Ho avuto la fortuna di
poter giocare, per qualche anno, nella squadra di calcio aziendale.
Fortuna, perché questo
significava in primo luogo avere un lavoro, secondo perché quel momento
sportivo, quell’attività ritagliata nel tempo libero, permetteva
un'integrazione immediata.
Sul campo di gioco ci
si dava del tu e potevi entrare in contrasto col tuo dirigente o fare un assist
gol al tuo capo. Nello spogliatoio il clima era cameratesco e ogni richiamo
alla professione era azzerato.
Inoltre, al di là delle
speculazioni su opportunità di carriera o facilitazioni varie, era un’attività
divertente.
Giocavo a calcio fin da
bambino e mi era sempre piaciuto.
Sono entrato in azienda
molto giovane e inesperto, di rapporti di lavoro e soprattutto sulle cose della
vita.
Attorno a me giocavano uomini
fatti, con mogli e figli, avviati da tempo verso carriere brillanti, caratteri
forti insomma. Gente che ci sapeva fare, che giocava a discreti livelli.
Capite come anche la
più banale e inutile delle amichevoli diventava fondamentale quanto una finale
di coppa.
Vincere era d'obbligo.
Io a dire la verità
sono sempre stato di fisico gracilino… alto quanto basta, sessanta chili
bagnato, unico talento quello di correre e in mezzo a tipi alti quindici
centimetri e pesanti venti chili più di me, mi sentivo fuori posto. Spesso la
mia maglia aveva il numero tredici oppure il quindici sulla schiena. Passavo
gran parte delle gare seduto in panca.
Ma essendo una squadra
aziendale, c'era sempre qualcuno di servizio in ospedale che non poteva
rispondere alla convocazione, chi aveva impegni importanti, e anche chi giovava
spesso a metà tempo finiva la benzina…
C'era in squadra chi
per paura di farsi male giocava dieci minuti e poi chiedeva la sostituzione.
Così finivo sempre per
timbrare il cartellino con una presenza. In tutti i casi io avevo dalla mia la
freschezza dei vent'anni e allora non capivo ancora la loro invidia.
Parliamo dei campi di
gioco.
Spesso si giocava su
prati tenuti abbastanza bene, dove, anche grazie alla poggia, l'erba vinceva la
sua lotta per la sopravvivenza. Su altri campi, non ho mai capito perché,
davanti alle porte, a delimitare l'area piccola, vedevi zone brulle, terra
battuta e null'altro, chiazze di alopecia su cui il pallone sbatteva e
rimbalzata in modo strano e spesso ingannava i portieri meno esperti.
Capitava di incappare
in campi di gioco dove le zolle d'erba dovevi cercarle come i porcini in un
bosco. A volte le trovavi ma erano così incolte e lussureggianti che andavano
dribblate come il più ostico dei difensori. E spesso il pallone rimaneva fermo
incastrato e ci facevi una figura barbina.
Campi con ghiaia a
coprire le buche, pozzanghere che credevano di essere sabbie mobili. Sabbia
bollente, che sembrava di giocare su una spiaggia.
Non stavamo a
sottilizzare.
Il portiere si occupava
di portare con sé guanti e pallone.
Chi organizzava ti
faceva sapere l'indirizzo e ci si trovava al campo mezz'ora prima della partita
per cambiarsi e fare il riscaldamento.
Ricordo che un
pomeriggio il collega che fungeva da mister mi disse:
-oggi giochi
dall'inizio, stai largo sulla fascia e cerca di essere veloce.
Io lo guardai senza
fiatare. Contava su di me, anche perché eravamo pochi, ma questo è un altro
discorso…
Io ero pronto. Misi la
maglietta numero sette e andai sull’altro lato del campo.
Per tutto il primo
tempo toccai la palla sì e no due o tre volte. I “grandi” non la passavano, s’intestardivano
a scartare tutti fino a terminare il fiato a disposizione e solo allora, una
volta persa la palla, mi chiamavano per rimproverarmi di non essere mai
smarcato. Il risultato era bloccato sullo zero a zero. Gli avversari di turno
si erano mangiati almeno tre occasioni d’oro per passare in vantaggio.
Nel secondo tempo mi
trovai a dover fare avanti e indietro a due metri dalla panchina.
Il mio “cattivissimo”
collega, con incarico di allenatore, sbraitava e sudava ma nessuno stava a sentire.
Ovvio che dopo pochi minuti io diventai il suo capro espiatorio, se non altro perché
così non doveva sgolarsi.
Dopo mezz’ora di gioco
stagnante fatto di passaggi sbagliati ed errori di posizione da tutte e due le
squadre, mi sentivo le gambe di gelatina e sinceramente ero un po’ stufo di
correre invano.
All’improvviso il mio
centravanti, stimato medico e mio ex docente, da centrocampo fece partire un
forte lancio di quelli inutili, nella terra di nessuno, giacché gli avversari
ci stavano dominando e noi eravamo tutti arretrati nella nostra metà campo.
Il passaggio, un
filtrante rasoterra, era diretto verso l’area avversaria un poco verso destra.
A quel punto mi accorsi che i difensori si erano distratti, dovevano aver
giudicato che il pallone finisse innocuo nelle mani del loro portiere.
Il loro portiere era una
specie di orso grizzly, un omone grosso e grasso di quasi due metri e doveva
annoiarsi molto, perché dalle sue parti non succedeva molto d’interessante.
Io partii al galoppo, mi
sentivo un cane al cinodromo e quel pallone, che diventava sempre più piccolo,
era la mia lepre.
Qualcuno provò a
recuperare la posizione ma era troppo tardi, la metà del campo di gioco non mi
era mai sembrata così lunga e vedevo il pallone continuare a sfuggirmi e il
portiere diventare sempre più bestialmente grosso.
Correvo e sbuffavo,
correvo e intanto pensavo: non ce la farò mai, il portiere sta per arrivare
sulla palla. Ma l’istinto mi diceva di andare avanti e rischiare magari di
sbattere contro quella montagna umana, e uscire dal campo con onore e qualche
frattura.
Ci trovammo faccia a
faccia come in un duello, con il pallone impazzito al posto della pallottola
letale e poco prima di schiantarmi ebbi l’idea di allungare il piede destro con
un tocco che non era né un delizioso esterno né una rozza puntonata ma una cosa
a metà.
Il portierone spalancò
gli occhi dalla sorpresa e il pallone deviò la sua traiettoria passandogli
incredibilmente tra i piedi e finendo beffardo in fondo alla rete.
Feci in tempo a vedere
tutto come al rallentatore e mi fu possibile anche evitare lo scontro frontale
con quella specie di autotreno umano e di tornare verso centrocampo per
ricevere i festeggiamenti dei miei compagni di gioco.
Finì uno a zero e il
giorno dopo al lavoro mi salutarono tutti con più calore.
Ero sempre un pivello
ma tutto era cambiato.
Disputai molte altre
partite con la squadra di calcio dell’ospedale prima di dedicarmi al calcetto.
Tanti bravi atleti, nel corso di quegli anni, appesero le scarpette al chiodo,
come si dice. Io ero più giovane e trovai altri colleghi che apprezzarono il
campo più piccolo, in erba sintetica.
Niente più campi
spelacchiati, niente più sparute zolle d’erba.
Un altro sport, altri
movimenti, molti gol e molte soddisfazioni.
Mi misi a organizzare
le partite di calcetto, mi piaceva e si poteva giocare anche al chiuso d’inverno.
Quando avevo il codino
alla “Baggio” e ancora tutti i legamenti in ordine.
Ma questa è un’altra storia…
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