A quell’epoca la radio
non trasmetteva a tutte le ore.
Giovanni, il padre di
mio padre, quel nonno che non avevo mai conosciuto aveva raccontato quella
storia a suo figlio e questi l’aveva passata a me, distratto da mille cose. Per
me, inconsapevole ragazzino cresciuto all’età dell’oro fatta di certezze,
scuola, cartoni animati, libri, compiti e fumetti, ascoltare di quel mondo
alieno in cui la scuola era aperta a singhiozzo, quando non fischiavano le
sirene dell’allarme, e si doveva raggiungere passando tra le macerie delle case
bombardate, era fastidioso e imbarazzante. Provavo una certa vergona che mio
nonno potesse avere patito freddo e fame e mi provocava rabbia riconoscere nel
profondo un subdolo senso di colpa, io che colpe non ne avevo.
A quell’epoca la radio comunicava
informazioni sulle varie battaglie vinte, sui metri di montagna conquistati dai
nostri eroici giovani combattenti, sulle linee di sbarramento difese a prezzo
della vita. Aveva raccontato il nonno con gli occhi di un undicenne. Lui in
realtà si chiedeva cosa dessero da mangiare a quegli eroi, perché capiva che a
pancia vuota si resta a malapena in piedi, figurarsi essere eroi. Così giovane
la sua ossessione era mettere qualcosa sotto i denti e non si preoccupava delle
bombe sganciate dagli aerei inglesi o dei camion tedeschi che periodicamente
passavano giù nel paese a reclutare soldati sempre più giovani. Le armi erano
state le prime cose a essere portate via dalle case, prima ancora delle galline
e delle capre, prima ancora dei contadini e dei padri di famiglia. Nella loro
cantina erano rimasti, nascosti sotto a vecchio legname marcio, alcuni sacchi
di fagioli secchi e questo aveva rappresentato la sopravvivenza della sua
famiglia durante quel freddo inverno. Fagioli a pranzo e fagioli a cena, se
andava bene con mezza cipolla, con un filo d’olio più raccontato che versato.
Ma nessuno osava lamentarsi, non lui, non Antonio, suo fratello maggiore che
aveva scampato l’arruolamento perché zoppo dopo una brutta caduta dall’albero,
non Francesco suo fratello più piccolo che forse la carne non l’aveva nemmeno
mai conosciuta. Se almeno avessero avuto un fucile per poter cacciare piccoli
animali, uccelli, lepri o qualsiasi forma animale si potesse arrostire sul
fuoco. Solo l’idea faceva venire a quei ragazzini magri e pallidi un dolore
alle mascelle. Avevano preso l’abitudine di masticare foglie e fili d’erba, per
tenere la bocca impegnata in qualcosa, e bighellonare per il paese, rovistando
nelle cantine delle case abbandonate. Se la loro madre lo avesse saputo,
sarebbe stata la rovina, lei sapeva usare il vecchio battipanni sui loro
fondoschiena con maestria e quando si arrabbiava, tirava fuori energie
nascoste. Durante uno dei loro vagabondaggi, Antonio il maggiore aveva trovato
un fuciletto a molla, poco più che un giocattolo e due scatole di pallini da
venti grammi ancora buoni. Avevano trovato anche un arco e delle frecce, un
autentico tesoro, ma l’elastico si era rivelato sfibrato e inutilizzabile.
Erano tornati a casa pieni di eccitazione e di speranza, sarebbero andati a
caccia e avrebbero procurato selvaggina per tutto il paese! Badarono bene a non
dire niente ai genitori per paura di punizioni, al contrario furono
servizievoli, andarono a prendere l’acqua alla fontana, Antonio andò nel
bosco vicino a procurare un carico di legna da bruciare nel camino e Giovanni
aiutò la madre a pulire la casa. Il loro padre, troppo vecchio per fare il
soldato, girava tra le case e riparava finestre e serrature ma sempre più
spesso le famiglie non avevano di che pagare e lui riparava lo stesso, dicendo
senza crederci: quando potrete, mi aiuterete voi. La scuola era stata chiusa
definitivamente, il maestro era partito al fronte e qualcuno andava raccontando
che era stato ucciso. La madre di Antonio, Giovanni e del piccolo Francesco,
pretendeva che i figli leggessero ogni mattina e ogni sera per mezz’ora prima
di andare a dormire al lume di candela e smise quella richiesta solo quando le
candele avevano cominciato a scarseggiare.
Una
mattina Antonio mi disse di seguirlo, aveva raccontato il nonno Giovanni al mio
babbo, e vidi che aveva il fucile sotto il cappotto. Lui camminava deciso e la
neve nascondeva la sua zoppia, io seguivo la sua pista col fiato sempre più
grosso e l’eccitazione crescente. Entrammo nel bosco imbiancato dal gelo e
dalla neve e m’intimò di fare silenzio. Avevo le mani gelide e mi facevano male
il naso e la punta delle orecchie. Mi accovacciai su una grossa radice e restai
a guardare le nuvole di fiato. Lui si appoggiò su un masso in posizione di
tiro. Passò tempo, minuti ghiacciati che s’infilavano sotto la pelle attraverso
le scarpe vecchie come spilli ma non osavo muovermi. E finalmente successe
qualcosa. Una forma grigia apparve incerta da dietro un albero. Antonio puntò
il fucile e dopo un’attesa interminabile, durante la quale trattenni in respiro,
tirò il grilletto e subito dopo ruppe il silenzio con un urlo feroce. Mi
spaventò ma non lo confessai per non fare la figura del bambino piccolo e
frignone. Urlò come dovevano avere fatto gli uomini di Neanderthal, urlò come
un cacciatore che abbatte un rinoceronte che lo sta caricando. Urlò e il suo
gridio fece alzare in un momento tutti gli uccelli del bosco. Per poco non mi
alzai anch’io ma non avevo ali per fuggire, solo tanto freddo e tantissima
fame. Antonio si mosse, fece i pochi passi che lo dividevano dall’animaletto
abbattuto e lo sollevò dalla neve. Una lepre, anche bella grossa, disse
trionfante. Con questa ci faccio un po’ di soldi e potrò comprare un fucile
vero. Quella frase mi colpì come un pugno nello stomaco vuoto. Avevo sognato
per un istante di cenare con tutta la famiglia, per una volta non attorno alla
pentola di stufato di fagioli ma con arrosto di lepre nel piatto. A quanto pare
mio fratello aveva progetti diversi. Disse che avrebbe nascosto la bestiola sotto
la neve e così fece, segnando un simbolo sulla corteccia dell’albero per
ritrovare la sua preda. Mi disse di non dire niente a nostro padre, di giurare ed
io dovetti trattenere le lacrime di rabbia che mi avrebbero tradito. Tornati a casa,
corsi da mio fratello più piccolo e gli raccontai tutto per sfogarmi. Gli dissi
che avrei rubato il coniglio e che lui avrebbe dovuto aiutarmi. Un’ora dopo
eravamo sotto l’albero con il segno e scavando nella neve rubammo il nostro
tesoro. Lo nascondemmo pochi metri più avanti, sempre seppellendo il coniglio
sotto la neve e mettendo delle assi per ritrovare il luogo. Volevo mangiare
quel coniglio, inoltre con un fucile mio fratello si sarebbe messo nei guai ed
io non volevo che morisse. Devi sapere, proseguì a raccontare mio nonno a suo
figlio, che il mio fratellino aveva un compagno di scuola, Angelo credo si
chiamasse, e Angelo era orfano di padre e aveva un fratello grande che
combatteva da qualche parte del mondo e non si sapeva se fosse ancora vivo. Angelo viveva con sua madre in una catapecchia
fredda, in condizioni estreme. Quando andai da solo a recuperare la lepre e
sotto le assi trovai solo neve smossa da piccole mani, dovetti avere la stessa
stupida espressione che ebbe Antonio quando non trovò la lepre sotto al suo
albero. Quella lepre era più veloce e aveva percorso più strada da morta che da
viva. Non potevo denunciare il nostro fratellino, ero certo che avesse voluto
aiutare il suo amico e poi nostro fratello Antonio lo avrebbe picchiato. Così
tornai a casa senza sapere se ridere o piangere per tutto l’accaduto. Persi tempo
e quando rientrai, stava facendo buio, entrai e fui investito da un odore
inebriante che innescò una salivazione dolorosa e inarrestabile. Carne cotta.
In cucina affaccendate e maniacali due donne si alternavano, mia madre e la
madre di Angelo, gridavano e si muovevano in un vortice frenetico ma a vederle
mettevano felicità. Comandarono di mettersi tutti a tavola e servirono la cena.
Arrosto di selvaggina!
Al mio babbo s’inumidivano
gli occhi, come ogni volta che raccontava qualcosa riguardante suo padre e i
vecchi tempi della guerra. Questa volta il suo racconto era riuscito ad
affascinarmi e a catturare la mia attenzione. La lepre che continuava a
spostarsi e a cambiare nascondiglio era stata esilarante ma la tenerezza per il
gesto di condivisione di quella gente che non aveva niente ma quel niente lo
divideva tra vicini, era stata toccante.
Mi chiedo se oggi
saprei fare lo stesso.
Sentii che mi mancava
quel nonno.
Ero certo però, che
qualcosa di lui viveva ancora, dentro di me.
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