Oggi narriamo la storia
di Albertina Fabiana Bertolacci Tomassoni.
Fin dagli anni delle
scuole elementari Albertina Fabiana non ebbe vita facile.
La sua maestra si
dilettava a inventare soprannomi e nomignoli per i propri scolari e finché si
trattava di diminutivi o vezzeggiativi, i vari Luisella, Gigetto, Antonino e
Lauretta erano felici e contenti.
Quando venne il turno
della nostra Albertina Fabiana Bertolacci Tomassoni, la fatidica maestra ebbe un’intuizione
diabolica piuttosto che geniale.
La chiamò ALFABETO!
Cosa che cambiò il corso degli eventi.
Si prese la briga di
sprecare mezz’ora buona di lezione per illustrare alla lavagna le ragioni della
sua trovata ai bambini increduli.
Albertina Fabiana
Bertolacci Tomassoni aveva un nome e cognome troppo lungo per l’appello
quotidiano, quindi l’ingegnosa signorina aveva deciso di semplificarlo come un’equazione,
facendolo prima diventare ALbertina FAbiana BErtolacci TOmassoni, poi
AL-FA-BE-TO!
La piccola, benché
facesse la terza elementare e tanto piccola non era più, non riusciva a credere
alle proprie orecchie, diventò così per tutti Alfabeto, e le più perfide
compagne di classe arrivarono a chiamarla addirittura ABICI’!
Alfabeto crebbe e allo stesso tempo crebbero i lazzi e gli scherzi dei compagni e l’acredine e l’isolamento propri.
L’infelice scelta della
maestra condizionò in qualche modo tutta la sua vita in avvenire.
Alfabeto era una
bambina intelligente e reattiva ma poco portata alla socializzazione e il
soprannome affibbiatole dalla maestra non fece che bloccare sul nascere ogni
possibilità di allacciare normali rapporti amichevoli.
Questo problema però le
regalò tanto tempo libero e lei impiegò i lunghi e solitari pomeriggi per
studiare, superando uno dopo l’altro con estrema semplicità gli ostacoli che la
dividevano tra la scuola elementare e il diploma di maturità liceale. Non provò
neppure una volta a cambiare il suo soprannome, nemmeno cercò di essere
chiamata col suo vero nome. Lei era per tutti Alfabeto e tale intendeva
rimanere!
Quando venne il momento
di scegliere una strada, Alfabeto non ebbe dubbi, si sarebbe laureata in
fisica.
I suoi genitori non
provarono neppure a farle cambiare idea, i suoi compagni di liceo non si
stupirono e tanto non interessava loro minimamente cosa avesse fatto della sua
vita quella compagna strana e a volte scomoda, dal nome così improbabile.
Alfabeto affrontò uno
dopo l’altro gli esami come un rullo compressore, gli altri studenti non la
videro quasi, arrivava alle lezioni e agli esami senza dare confidenza a
nessuno, sempre preparatissima, faceva la sua parte e tornava a casa con un voto
positivo e il suo soprannome pesante come al solito.
La laurea in fisica non
venne festeggiata, per Alfabeto fu una semplice tappa della sua vita di studi.
Nel frattempo lei aveva già deciso di iscriversi a medicina.
Così fra i frequentanti
e i fuoricorso di medicina nacque il mito della dottoressa Alfabeto.
Tra le universitarie
era, manco a dirlo, la studentessa dalla media voto più alta.
Non ebbe mai un
cedimento, nemmeno quando le matricole furono invitate ad assistere alla fatidica autopsia e
ad alcuni studenti cedettero le gambe.
Alfabeto era magra e
ossuta, la natura era stata avara di curve con lei ma sotto quest’aspetto
emaciato si celava una forza, di fisica e mentale, incredibile.
Poco prima di discutere
la tesi, Alfabeto decise di provare a studiare al parco.
Stupendo familiari e
chi la conosceva bene, prese a passare i pomeriggi su una panchina, che lei
ricopriva di testi medici, in riva al laghetto delle papere.
Un giorno la trovò
occupata. Un giovane più magro di lei stava gettando le briciole di un panino
ai piccioni.
Quando lui vide
Alfabeto arrivare e sedersi al suo solito posto, si fermò a salutare educato.
B-buon g-giorno,
si-signorina!
Poi arrossì e continuò
a gettare il suo pane.
La smetta!
C-come?
La smetta di nutrire i
piccioni. Sono animali immondi!
Lui ubbidiente si alzò
e andò a rovesciare quello che restava delle briciole nel laghetto dove i pesci
rossi banchettarono.
Poi tornò docile sulla
panca.
Cosa fa, non si
presenta?
M-mi chiamo Moreno,
c-come mio nonno.
Piacere, Alfabeto.
Lui restò immobile, non
era sicuro di aver capito. Quello che capiva era che quella donna riusciva ad
ammaliarlo completamente.
Appena Alfabeto fu
consapevole di questa cosa, affondò il colpo.
Ha anche un cognome?
S-semeraro. Mi chiamo
Moreno Semeraro.
Allora lei fu sicura.
Se vuole può
accompagnarmi a casa, siamo una bella coppia.
Ubbidiente Moreno la
accompagnò.
E da quel momento non si separarono più.
MOReno SEmeraro,
pensò lei, immaginando la vecchia lavagna.
Alfabeto + Morse.
Che coppia perfetta!
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