domenica 23 aprile 2017

Piccoli innocui soprannomi






Oggi narriamo la storia di Albertina Fabiana Bertolacci Tomassoni.

Fin dagli anni delle scuole elementari Albertina Fabiana non ebbe vita facile.
La sua maestra si dilettava a inventare soprannomi e nomignoli per i propri scolari e finché si trattava di diminutivi o vezzeggiativi, i vari Luisella, Gigetto, Antonino e Lauretta erano felici e contenti.
Quando venne il turno della nostra Albertina Fabiana Bertolacci Tomassoni, la fatidica maestra ebbe un’intuizione diabolica piuttosto che geniale.
La chiamò ALFABETO!

Cosa che cambiò il corso degli eventi.

Si prese la briga di sprecare mezz’ora buona di lezione per illustrare alla lavagna le ragioni della sua trovata ai bambini increduli.
Albertina Fabiana Bertolacci Tomassoni aveva un nome e cognome troppo lungo per l’appello quotidiano, quindi l’ingegnosa signorina aveva deciso di semplificarlo come un’equazione, facendolo prima diventare ALbertina FAbiana BErtolacci TOmassoni, poi AL-FA-BE-TO!

La piccola, benché facesse la terza elementare e tanto piccola non era più, non riusciva a credere alle proprie orecchie, diventò così per tutti Alfabeto, e le più perfide compagne di classe arrivarono a chiamarla addirittura ABICI’!

Alfabeto crebbe e allo stesso tempo crebbero i lazzi e gli scherzi dei compagni e l’acredine e l’isolamento propri.
L’infelice scelta della maestra condizionò in qualche modo tutta la sua vita in avvenire.

Alfabeto era una bambina intelligente e reattiva ma poco portata alla socializzazione e il soprannome affibbiatole dalla maestra non fece che bloccare sul nascere ogni possibilità di allacciare normali rapporti amichevoli. 
Questo problema però le regalò tanto tempo libero e lei impiegò i lunghi e solitari pomeriggi per studiare, superando uno dopo l’altro con estrema semplicità gli ostacoli che la dividevano tra la scuola elementare e il diploma di maturità liceale. Non provò neppure una volta a cambiare il suo soprannome, nemmeno cercò di essere chiamata col suo vero nome. Lei era per tutti Alfabeto e tale intendeva rimanere!

Quando venne il momento di scegliere una strada, Alfabeto non ebbe dubbi, si sarebbe laureata in fisica.
I suoi genitori non provarono neppure a farle cambiare idea, i suoi compagni di liceo non si stupirono e tanto non interessava loro minimamente cosa avesse fatto della sua vita quella compagna strana e a volte scomoda, dal nome così improbabile.

Alfabeto affrontò uno dopo l’altro gli esami come un rullo compressore, gli altri studenti non la videro quasi, arrivava alle lezioni e agli esami senza dare confidenza a nessuno, sempre preparatissima, faceva la sua parte e tornava a casa con un voto positivo e il suo soprannome pesante come al solito.
La laurea in fisica non venne festeggiata, per Alfabeto fu una semplice tappa della sua vita di studi. Nel frattempo lei aveva già deciso di iscriversi a medicina.
Così fra i frequentanti e i fuoricorso di medicina nacque il mito della dottoressa Alfabeto.
Tra le universitarie era, manco a dirlo, la studentessa dalla media voto più alta.
Non ebbe mai un cedimento, nemmeno quando le matricole furono invitate ad assistere alla fatidica autopsia e ad alcuni studenti cedettero le gambe.
Alfabeto era magra e ossuta, la natura era stata avara di curve con lei ma sotto quest’aspetto emaciato si celava una forza, di fisica e mentale, incredibile.

Poco prima di discutere la tesi, Alfabeto decise di provare a studiare al parco.

Stupendo familiari e chi la conosceva bene, prese a passare i pomeriggi su una panchina, che lei ricopriva di testi medici, in riva al laghetto delle papere.
Un giorno la trovò occupata. Un giovane più magro di lei stava gettando le briciole di un panino ai piccioni.
Quando lui vide Alfabeto arrivare e sedersi al suo solito posto, si fermò a salutare educato.
B-buon g-giorno, si-signorina!
Poi arrossì e continuò a gettare il suo pane.
La smetta!
C-come?
La smetta di nutrire i piccioni. Sono animali immondi!
Lui ubbidiente si alzò e andò a rovesciare quello che restava delle briciole nel laghetto dove i pesci rossi banchettarono.
Poi tornò docile sulla panca.
Cosa fa, non si presenta?
M-mi chiamo Moreno, c-come mio nonno.
Piacere, Alfabeto.
Lui restò immobile, non era sicuro di aver capito. Quello che capiva era che quella donna riusciva ad ammaliarlo completamente.
Appena Alfabeto fu consapevole di questa cosa, affondò il colpo.
Ha anche un cognome?
S-semeraro. Mi chiamo Moreno Semeraro.

Allora lei fu sicura.

Se vuole può accompagnarmi a casa, siamo una bella coppia.

Ubbidiente Moreno la accompagnò. 
E da quel momento non si separarono più.
MOReno SEmeraro, pensò lei, immaginando la vecchia lavagna.

Alfabeto + Morse.
Che coppia perfetta!




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