sabato 9 gennaio 2016

Quello che ci manca





Oggi fa freddo. Il terreno è ghiacciato e non c'è nessun altro a correre.
L'aria è gelida e penetra nella gola e nei polmoni raffreddando il corpo dall'interno.
Le comode scarpe da runner rendono morbidi i passi ma non sono sufficienti a tenere caldo, non ho messo i guanti così tutte le estremità mi si stanno congelando. Quando sono uscito un pallido sole mi guardava da est ma presto una grigia coperta gonfia di pioggia lo ha nascosto togliendomi anche l'illusione di un remoto tepore.
Poi la corsa ha posto rimedio, ho cominciato a sudare, le mani e i piedi sono tornati tiepidi e non ho più fatto caso alla temperatura estrema.
La radio ha fatto il resto, come sempre.
Mi tiene compagnia, mi distrae dalla fatica. La musica mi da il ritmo, i conduttori mi strappano sorrisi.
La trasmissione parla di come si devono sentire tutti quelli che hanno preso la decisione di lasciare il proprio paese per fare carriera, per trovare opportunità che non avrebbero avuto rimanendo al paese natale.
Ognuno ha un esperienza diversa, questo è normale, c'è chi parla di nostalgia, chi manifesta un poco velato rancore, chi sente di vivere a metà come uno straniero nella terra che lo accoglie e allo stesso tempo come chi ha abbandonato la sua casa e i propri cari, chi ancora si sente in parte tradito e in parte traditore.

La sensazione comune è un sentimento di mancanza, di nostalgia per un paese che al contrario a chi è rimasto non offre molto. Un paese che è mitizzato, idealizzato, addirittura solo immaginato da chi è figlio di emigrati partiti in gioventù.

Tanti anni fa, durante un viaggio negli Stati Uniti, conobbi alcuni figli di italoamericani, e nel sapermi giunto dalle celebri amate sponde mi abbracciarono e si rivolsero a me come fossi stato una reliquia, una specie di santo giunto a rivelare loro il paese dei genitori.

Non li avevo capiti, non avevo capito il loro senso di mancanza.
Non mi spiegavo come si potesse amare un paese che neppure conoscevano, che aveva costretto i loro cari a partire e a patire enormi sacrifici e ristrettezze.
Non avevo visto ciò che vedevano loro.

E’ vero che l’uomo non è un albero, non ha robuste, lignee radici ma cammina, a volte corre come in questo momento faccio io. L’uomo vive tante vite, tante esistenze spostandosi, viaggiando e cambiando paese, lingua, cultura. Allo stesso tempo abbiamo una radice profonda, che non è possibile recidere.

Altrettanto vero è l’assunto che non può mancarci una cosa che abbiamo, solo ciò che non abbiamo più ci crea un vuoto.
Un po’ come succede con l’amore di cui non ci curiamo, che non siamo capaci di coltivare quotidianamente, quando ci viene a mancare ci trafigge l’animo di dolore anche il posto in cui viviamo, che normalmente ci rende indifferenti ma in taluni casi si giunge a disprezzare genera una sorta di malinconia in chi lo ha abbandonato.

Torno con i piedi per terra, torno alla mia corsa. Il suolo è freddo e scivoloso ma mi accoglie e mi fa sentire a casa.



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