sabato 10 maggio 2025

La lepre che non voleva smettere di camminare

 






A quell’epoca la radio non trasmetteva a tutte le ore.

Giovanni, il padre di mio padre, quel nonno che non avevo mai conosciuto aveva raccontato quella storia a suo figlio e questi l’aveva passata a me, distratto da mille cose. Per me, inconsapevole ragazzino cresciuto all’età dell’oro fatta di certezze, scuola, cartoni animati, libri, compiti e fumetti, ascoltare di quel mondo alieno in cui la scuola era aperta a singhiozzo, quando non fischiavano le sirene dell’allarme, e si doveva raggiungere passando tra le macerie delle case bombardate, era fastidioso e imbarazzante. Provavo una certa vergona che mio nonno potesse avere patito freddo e fame e mi provocava rabbia riconoscere nel profondo un subdolo senso di colpa, io che colpe non ne avevo.

A quell’epoca la radio comunicava informazioni sulle varie battaglie vinte, sui metri di montagna conquistati dai nostri eroici giovani combattenti, sulle linee di sbarramento difese a prezzo della vita. Aveva raccontato il nonno con gli occhi di un undicenne. Lui in realtà si chiedeva cosa dessero da mangiare a quegli eroi, perché capiva che a pancia vuota si resta a malapena in piedi, figurarsi essere eroi. Così giovane la sua ossessione era mettere qualcosa sotto i denti e non si preoccupava delle bombe sganciate dagli aerei inglesi o dei camion tedeschi che periodicamente passavano giù nel paese a reclutare soldati sempre più giovani. Le armi erano state le prime cose a essere portate via dalle case, prima ancora delle galline e delle capre, prima ancora dei contadini e dei padri di famiglia. Nella loro cantina erano rimasti, nascosti sotto a vecchio legname marcio, alcuni sacchi di fagioli secchi e questo aveva rappresentato la sopravvivenza della sua famiglia durante quel freddo inverno. Fagioli a pranzo e fagioli a cena, se andava bene con mezza cipolla, con un filo d’olio più raccontato che versato. Ma nessuno osava lamentarsi, non lui, non Antonio, suo fratello maggiore che aveva scampato l’arruolamento perché zoppo dopo una brutta caduta dall’albero, non Francesco suo fratello più piccolo che forse la carne non l’aveva nemmeno mai conosciuta. Se almeno avessero avuto un fucile per poter cacciare piccoli animali, uccelli, lepri o qualsiasi forma animale si potesse arrostire sul fuoco. Solo l’idea faceva venire a quei ragazzini magri e pallidi un dolore alle mascelle. Avevano preso l’abitudine di masticare foglie e fili d’erba, per tenere la bocca impegnata in qualcosa, e bighellonare per il paese, rovistando nelle cantine delle case abbandonate. Se la loro madre lo avesse saputo, sarebbe stata la rovina, lei sapeva usare il vecchio battipanni sui loro fondoschiena con maestria e quando si arrabbiava, tirava fuori energie nascoste. Durante uno dei loro vagabondaggi, Antonio il maggiore aveva trovato un fuciletto a molla, poco più che un giocattolo e due scatole di pallini da venti grammi ancora buoni. Avevano trovato anche un arco e delle frecce, un autentico tesoro, ma l’elastico si era rivelato sfibrato e inutilizzabile. Erano tornati a casa pieni di eccitazione e di speranza, sarebbero andati a caccia e avrebbero procurato selvaggina per tutto il paese! Badarono bene a non dire niente ai genitori per paura di punizioni, al contrario furono servizievoli, andarono a prendere l’acqua alla fontana, Antonio andò nel bosco vicino a procurare un carico di legna da bruciare nel camino e Giovanni aiutò la madre a pulire la casa. Il loro padre, troppo vecchio per fare il soldato, girava tra le case e riparava finestre e serrature ma sempre più spesso le famiglie non avevano di che pagare e lui riparava lo stesso, dicendo senza crederci: quando potrete, mi aiuterete voi. La scuola era stata chiusa definitivamente, il maestro era partito al fronte e qualcuno andava raccontando che era stato ucciso. La madre di Antonio, Giovanni e del piccolo Francesco, pretendeva che i figli leggessero ogni mattina e ogni sera per mezz’ora prima di andare a dormire al lume di candela e smise quella richiesta solo quando le candele avevano cominciato a scarseggiare.

 

Una mattina Antonio mi disse di seguirlo, aveva raccontato il nonno Giovanni al mio babbo, e vidi che aveva il fucile sotto il cappotto. Lui camminava deciso e la neve nascondeva la sua zoppia, io seguivo la sua pista col fiato sempre più grosso e l’eccitazione crescente. Entrammo nel bosco imbiancato dal gelo e dalla neve e m’intimò di fare silenzio. Avevo le mani gelide e mi facevano male il naso e la punta delle orecchie. Mi accovacciai su una grossa radice e restai a guardare le nuvole di fiato. Lui si appoggiò su un masso in posizione di tiro. Passò tempo, minuti ghiacciati che s’infilavano sotto la pelle attraverso le scarpe vecchie come spilli ma non osavo muovermi. E finalmente successe qualcosa. Una forma grigia apparve incerta da dietro un albero. Antonio puntò il fucile e dopo un’attesa interminabile, durante la quale trattenni in respiro, tirò il grilletto e subito dopo ruppe il silenzio con un urlo feroce. Mi spaventò ma non lo confessai per non fare la figura del bambino piccolo e frignone. Urlò come dovevano avere fatto gli uomini di Neanderthal, urlò come un cacciatore che abbatte un rinoceronte che lo sta caricando. Urlò e il suo gridio fece alzare in un momento tutti gli uccelli del bosco. Per poco non mi alzai anch’io ma non avevo ali per fuggire, solo tanto freddo e tantissima fame. Antonio si mosse, fece i pochi passi che lo dividevano dall’animaletto abbattuto e lo sollevò dalla neve. Una lepre, anche bella grossa, disse trionfante. Con questa ci faccio un po’ di soldi e potrò comprare un fucile vero. Quella frase mi colpì come un pugno nello stomaco vuoto. Avevo sognato per un istante di cenare con tutta la famiglia, per una volta non attorno alla pentola di stufato di fagioli ma con arrosto di lepre nel piatto. A quanto pare mio fratello aveva progetti diversi. Disse che avrebbe nascosto la bestiola sotto la neve e così fece, segnando un simbolo sulla corteccia dell’albero per ritrovare la sua preda. Mi disse di non dire niente a nostro padre, di giurare ed io dovetti trattenere le lacrime di rabbia che mi avrebbero tradito. Tornati a casa, corsi da mio fratello più piccolo e gli raccontai tutto per sfogarmi. Gli dissi che avrei rubato il coniglio e che lui avrebbe dovuto aiutarmi. Un’ora dopo eravamo sotto l’albero con il segno e scavando nella neve rubammo il nostro tesoro. Lo nascondemmo pochi metri più avanti, sempre seppellendo il coniglio sotto la neve e mettendo delle assi per ritrovare il luogo. Volevo mangiare quel coniglio, inoltre con un fucile mio fratello si sarebbe messo nei guai ed io non volevo che morisse. Devi sapere, proseguì a raccontare mio nonno a suo figlio, che il mio fratellino aveva un compagno di scuola, Angelo credo si chiamasse, e Angelo era orfano di padre e aveva un fratello grande che combatteva da qualche parte del mondo e non si sapeva se fosse ancora vivo.  Angelo viveva con sua madre in una catapecchia fredda, in condizioni estreme. Quando andai da solo a recuperare la lepre e sotto le assi trovai solo neve smossa da piccole mani, dovetti avere la stessa stupida espressione che ebbe Antonio quando non trovò la lepre sotto al suo albero. Quella lepre era più veloce e aveva percorso più strada da morta che da viva. Non potevo denunciare il nostro fratellino, ero certo che avesse voluto aiutare il suo amico e poi nostro fratello Antonio lo avrebbe picchiato. Così tornai a casa senza sapere se ridere o piangere per tutto l’accaduto. Persi tempo e quando rientrai, stava facendo buio, entrai e fui investito da un odore inebriante che innescò una salivazione dolorosa e inarrestabile. Carne cotta. In cucina affaccendate e maniacali due donne si alternavano, mia madre e la madre di Angelo, gridavano e si muovevano in un vortice frenetico ma a vederle mettevano felicità. Comandarono di mettersi tutti a tavola e servirono la cena. Arrosto di selvaggina!

 

Al mio babbo s’inumidivano gli occhi, come ogni volta che raccontava qualcosa riguardante suo padre e i vecchi tempi della guerra. Questa volta il suo racconto era riuscito ad affascinarmi e a catturare la mia attenzione. La lepre che continuava a spostarsi e a cambiare nascondiglio era stata esilarante ma la tenerezza per il gesto di condivisione di quella gente che non aveva niente ma quel niente lo divideva tra vicini, era stata toccante.

Mi chiedo se oggi saprei fare lo stesso.

Sentii che mi mancava quel nonno.

Ero certo però, che qualcosa di lui viveva ancora, dentro di me.