“Tu mi fai girar, tu mi
fai girar
Come fossi una bambola
Poi mi butti giù, poi
mi butti giù
Come fossi una bambola…”
Dalla radio, la voce di
Patty Pravo le dà una spinta e la riporta indietro di quasi trent’anni,
facendole provare un’intensa vertigine.
Da tanto non ripensava
più alla sua infanzia. Non che avesse dimenticato, piuttosto ora aveva altro da
fare. La mano passa con una carezza, sulla curva della sua pancia da gestante,
come per proteggere la vita che cresce dentro.
Si accorge che sta
sorridendo. Quella canzone. Ricorda che i suoi la suonavano sempre, sua sorella
cantava e accompagnava con la chitarra elettrica, suo padre alla batteria e la
ripetevano mille volte finché non era uguale all’originale. Le era venuta a
noia ma oggi la ascolta con un piacere misto a malinconia.
Mio padre mi chiudeva
in una valigia.
Detta così, fuori
contesto, è una frase orribile, lo so. Pensa Dafne con tenerezza.
Ero una bimba che amava
giocare e per me quello era un gioco, fare la contorsionista non era complicato
per una bambina di otto anni, tanto magra quanto snodata. In più amavo esibirmi
e quando lo scarno pubblico applaudiva, stupefatto, vedendomi comparire in
quella valigia microscopica, tutta piegata su me stessa come un minuscolo origami
umano, per dispiegarmi e lenta mettermi in piedi a inscenare un acerbo inchino,
sorridevo felice.
Dafne si guarda allo
specchio, decide che deve comprare un vestito più largo, ora nel sesto mese,
niente le va più, tantomeno i suoi jeans strettissimi, abbandonati, per il
momento, in fondo all’armadio. I ricordi rievocati dalla canzone si trascinano,
legati uno all’altro, come anelli di una catena. Quante classi cambiate ogni
mese, scuole diverse, bambine che la prendevano in giro per il suo nome
inusuale, maschietti che s’innamoravano e cercavano di toccarle i lunghissimi
capelli dorati, insegnanti che, con poca pazienza, le riempivano il diario di
compiti, sottovalutando la sua intelligenza. Compiti che lei non avrebbe fatto,
perché lei lavorava, si esibiva nello spettacolo con i genitori e le prove
erano molto più importanti che non lo scrivere dei pensierini sul quaderno a
righe o di qualche esercizio con moltiplicazioni e divisioni su quello a
quadretti.
Suo padre era
discendente di un’importante famiglia circense e sapeva fare tutto. Suonava
almeno quattro strumenti, faceva roteare tre clave infuocate, e al pensiero le
torna nel naso il forte odore della nafta che lui usava. Sapeva fare la
verticale reggendosi sugli anelli, e come la sgridava quando lei si aggrappava
a quegli anelli, facendo il verso di uno scimpanzé, perché quello era uno
strumento di lavoro e il lavoro andava rispettato.
Dafne non smette di
sorridere anche se i suoi occhi sono diventati umidi.
Le piaceva quella vita,
cambiare città ogni due settimane, dormire nel rimorchio del camion, possedere
tutte le sue cose in un baule, quaderni, bambole, vestiti, ci sarebbe stata lei
stessa in quel baule e meno stretta che nella valigia, perché bisognava
viaggiare leggeri e suo padre le aveva insegnato che nella vita non contavano
gli oggetti che si possedevano ma gli applausi che si raccoglievano.
Poi, negli anni, gli
applausi si erano via via ridotti, il pubblico era diminuito, fino a sparire
quasi, la gente era distratta da altri tipi di spettacolo, non sempre di
qualità, offerto dal piccolo e grande schermo e dopo da internet e il loro
mestiere, la loro arte era scomparsa.
Dafne non lo riteneva
un male, aveva capito che le cose cambiano, non sono mai le stesse, e
continuare a guardarsi dietro, come facevano i suoi, l’avrebbe condotta alla
rovina. Da tanti anni non entrava più nella valigia e anche la sua famiglia ad
un certo punto era diventata una valigia troppo piccola perché la contenesse,
per questo motivo li aveva dovuti lasciare, era andata via dalla sera alla
mattina e si era costruita la sua vita, non sempre priva di errori, certo, ma
chi non sbaglia mai?
Dafne si guarda la
pancia, con fiducia e paura e si chiede se mai un giorno la sua famiglia vorrà perdonare i suoi errori, se accetteranno di incontrarla e conoscere la nuova
vita che lei sarà stata capace di creare.
Il suo ragazzo la
chiama dalla cucina, la colazione è pronta.
La radio trasmette la
pubblicità. Dafne sente ancora risuonare la canzone nella sua testa.
“Tu mi fai girar, tu mi
fai girar
Come fossi una bambola
Poi mi butti giù, poi
mi butti giù
Come fossi una bambola
Non ti accorgi quando
piango
Quando sono triste e
stanca, tu pensi solo per te…”
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