giovedì 21 febbraio 2019

Zolle d'erba











Ho avuto la fortuna di poter giocare, per qualche anno, nella squadra di calcio aziendale.
Fortuna, perché questo significava in primo luogo avere un lavoro, secondo perché quel momento sportivo, quell’attività ritagliata nel tempo libero, permetteva un'integrazione immediata.
Sul campo di gioco ci si dava del tu e potevi entrare in contrasto col tuo dirigente o fare un assist gol al tuo capo. Nello spogliatoio il clima era cameratesco e ogni richiamo alla professione era azzerato.
Inoltre, al di là delle speculazioni su opportunità di carriera o facilitazioni varie, era un’attività divertente.

Giocavo a calcio fin da bambino e mi era sempre piaciuto.
Sono entrato in azienda molto giovane e inesperto, di rapporti di lavoro e soprattutto sulle cose della vita.
Attorno a me giocavano uomini fatti, con mogli e figli, avviati da tempo verso carriere brillanti, caratteri forti insomma. Gente che ci sapeva fare, che giocava a discreti livelli.
Capite come anche la più banale e inutile delle amichevoli diventava fondamentale quanto una finale di coppa. 
Vincere era d'obbligo.

Io a dire la verità sono sempre stato di fisico gracilino… alto quanto basta, sessanta chili bagnato, unico talento quello di correre e in mezzo a tipi alti quindici centimetri e pesanti venti chili più di me, mi sentivo fuori posto. Spesso la mia maglia aveva il numero tredici oppure il quindici sulla schiena. Passavo gran parte delle gare seduto in panca.
Ma essendo una squadra aziendale, c'era sempre qualcuno di servizio in ospedale che non poteva rispondere alla convocazione, chi aveva impegni importanti, e anche chi giovava spesso a metà tempo finiva la benzina…
C'era in squadra chi per paura di farsi male giocava dieci minuti e poi chiedeva la sostituzione.
Così finivo sempre per timbrare il cartellino con una presenza. In tutti i casi io avevo dalla mia la freschezza dei vent'anni e allora non capivo ancora la loro invidia.

Parliamo dei campi di gioco.

Spesso si giocava su prati tenuti abbastanza bene, dove, anche grazie alla poggia, l'erba vinceva la sua lotta per la sopravvivenza. Su altri campi, non ho mai capito perché, davanti alle porte, a delimitare l'area piccola, vedevi zone brulle, terra battuta e null'altro, chiazze di alopecia su cui il pallone sbatteva e rimbalzata in modo strano e spesso ingannava i portieri meno esperti.
Capitava di incappare in campi di gioco dove le zolle d'erba dovevi cercarle come i porcini in un bosco. A volte le trovavi ma erano così incolte e lussureggianti che andavano dribblate come il più ostico dei difensori. E spesso il pallone rimaneva fermo incastrato e ci facevi una figura barbina.
Campi con ghiaia a coprire le buche, pozzanghere che credevano di essere sabbie mobili. Sabbia bollente, che sembrava di giocare su una spiaggia.
Non stavamo a sottilizzare.

Il portiere si occupava di portare con sé guanti e pallone.
Chi organizzava ti faceva sapere l'indirizzo e ci si trovava al campo mezz'ora prima della partita per cambiarsi e fare il riscaldamento.

Ricordo che un pomeriggio il collega che fungeva da mister mi disse:
-oggi giochi dall'inizio, stai largo sulla fascia e cerca di essere veloce.
Io lo guardai senza fiatare. Contava su di me, anche perché eravamo pochi, ma questo è un altro discorso…
Io ero pronto. Misi la maglietta numero sette e andai sull’altro lato del campo.
Per tutto il primo tempo toccai la palla sì e no due o tre volte. I “grandi” non la passavano, s’intestardivano a scartare tutti fino a terminare il fiato a disposizione e solo allora, una volta persa la palla, mi chiamavano per rimproverarmi di non essere mai smarcato. Il risultato era bloccato sullo zero a zero. Gli avversari di turno si erano mangiati almeno tre occasioni d’oro per passare in vantaggio.

Nel secondo tempo mi trovai a dover fare avanti e indietro a due metri dalla panchina.
Il mio “cattivissimo” collega, con incarico di allenatore, sbraitava e sudava ma nessuno stava a sentire. Ovvio che dopo pochi minuti io diventai il suo capro espiatorio, se non altro perché così non doveva sgolarsi.

Dopo mezz’ora di gioco stagnante fatto di passaggi sbagliati ed errori di posizione da tutte e due le squadre, mi sentivo le gambe di gelatina e sinceramente ero un po’ stufo di correre invano.
All’improvviso il mio centravanti, stimato medico e mio ex docente, da centrocampo fece partire un forte lancio di quelli inutili, nella terra di nessuno, giacché gli avversari ci stavano dominando e noi eravamo tutti arretrati nella nostra metà campo.
Il passaggio, un filtrante rasoterra, era diretto verso l’area avversaria un poco verso destra. A quel punto mi accorsi che i difensori si erano distratti, dovevano aver giudicato che il pallone finisse innocuo nelle mani del loro portiere.
Il loro portiere era una specie di orso grizzly, un omone grosso e grasso di quasi due metri e doveva annoiarsi molto, perché dalle sue parti non succedeva molto d’interessante.
Io partii al galoppo, mi sentivo un cane al cinodromo e quel pallone, che diventava sempre più piccolo, era la mia lepre.
Qualcuno provò a recuperare la posizione ma era troppo tardi, la metà del campo di gioco non mi era mai sembrata così lunga e vedevo il pallone continuare a sfuggirmi e il portiere diventare sempre più bestialmente grosso.
Correvo e sbuffavo, correvo e intanto pensavo: non ce la farò mai, il portiere sta per arrivare sulla palla. Ma l’istinto mi diceva di andare avanti e rischiare magari di sbattere contro quella montagna umana, e uscire dal campo con onore e qualche frattura.
Ci trovammo faccia a faccia come in un duello, con il pallone impazzito al posto della pallottola letale e poco prima di schiantarmi ebbi l’idea di allungare il piede destro con un tocco che non era né un delizioso esterno né una rozza puntonata ma una cosa a metà.

Il portierone spalancò gli occhi dalla sorpresa e il pallone deviò la sua traiettoria passandogli incredibilmente tra i piedi e finendo beffardo in fondo alla rete.

Feci in tempo a vedere tutto come al rallentatore e mi fu possibile anche evitare lo scontro frontale con quella specie di autotreno umano e di tornare verso centrocampo per ricevere i festeggiamenti dei miei compagni di gioco.
Finì uno a zero e il giorno dopo al lavoro mi salutarono tutti con più calore.
Ero sempre un pivello ma tutto era cambiato.

Disputai molte altre partite con la squadra di calcio dell’ospedale prima di dedicarmi al calcetto. Tanti bravi atleti, nel corso di quegli anni, appesero le scarpette al chiodo, come si dice. Io ero più giovane e trovai altri colleghi che apprezzarono il campo più piccolo, in erba sintetica.

Niente più campi spelacchiati, niente più sparute zolle d’erba.
Un altro sport, altri movimenti, molti gol e molte soddisfazioni.
Mi misi a organizzare le partite di calcetto, mi piaceva e si poteva giocare anche al chiuso d’inverno.

Quando avevo il codino alla “Baggio” e ancora tutti i legamenti in ordine.
Ma questa è un’altra storia…








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