domenica 3 giugno 2018

Placide







Il lavoro nobilita, si dice.

Non so se sia vero, non mi sento più nobile, in ogni caso lavorare mi ha dato tanto. Tantissimo.

Sotto diversi aspetti.

Sono cresciuto oltre che in età, professionalmente. Ho avuto la possibilità di fare innumerevoli esperienze. Sono cambiato e maturato.

A metà degli anni ottanta ero un teenager come tanti, con poca barba e molti ideali.

Leggevo e mi guardavo intorno. Certo, ero consapevole dei problemi ma il duemila era lontano e avevamo un mucchio di tempo per affrontarli e magari risolverne qualcuno.


A diciannove anni, con un nuovo lavoro, si è ottimisti, entusiasti e un po’ stupidi.

E così, con tanta stupidità e inesperienza ma con tanta speranza mi apprestavo a vivere e a osservare un mondo che sarebbe presto andato avanti.


La mia responsabile era una donna nata nelle colonie italiane del nord Africa e vantava una conoscenza della lingua francese al pari di un madrelingua. Parlava francese ogni volta che ne aveva occasione. Anche a sproposito.

Una mattina venne da me e mi presentò Placide.

Mi disse che per qualche mattino avrebbe fatto il turno con noi come tirocinante osservatore.

Placide era un giovane circa della mia età, credo nigeriano o forse senegalese ma per quanto ne capivo poteva anche essere del Congo o del Burundi. Poco m’importava. Un tipo silenzioso, calmo e timido, a volte imbarazzato.

La sua pelle nera come la notte faceva splendere la divisa bianca che gli avevano prestato.

Mi accorsi subito che parlava poco o niente italiano.

Mi porse la mano e si presentò traducendo il nome: Placido.

Sorrisi per la gentilezza e mi misi a disposizione.

L’esperienza di avere al fianco un tirocinante era per me una novità com’era nuovo tutto il resto, ma contribuiva a rendere le cose interessanti.


Placido osservava tutto, se poteva dare una mano, lo faceva, non badava alla mansione. Mi avevano detto che era qualificato ma avrebbe passato lo straccio sul pavimento se ci fosse stato bisogno.

La mia responsabile amava spiegargli le cose e tradurre le nostre parole e un po’ mi dispiaceva non poter parlare direttamente con quel ragazzo.

Non parlare non era un problema, Placide era bravo con stecche, gessi e bendaggi, praticava medicazioni e disinfezione con sicurezza, la sua timidezza spariva quando partivano le sue mani.


Una mattina si presentò al servizio una donna, non la ricordo bene, mi sembra di mezza età. Ricordo però molto bene cosa lei disse.

-Non mi faccio medicare da lui. Lui non mi tocca.


Ero di spalle ma sapevo che non era rivolta a me senza bisogno di vedere.

Fu come ricevere uno schiaffo.

Mi vergognai.

Provai vergogna come se fossi stato io a pronunciare quelle parole.

Mi vergognai perché non riuscii a dire nulla.

Provai rabbia perché nessuno dei presenti disse qualcosa.

Placide fece un passo in dietro e con grande dignità lasciò ad altri il compito.


Per me fu come quando si rompe qualcosa, un cristallo per esempio, stesso rumore, stesso danno irreversibile.

Credo che perdiamo un po’ per volta frammenti di purezza e di adolescenza, fino a diventare definitivamente adulti e quel momento per me rappresentò una grande perdita d’innocenza e candore.

Forse solo d’illusione.


Placide scomparve in silenzio com’era comparso. Un mattino non lo vidi più e basta.

Ho ripensato di rado a quel giovane, durante gli anni.

Venuto per imparare e andato via insegnando.

Spero che abbia avuto una buona vita e una gratificante carriera.

Anche la donna. Spero che sia cresciuta, che sia migliorata. Che sia cambiata.


Poi mi guardo intorno.










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