mercoledì 15 febbraio 2017

Gelo





Freddo.
Buio.
Il buio mi circonda.
Il freddo è tutto quello che cerco.

Il mio cuore, inquieto per tanto, troppo tempo, ora è calmo e batte regolare.
Tutto quello che conta sono le righe bianche dell’autostrada che la mia vecchia auto divora veloce.
Avrei voluto poterle contare, per avere una prova, essere certo dello spazio percorso, della strada messa alle spalle ma ciò che conta è che il contachilometri gira veloce e ogni minuto la cifra aumenta! In poche ore sono già in terra straniera.
La strada percorsa aumenta e getta terra nella fossa del passato. Perché quello che è successo solo ieri è già passato remoto. Non esiste più.
Almeno per me.

La giustizia italiana, quante opinioni, quanti luoghi comuni.
È una casta, la manifestazione di un potere arrogante che si permette di essere al di sopra della legge, di cambiare le norme con opportune interpretazioni, e così via…
Non m’interessano queste speculazioni di chi non sa niente di più di quanto gli viene messo nella testa dal politicante di turno.
So solo che la giustizia è lenta.
Questo è un dato oggettivo.
Non potevo più aspettare.

Non potevo più sopportare la situazione che si era creata!
Mio figlio al cimitero e il suo assassino in giro a fare la bella vita.

Lo avevo già incontrato, dopo il primo grado, era accompagnato dal suo avvocato, una vecchia volpe delle aule.
Mi avevano intimato di girare al largo, se fosse successo qualcosa al suo assistito, avrei passato dei guai!

Ero consapevole di questo e mi sono tenuto alla larga.

Mio figlio aveva preso una brutta china, girava con gentaglia, chissà cosa si era messo in testa. Credeva di cambiare il mondo e aveva iniziato a partecipare a cortei, manifestazioni, occupazioni. Si sentiva un moderno Che Guevara, armato di liberi pensieri e della sua giovane età. E, come tutti i giovani, si credeva immortale.
La gente che aveva preso a frequentare lo aveva iniziato al fumo, niente di speciale, qualche tiro per darsi un tono.
Lui lo aveva anche ammesso, non c'è niente di male, diceva.

Poi a una festa lo avevano convinto a tirare di coca, e così quella maledetta sera aveva preso la sua ultima disgraziata decisione.
Era collassato sulle scale, il padrone di casa aveva buttato tutti fuori e aveva cercato lo spacciatore che aveva venduto loro quella porcheria.
Questo era arrivato sulla sua Porche, lo aveva preso a calci e assieme avevano lasciato agonizzare il mio ragazzo su una panchina di una squallida piazza, di uno squallido paesino di periferia.

Quando lo avevano lasciato era vivo e in discrete condizioni e questa cosa era stata certificata dall’autopsia e verificata in sede processuale.
Ma il mio ragazzo aveva un problema valvolare cardiaco e non poteva sopravvivere a quel collasso.
Due passanti lo avevano visto e disgustati avevano chiamato l’ambulanza ma né l’equipaggio né il personale del pronto soccorso erano riusciti a salvargli la vita.

La vita.
Quanto è fragile questo concetto.
E come è facile cancellarla.
Non ho provato molto quando ho guardato lo spacciatore morire, nemmeno quando ho visto nei suoi occhi la folle consapevolezza che sarebbe morto.
Non mi sono sentito esaltato, non mi sento meglio ora ma nemmeno peggio.
Non provo sensi di colpa.
Semplicemente era una cosa che andava fatta.
Come mettere in ordine le cose sparpagliate della vita.

Anche ora, non è una fuga la mia. Non cerco di scappare.
Sto solo cercando di mettere le cose in ordine.

La mia auto è vecchia, non è veloce come la Porche dello spacciatore ma non ho nessuna fretta e non mi andava di usare l’auto che un morto ha comprato con i soldi delle sue vittime.

Guido verso nord, ho contante sufficiente per pedaggi e carburante.
Andrò avanti senza fermarmi finché ci saranno strade. Fino al mare.
E quando il mare arresterà la mia auto, prenderò una nave che mi porti ancora più a nord fino a che il ghiaccio non renderà impossibile la mia avanzata.
Cosa mi aspetto non lo so.

Solo riposo, e pace.
Il gelo si prenderà cura di ogni mio dolore.






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