lunedì 24 agosto 2020

I racconti di Vanni l'Aretino... L'incudine

 









Vanni è un personaggio. 

La pelle scura, bruciata dal sole, i capelli (pochi) spettinati sulla fronte lucida, la pancia di chi ama la buona cucina italiana e lo sguardo furbo. 

Da poco in pensione non ha nessuna intenzione di trovarsi davanti a un cantiere, con le braccia incrociate dietro la schiena a scuotere il capo e dissentire delle strategie lavorative altrui. 

Dotato di una risata grassa e sincera che a sentirla ti viene il buonumore anche fosse un grigio lunedì mattina, si compiace nell’intrattenere e divertire la compagnia ed è dotato di una buona memoria e di un’eccezionale favella. 

Un mattino, durante una delle interminabili passeggiate sul bagnasciuga, ottiene la nostra attenzione e parte a raccontare: 

“Erano gli anni settanta, forse il settantadue, mi sembra. All’istituto professionale di Arezzo si era in tanti che cercavano di imparare una professione e di ottenere un diploma, che aprisse le porte del mondo del lavoro anche a chi non era propriamente un genio, insomma a quelli che di studiare non importava una fava, scusate il parlare non a modino, maremma impestata e ladra. 

Insomma c’erano le classi di futuri operai della meccanica, tornitori, montatori, falegnami ma anche classi femminili di future parrucchiere ed estetiste. Nella scuola non mancavano di certo i laboratori di ogni tipo e la manovalanza di gente che imparava un mestiere. 

In uno di questi laboratori la scuola ci teneva un’incudine, poggiata su un grosso ceppo di quercia. Cosa ci facesse in quella stanza priva di fucina o anche di un piccolo focolare, nessuno lo sapeva, nemmeno il preside dell’istituto, maremma scolastica… sta di fatto che quell’oggetto, pesante una quarantina di chili, aveva attirato le attenzioni degli studenti meno brillanti, dei grulli per intenderci. 

Erano famose le sfide e le scommesse su chi fosse riuscito a tenere sollevato per più tempo l’arnese e non passava giorno che qualcuno non provasse. 

Un giorno ci provò un certo Maso, un ragazzone grande e grosso e stupido quanto un piccione, più ciccia che muscoli, si raccontò poi che lo fece per conquistare le grazie di una compagna di scuola, una con dei poponi che non vi dico, che gli aveva promesso certi servizi in caso di esito favorevole, Maso disse che avrebbe tenuta sollevata l’incudine per venti secondi, tutti erano pronti, qualcuno portò un orologio, qualcun'altro scommise una bottiglia di birra sul fallimento del ciccio. 

Per farla breve… Maso sollevò l’incudine di dieci centimetri dal ceppo e per barare, come facevano tutti, la tenne appoggiata al pancione ma quando il ragazzo con l’orologio diede via al tempo, il pesante ferro gli scivolò da una mano sudata, lui finì in avanti e l’incudine batté sul suo basamento, immediato si sentì un atroce ululato, sembrava che un allarme antiaereo fosse scattato in tutta la scuola, l’ululato si fece via via più stridulo fino a trasformarsi in un disperato singhiozzo, Maso stava piangendo e cercava inutilmente di chiedere aiuto. Poi qualcuno fra le risate di tutti, si accorse cosa era successo e capì il motivo delle urla. 

Alla base del ceppo si stava formando una piccola pozzanghera rossa, Maso era paonazzo ed era un tutt’uno con ceppo e incudine, e ci credo maremma impestata, una parte di lui era rimasta incastrata. 

Ragazzi, al Maso gli sono rimaste le palle sotto l’incudine! Urlò qualcuno, poi finalmente lo aiutarono, sollevandola, e lui zoppicò via tenendosi l’inguine e seminando, come pollicino, una scia di molliche rosse sul pavimento. 

La ragazzona, che era venuta a vedere se il suo amico si fosse meritato le sue attenzioni, corse dietro al cidrone gridando, indo’ tu vai, ti curo io, basta un po’ di ghiaccio, suvvia, non sarà nulla di ché, aspetta… entrambi si persero tra i corridoi della scuola, dietro il coro di risate non accennava a diminuire. 

Dopo l’incidente, a proposito state tranquilli, al Maso non successe nulla, si pizzicò solo la pelle dello scroto e gli bastò qualche punto di sutura in ospedale e le amorevoli cure della ragazzona, dopo che fu finito, si diceva, la scuola vendette l’incudine a un’officina di un trombaio bischero e ricavò qualcosina, maremma imburrata, ma nessuno dimenticò mai l’accaduto. 

Dalle parti di Arezzo stanno ancora ridendo". 









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