giovedì 1 settembre 2016

Giallo shock











Anche se oggi fa molto caldo, vado a correre.
E’ una giornata troppo bella per sprecarla sul divano del soggiorno.
Il percorso è il solito, la pista ciclabile accanto al parco, un nastro di asfalto lungo quasi tre chilometri da consumare avanti e indietro quante volte si vuole (o quante volte il fiato e le gambe lo permettono).
Attraverso il viale, mi lascio alle spalle la città, mi appresto a percorrere la lieve salita che porta alla pista quando un tipo, con l’aria del runner, stanco e sudato mi si avvicina e mi dice qualcosa. Vedo che sorride.
Accosto, tolgo le cuffiette dall’orecchio destro e lui mi ripete:
-          Non c’è una fontana da queste parti?
Sorrido a mia volta, mi giro e indico un punto alle mie spalle.
-          Lì c’è una fontana ma sono mesi che è stata chiusa, danneggiata dai vandali.
Mi guarda rammaricato e fa spallucce.
-          Pazienza, scusa per l’interruzione, ciao.
Ma ho già infilato la cuffietta nell’orecchio. Lo saluto con un cenno della mano, mi giro e riprendo il mio ritmo.
Aveva una faccia strana quel tipo, gli occhi vagamente spiritati ma sarà stato l’effetto dell’adrenalina. Dopotutto noi sportivi siamo tutti un poco strani nella trance agonistica.
Mentre corro, mi vengono in mente due curiosità. Il tipo aveva il mio stesso taglio di capelli, più che taglio una massa informe, una zazzera di ricci che mi ostino a lasciare lunghi come fossi un ragazzino. Inoltre aveva la stessa maglietta sportiva di un turchese violento, comprata in un centro commerciale più che popolare.
Solo nella nostra provincia ce l’avranno in diecimila…
Inoltre il tizio assetato aveva le braccia sporche, coperte da polvere biancastra, come se facesse il fornaio e aveva un’altra cosa curiosa che sul momento mi è sfuggita.
Continuo a correre. Presto il caldo e la fatica m’impediscono di pensare.
C’è solo strada da bruciare e sole da cui essere bruciati.

Al secondo chilometro sotto il sole, il calore si fa insopportabile. Ho l’impressione che anche le suole di gomma, al contatto col cemento bollente, si stiano surriscaldando.
Avrei dovuto bagnare la testa, penso…
Comincio ad avere anche le allucinazioni. Vedo una macchia scura immobile al centro della pista.
Sapete, quando corro non porto gli occhiali e spesso dimentico di indossare le lenti per la miopia.
Comunque la macchia scura e immobile non è un cane o un cumulo di stracci come mi erano sembrati a tutta prima.
Si tratta di un uomo.
Un vecchio buttato per terra e la sua bicicletta poco più indietro.
Il cuore mi prende a calci dal centro del torace.
Penso, è stato male. Si è sentito male per il caldo. Le gambe mi tremano per l’emozione ma mi portano vicino al vecchio.
Devo fare qualcosa.
Oddio, che spettacolo orrendo!
Il pensionato è steso sulla schiena con gli occhi aperti.
Sembra che stia osservando il cielo allo zenith.
Chissà se vede le nuvole o se a quest’ora è già arrivato sopra quelle nuvole. A me sembra giusta la seconda ipotesi.
Ha una zona incavata al centro della fronte, sporca e bluastra e sotto la nuca si sta allargando una pozzanghera purpurea. Attorno al corpo polvere bianca come farina.
Gli do un calcetto con la punta del piede ma è inutile, gli occhi chiari e opachi non perdono il contatto con il cielo.
E’ proprio morto. Le mani mi tremano mentre cerco di sfilare il cellulare dalla tasca dei pantaloncini. S’impiglia il cavetto delle cuffie, mi cade il telefono nella pozza di sangue. Non è il momento di fare lo schizzinoso.
Con le dita appiccicose e tremanti compongo il 112 e mi ascolto dire:
-          C’è un vecchio morto sulla ciclabile.
Poi l’operatore in linea mi dà le opportune istruzioni e mi tranquillizza.
Riesco a rispondere alle domande con calma e la comunicazione è presto chiusa.
Sotto la bici del vecchio c’è una copia di un quotidiano. Lui indossa pantaloni ascellari, mi ricorda un po’ Fantozzi, poi penso che questo poveraccio, Fantozzi, non lo vedrà mai più.

Cinque minuti sembrano eterni.
Non penso più al sole, alla corsa, il respiro si è calmato, il battito ha rallentato la sua frequenza.
Non riesco a staccare gli occhi dal vecchio.
Chissà se aveva qualcuno a casa ad aspettarlo. Soprattutto chissà com’è morto.
Il segno sulla fronte è strano, non mi torna. Sembra più un colpo, una sassata che una caduta dalla bici. Ma non sono affari che mi riguardano.
Arriva tutto un circo, un’ambulanza che non so a che serva visto che il morto è ormai morto, due pattuglie di carabinieri, un maresciallo comincia a scattare foto, un barelliere mi chiede se sto bene.
Sono confuso, stanco e assetato. Chiedo se posso andare a casa. Mi rispondono di no, per il momento non è possibile, si deve aspettare il giudice.
Qualcuno ha messo un lenzuolo bianco sul vecchio e mi chiedo come farà adesso che non può più guardare le sue nuvole.
Il giudice arriva, sembra un ragazzino di nemmeno trent’anni.
Ha la voce stridula, insopportabile.
Dice che devono trasferirmi da qualche parte, penso per il verbale.
Poi il maresciallo gli si avvicina all’orecchio e sussurra qualcosa indicando le case popolari che in linea d’aria saranno a meno di cinquanta metri.
Chiedo di nuovo se posso andare e il giudice ragazzino mi guarda malissimo. Chiede se conosco il morto.
Poi manda due carabinieri verso la casa popolare, pare che nel palazzo ci siano testimoni oculari dell’accaduto.
Accaduto, già ma cosa è accaduto, mi chiedo.
Mi guardo le scarpe, le mie leggere e tecnologiche scarpe da running.
Hanno le suole macchiate di rosso.
Poi mi torna in mente la stortura che avevo percepito poco prima.
Il tizio, il runner che mi chiedeva della fontana, quello con lo sguardo alterato e la maglietta identica alla mia, calzava delle scarpe pesanti, da lavoro.
Un carabiniere di quelli che hanno sentito i testimoni finalmente torna.
Si avvicina e mi chiede gentilmente di salire in auto.
Non sta sorridendo.
Mi sa che per un po’ non correrò.
Sono fregato.





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