo incidente di percorso a fermarlo.

Pensa, è un’occasione unica, poi sorride.

Qualcosa dentro di lui gli rivela che c’è sempre una seconda possibilità.

Bacia la sua fidanzata e torna sulla pista come se non fosse capitato niente.

È felice, è questo il suo mondo. Deve solo pensare ad allenarsi.

E stare attento a non battere più la testa.





sabato 25 ottobre 2025

Stella rossa del mattino

 





Stella rossa del mattino, chi ti ha messo sul sentiero

A vegliare questo bimbo, fin da quando è messo al mondo

A proteggere e sostenere, che la vita è un mistero

Stella rossa a contemplare, il suo potere è profondo

 

Stella rossa, ma che diavolo è questa poesiola, da dove arriva ora?

Così pensa Quarto, immerso da qualche ora nel dormiveglia. Si è stufato di guardare il soffitto e all’improvviso gli sono balenati in mente da chissà dove, quegli sciocchi versi. Non ci pensa a lungo perché è sopraffatto da un sonno imperioso e sogni, pensieri e immagini reali si rincorrono e si confondono in un pazzo girotondo.

Forse, pensa in un effimero momento di veglia, era una filastrocca che mi cantava la mia mamma quando sono nato, immagina Quarto e sorride al buio, sono passati quasi novant’anni dalla sua nascita ed è sicuro di non poter essere in grado di ricordare nessun particolare di quel periodo remoto della sua vita.

Non ricordo nemmeno il volto di mia madre, pensa in uno sprazzo di lucidità e immensa amarezza Quarto, è questo non è giusto, davvero non è giusto.

Quante cose non sono giuste nella vita ma quelle che decidiamo noi sono una conseguenza delle nostre azioni, dei nostri errori e ne abbiamo la responsabilità. Altre cose non dipendono dalla volontà e sono ingiuste e basta.

Questo sa Quarto, anche sotto l’effetto dei farmaci.

Torna a sognare, di una presenza, una donna dal volto sfumato ma familiare che canta, canta una dolce melodia con voce aggraziata e delicata, Stella rossa del mattino…

Poi la donna tace e il suo volto subisce una metamorfosi, gli occhi diventano luminosi e azzurri, i capelli corti e biondi, quasi bianchi, la statura cresce e Quarto si sente felice perché anche questa persona gli è cara e la riconosce. Sua moglie che non ha mai dimenticato, sua moglie persa quindici anni fa che sembra ieri. Quarto sente una fitta al cuore, un dolore intimo che nemmeno la morfina endovena può sedare. Il dolore di un vuoto, di un arto amputato, di un buco nella sua anima. Mi manchi tanto, pensa mentre gli scorrono lacrime che continuerà a piangere anche dopo, nel sonno. Perché non ha mai smesso di piangere la scomparsa di sua moglie. Piange per gli anni che non hanno avuto ma anche per la vita che hanno trascorso, sa di averle regalato bei momenti e un amore sincero ma le ha anche gettato addosso giornate terribili, liti e notti insonni, un tradimento da lei perdonato ma mai dimenticato, e soprattutto silenzi. Dei silenzi si era pentito già prima che lei morisse, cercava sempre qualcosa da raccontarle, un accadimento, perfino le barzellette, faceva in modo di riempire il vuoto dei silenzi anche quando lei era stanca e avrebbe preferito riposare.

Era terrorizzato dal silenzio che sarebbe sopraggiunto alla sua morte e che ormai lo accompagnava da tanti, troppi anni.

Stella rossa del mattino, veglia e proteggi lei che non ho più, recita e si sente un vecchio stupido e deteriorato che non è nemmeno più in grado di pregare e forse non lo è mai stato.

Sulla soglia appare una giovane donna. Quarto sa che non può essere sua mamma e neppure sua moglie. Poi ricorda, è la giovane infermiera del turno di notte. Si avvicina per misurare e rilevare, valutare e riportare in cartella. È brava ma è giovane, troppo giovane, pensa Quarto. Chissà se ha già visto morire qualcuno, si chiede, mentre lei gli sfiora la mano e gli chiede perché non dorma.

Quarto le vorrebbe dichiarare la verità, che i fantasmi del suo passato sono giunti a tenergli compagnia e gli impediscono di addormentarsi ma preferisce non spaventarla, lei è davvero tanto giovane e presto dovrà assisterlo e sostenere i suoi ultimi respiri. Le dice di stare bene ed è vero, perché il letto è comodo e non avverte dolore. L’infermiera gli sorride e gli ricorda di suonare il campanello in caso abbia bisogno di lei. Poi si gira e scompare dalla porta come l’ennesimo fantasma della notte. Deve avere circa l’età di suo nipote, anzi potrebbero conoscersi e anche piacersi, perché no, se solo lui trovasse il tempo (avesse il coraggio) di andare a trovarlo. Pazienza, in fondo è un bravo ragazzo e la sua casa gli farà comodo, così ha deciso Quarto e l’ha già messo su carta a evitare ripensamenti.

La casa non gli serve più, questo è sicuro da quando è entrato in quel letto, anche se chiunque indossi un camice bianco non abbia mai fatto mancare la speranza di una cura, di una possibilità. Quarto sa che certe cose non si possono procrastinare e sarà anche un vecchio deteriorato ma non è stupido. Non gli importa, non può dire di non avere paura ma a questo punto la curiosità è più forte della paura.

Solo una cosa lo angustia, non ricordare il volto di sua mamma, quando era piccolo e lei gli cantava le canzoncine per farlo addormentare.

La notte sembra non avere fine e dal buio, a un certo punto, emerge una figura, una donna, avrà trenta anni, i lunghi capelli neri legati in una treccia puntata dietro la nuca, senza trucco a parte un filo di rossetto, sembra una diva del cinema muto, anni trenta.

Si avvicina e lui la vede, è molto bella e priva di rughe.

Lei gli sorride e inizia a cantare, con una voce bellissima, dolce e vellutata. Proprio come quella che sentiva da bambino.

Stella rossa del mattino, chi ti ha messo sul sentiero…

Quarto la riconosce e sorride.

E con quel sorriso, finalmente trova pace e si addormenta.

 



domenica 19 ottobre 2025

Olly esce in strada

 







Lei lo fissa negli occhi.

Ogni volta è un colpo al cuore.



I loro visi distano pochi centimetri e lei è capace di fissarlo senza imbarazzo, lo fa sempre e ogni volta, a lui sembra la prima volta.

In quegli occhi scuri e grandi, che gli fanno venire in mente un cerbiatto smarrito, Oliviero si è perso tante volte, dalla prima superiore.

E ora che si avvia verso la maturità, ne è completamente, pazzamente innamorato.

Olly è una bestia in matematica, se la cava appena con la fisica ma nelle materie letterarie non ha rivali. Gaia chiede sempre un suo parere quando c’è il tema in classe.

Olly, come lo chiamano a scuola, per un momento ha dimenticato cosa deve dire, prima di baciarla.

Poi si concentra e ritrova la parola.


“Tu sei la forza del mattino, ciò che mi permette di fare il primo passo, tu sei il coraggio del giorno, che doma la mia perenne paura, tu sei il fuoco che riscalda i miei inverni e sei la speranza della sera che socchiude le mie palpebre”.


È fiero Olly di riuscire a dire quelle parole, tenendo lo sguardo in quello di lei. E già sa quale sarà la risposta della giovane donna.


“Tu sei il cavaliere che mi porge gentile la mano, l’uomo che ho scelto per affrontare il mare quando è in tempesta, chi mi circonda di tenerezza e mi fa camminare su un tappeto di sogni”.


Olly sente un calore invadere la sua pancia, un calore piacevole. Lo avverte ogni volta che sente la voce di Gaia pronunciare quelle parole.

Poi fa quello che deve.

Appena lei socchiude gli occhi, si avvicina, chiude gli occhi a sua volta e poggia le labbra su quelle di lei.

Attorno è solo silenzio.

Fuoco e miele, sono le labbra di lei, velluto e petali di rosa. Alito caldo e fragrante come pane appena sfornato.

Il profumo del paradiso.

Un bacio casto che vale mille promesse, consola mille attese.



Poi una voce imperiosa pone fine al sogno e alla magia.



“STOP! Va bene così, Gaia perfetta, Olly meno nervoso se puoi, non siamo al Regio, è solo il teatro della scuola, perdinci! Gli altri ok, di più non si può pretendere. Ora tutti a casa a fare una doccia, puzzate come caproni, stasera si debutta”.

Il docente è stanco, lavorare fuori orario lo snerva ma a sorpresa, qualcosa di buono sta venendo fuori.



Il sipario si chiude, Gaia scappa di corsa, fuori dalla scuola c’è qualcuno che la aspetta.

Lui le afferra una mano, lei lo guarda interrogativa.

Sembra pronunciare una domanda che rimane inespressa.

Lui la fissa, cercando di parlare ma non riesce a emettere suono.

Allora Gaia lo saluta nervosa. Devo andare, ci vediamo stasera, poi si gira e corre via.

I compagni del laboratorio di teatro battono pacche sulle spalle di Olly, sei grande, gli dicono, stasera sarà un successo. Olly non se ne cura, piuttosto cerca di mettersi sulla scia di Gaia e le corre dietro.

Esce dal teatro, la porta sul retro è antipanico e sembra pesare dieci tonnellate.



Esce in strada.

Vede la scena che temeva.

Gaia s’infila un casco integrale che le ha porto il suo “ragazzo”.

Olly ha un brivido di repulsione.

L’altro è diversi anni più adulto. Una montagna di muscoli.

Guida una moto che peserà trecento chili. Ha portato un casco per lei, che Gaia ha indossato.

Poi li vede discutere.

Lei toglie il casco, poi lo indossa di nuovo.

Lui mette in moto, lei sale sul sellino e si volta.

Mentre l’energumeno dà gas facendo un rumore d’inferno lei si gira. E lo guarda.



Sta fissando me, pensa Oliviero, sta guardando me.



Gaia lo osserva intensamente, prima che il ragazzo faccia sgommare la moto in un trionfo di rumore, puzzo di benzina e gomma bruciata.



Olly pensa: Non sa che la sta perdendo.

Ripensa agli occhi di lei, al sapore delle sue labbra, al suo sguardo.

L’ha già persa.

E rientra in teatro.










sabato 11 ottobre 2025

Il mondo di Pedro

 






Il cielo è terso e nero.

Il vento degli ultimi giorni ha spazzato nuvole e smog. Anche se smog, qui in quota mille non ce n’è molto per fortuna.

Lo respirino i cittadini, pensò distratto Pedro, mentre guardava le stelle.

Il cielo di notte è bellissimo. 

Poi fece il gioco che ripeteva fin da quando era un bambino. Socchiuse un occhio e col pollice alzato nascose una stella, poi un'altra e un'altra ancora. Come se potesse, solo alzando un dito, cancellare, schiacciare una massa incandescente di idrogeno e elio in continua reazione, decine o centinaia di volte più grande del sole. Per poi farla riapparire solo spostando il dito.

Pedro lo sapeva che è un pensiero puerile ma quel gioco gli aveva sempre dato l’illusione di avere il potere di un demiurgo.

La temperatura è vicina allo zero e lui indossa solo una felpa ma non ha voglia di entrare. Mille volte preferisce stare sotto quel cielo, osservare i corpi celesti, luminosi, chiedersi come colmare la distanza da essi e sentire di farne parte.

Pedro in realtà si chiama Pietrantonio, come suo nonno, per quell’usanza di perpetuare il nome degli avi come a garantire loro una sorta d’immortalità, ma lui suo nonno non lo aveva mai nemmeno conosciuto. A quindici anni, durante una gita in Spagna, durante la quale i suoi compagni di classe si erano distrutti di canne, qualcuno gli aveva affibbiato quel nome e a lui era piaciuto.

A quindici anni avevo un sacco di amici, pensò con amarezza, oggi ho le stelle da guardare, da contare.

Era stata una sua scelta. Non si pentiva di averla fatta, vivere isolato, lontano dal rumore e dal traffico, dalle offerte speciali, dai venditori e da quelli, i peggiori, che volevano esserti amici ma si nutrivano delle tue energie.

Io le energie, le consumo scalando. Pedro amava arrampicarsi in solitaria, conosceva quelle pareti come la cucina di casa sua.

Non gli mancava niente, soprattutto sotto quel cielo.

Si era fatto tardi, si sfregò gli occhi stanchi e asciugò distratto una lacrima che gli solleticava, scorrendo sullo zigomo. È il freddo, si disse.

Ma il pensiero conseguente era stato, sono più dolorose le lacrime che versiamo noi stessi o quelle che abbiamo fatto versare ad altri?

Pedro non aveva voglia di iniziare con le elucubrazioni che non lo avrebbero portato da nessuna parte e lo avrebbero costretto all’ennesima notte insonne. Non ne aveva per niente voglia, ma era troppo tardi.

Aveva fatto bene a ritirarsi in quella casa ai piedi della montagna, lasciandosi tutto il suo mondo, le persone care, la sua vita passata alle spalle?

Forse sì, forse no, era la risposta che si dava sempre ed era come contare le stelle, sapeva che non sarebbe andato da nessuna parte.

Forse era il momento di trovare un compromesso, il tempo passava e stava diventando vecchio. Non era preoccupato per lui, accettava il fatto di terminare i suoi giorni, solo, nella sua baita, senza che questo fatto gli provocasse il minimo disagio ma iniziava a pensare alle altre persone.

La sua ex moglie, che si preoccupava per la sua salute e non mancava di scrivergli anche ora che Pedro aveva smesso di usare il telefono. Suo figlio che era salito fin lassù per dirgli che la compagna aspettava un bambino e lui non aveva saputo mostrarsi emozionato e l’unica cosa che era riuscito a sussurrare era stato: cerca di essere un buon padre.

Il sottinteso era chiaro, non essere come me, e il ragazzo doveva avere capito, non si era fatto più vedere, a pensarci a quest’ora il bambino doveva essere nato da un pezzo.

Fu scosso da un brivido, faceva freddo e le stelle erano più vivide che mai.

Non posso far scomparire le persone passando sopra il pollice, come faccio con le stelle.

Le persone tornano, se non fisicamente, almeno nei pensieri e nello spirito e lasciano il segno. Spingono, stuzzicano, pungono, fanno male.

Pedro capiva che non avrebbe potuto continuare così, aveva coperto di nuvole il suo cielo ma le stelle continuavano a esserci e ogni tanto si facevano vedere.

Prima di rientrare decise.

Sarebbe sceso in paese e avrebbe iniziato a comprare un cellulare nuovo in cui inserire la vecchia scheda. Lì cerano salvati i numeri dei suoi contatti. Suo figlio avrebbe risposto o forse no, ma non poteva saperlo ed era deciso a provarci.

Rientrò in casa, era mezzo congelato.

Si aspettava di non riuscire a dormire ma l’insonnia non mise piede nella sua camera.

Dormì bene.

Le stelle vegliarono su di lui.

 



domenica 27 luglio 2025

Lo spaventapasseri

 



Cosa ci faccio qui, non me lo chiedo nemmeno.

Quando il capo chiede di fare una cosa, io la faccio. Sono fatto così. Credo nei valori come la fedeltà, l’obbedienza, il rispetto delle regole e dei ruoli.

Sono sempre stato così, anche se a volte quest’aspetto mi ha causato qualche problema.

Certo, sono stato anche un adolescente ribelle e trasandato, che non amava farsi tagliare i capelli e tantomeno fare la doccia troppo di frequente. Poi sono cresciuto, per fortuna, e la ribellione, i capelli lunghi e il cattivo odore sono rimasti nel passato.

“Vai tu alla convention dei venditori, io ho un impegno che m’impedisce. Sono due giorni nella natura, mangi e bevi gratis e se sei fortunato, fai anche qualche piacevole incontro!”

Il capo è fatto così anche lui, non gli importa che sia sposato e che certe avventure non m’interessano, per lui ogni occasione è buona per tradire la moglie e tutti sanno che è da lei allegramente ricambiato.

Comunque sia, sono finito qui, in questo paesino di duemila anime, incastonato tra verdi colline, nell’unica struttura della provincia, adatta a ospitare circa cinquecento venditori e i loro clienti, riuniti con la scusa di ascoltare le novità del settore ma con la reale intenzione di fare una vacanza (con relativa scappatella) a spese delle proprie aziende.

Il posto non è niente male, girano camerieri in guanti bianchi che offrono un rosato frizzantino locale come aperitivo, c’è la piscina per i momenti liberi e una vista mozzafiato sui filari di vigne e sui frutteti.

Io quei filari e quei frutteti li ricordo bene. Li vedevo fin da bambino.

Tutte le estati, durante le scuole elementari, alla fine dell’anno scolastico, i miei genitori mi accompagnavano dagli zii che vivevano in campagna e mi lasciavano sul posto da una a due settimane, dicendomi che a un bambino di città avrebbe fatto bene respirare per un po’ l’aria pulita delle verdi colline.

Forse avevano ragione ma all’epoca la pensavo diversamente.

Tutti i giorni a strappare le erbacce del cortile, dipingere lo steccato di recinzione delle galline, a raccogliere frutta e a trasportarla in cesti pesantissimi, io bambino di città, a casa ci ritornavo con i calli sulle mani e le spalle scottate dal sole.

Poi c’erano gli inconvenienti. Scappare dal cane che mi aveva già morso una volta sulle chiappe, quando qualcuno si dimenticava di legare la catena. Le camminate sotto il sole cocente, senza sapere dove andare, senza poter utilizzare la vecchia bicicletta con le gomme bucate, che “domani se ho tempo le riparo” ma quel domani non veniva mai.

Mi ero trovato dei compagni di gioco, un gruppo di dodicenni che di giorno lavorava nei campi dei genitori ma di sera invadeva la piazza con un vecchio pallone di cuoio e ingaggiava interminabili partite usando le panchine come limiti del campo di gioco e quattro lampioni come pali.

Inutile dire che per quei scapestrati io ero il “signorino” oppure il “cittadino” e come tale ero scelto per ultimo. Appena gli anziani del gruppo si accorgevano che ero bravo e osavo sfidarli con finte, tunnel e altra roba che avevo nel repertorio, partivano i calcetti sulle caviglie, le pallonate in piena faccia o nello stomaco e una volta ero rimasto a terra senza respirare per quasi un minuto intero prima che i compagni di squadra si decidessero di interrompere l’azione di gioco. Tornavo dagli zii, la sera, quasi sempre con le ginocchia sbucciate ma non dicevo loro niente per evitare l’alcool che usavano per tutto, dalla disinfezione alla manutenzione del motore diesel del trattore.

Sia chiaro, quella crudeltà non era un problema, era solo la conferma che lì, in quel mondo rurale, le cose funzionavano esattamente come in città, e anche lì, così come a scuola, se volevi sopravvivere, non dovevi lamentarti troppo.

Semmai il problema era un altro.

Mi era stata assegnata una stanzetta, in cima alle scale, e il posto era bellissimo. Dalla finestra, che tenevo aperta anche di notte, potevo guardare un magnifico cielo e osservare i crateri della luna e sognare di quando l’uomo, solo pochi anni prima, ci aveva camminato sopra. Inoltre la cascina non veniva chiusa a chiave e qualche volta, la notte, illuminando le scale con una piccola torcia, ero sceso il cortile ad ascoltare i rumori degli animali. Lo stridio delle civette o spesso il lungo ululato dell’allocco. Lo scricchiolio tra l’erba dei piccoli roditori che scappavano sapendo di essere prede.

Mi affascinava quel mondo spietato e sanguinario, scoprivo il lato selvaggio della natura che non potevo ancora riconoscere nel mio ambiente cittadino.

Non mi faceva paura, non fino a una notte.

Dalla finestra sentii un respiro, come di qualcuno che ansima dopo una corsa in salita o di chi ha l’asma. Sembrava vicino e mi affacciai per vedere se uno degli zii fosse uscito in cortile. Il cortile era immerso nel buio, era una notte con poche stelle e non distinguevo la terra dal cielo. A distanza, nella vigna, vidi qualcosa. Sembrava una piccola fiammella rossa, immaginai qualcuno che stesse fumando. Quel rosso poteva essere la brace di una sigaretta, certo. Poi guardando bene, mi accorsi che i puntini rossi erano due e il rumore di respiro proveniva dalla direzione di quelle luci.

Di quegli occhi.

Provai una paura folle e disperata, chiusi gli scuri e la finestra e sopportai il caldo e le lenzuola fradice di sudore fino al mattino, senza potermi riaddormentare.

Qualcuno mi osservava dal campo, con occhi di fuoco.

Al mattino andai con uno zio proprio in quel campo, di giorno tutto sembrava normale ma per sicurezza le mie mani stringevano una vanga.

In mezzo al campo se ne stava eretto, legato a un lungo bastone di legno, uno spaventapasseri, vestito di stracci, una camicia e un pantalone muffiti e tenuti su con una corda e l’orribile faccia di paglia sotto a un cappellaccio consumato dalle intemperie. Chiesi allo zio se qualcuno potesse andare in quel campo di notte, magari per fumare ma lui rise, disse che lì non era andato nessuno, si sarebbe accorto e poi non c’erano segni nella terra morbida.

Poi mi sorprese con una domanda:

“Non è che per caso hai sentito lo spaventapasseri? A volte nelle notti buie si anima per spaventare i ragazzini…”

Lui rise grassamente ma io non lo trovai divertente e mi vennero i brividi al pensiero di quello spaventapasseri, alto quasi due metri, che se ne andava in giro per il campo con gli occhi rossi di fuoco.

Poi crebbi, studiai, giocai a calcio, conobbi ragazze e feci tutte le cose che fanno i ragazzini quando crescono. Persi la mia innocenza e le paure infantili furono sostituite dalle ansie degli adulti, trovare un buon lavoro, pagare le tasse, comprare un’auto nuova.

Ora sono qui, in questo Resort di lusso, tra le colline che credevo di avere dimenticato ma ricordavo bene, molto bene.

È notte, sono in camera e mi affaccio alla finestra.

La notte è buia, la piscina e le luci sono sull’altro lato. Non ci sono stelle e la falce di luna è nascosta da una nuvola nera. Non si distingue la terra dal cielo.

Tutto è buio tranne qualcosa tra i filari.

Due occhi rossi che mi fissano da lontano.

Due occhi che mi stavano aspettando e che non si erano dimenticati di me, come io non mi sono mai dimenticato di loro.

Gli occhi dello spaventapasseri.