giovedì 12 maggio 2016

Si stava meglio quando si stava peggio.











La frase "si stava meglio quando si stava peggio" rivela una tristezza assoluta.
Ripetendola e ascoltandone il suono aumenta la depressione latente e si risveglia un’ansia repressa. Sembra tipica di chi non coltiva più speranze e di chi è abituato a lamentarsi senza costrutto.
Come si può affermare che oggi, epoca di conoscenze e di agiatezza, di libertà e cultura, il benessere sia diminuito rispetto a un passato buio, fatto di privazioni e povero di certezze?
Ho provato a guardarmi intorno.
Quando sono alla guida e mi fermo al passaggio pedonale, la gente attraversa senza degnare di uno sguardo l’insolito autista che mostra questa premura (oltre a rispettare il codice) e non solo ma dietro c'è sempre un caprone che suona per farmi ripartire alla svelta.
Cedo il passo sempre, per esempio entrando nei locali e tengo sempre la porta aperta a chi entra o esce dopo di me ma spesso la persona oggetto di quest’attenzione mi guarda come si guarda un alieno, e poiché alieno senza capirne lingua, usi e costumi.
Incrocio visi familiari, concittadini, vicini di casa e mi viene da salutare ma gli sguardi che ricevo di rimando sono aridi quanto un deserto d'estate quando non mostrano un'ostilità palese.

Allora osservo i bambini che sono lo specchio della società, nelle piazze dove ancora sciamano rumorosamente dietro a un pallone, per le vie dove si spostano in gruppuscoli, non c'è n'è uno che saluti, che si faccia da parte se il passaggio è stretto, che non schiamazzi e urli come se al mondo non ci fossero altri.
Ragazzi, non ci siamo.

Non starò a spiegare, perché chi non capisce da sé queste cose, non si può riabilitare.

C'è stato un tempo in cui per rivolgere la parola a un adulto bisognava chiedere il permesso ed era proibito interrompere, un tempo in cui si dava del lei. Un tempo in cui era importante cedere il posto a sedere e fare strada ad altri, un tempo in cui era naturale pronunciare parole come “scusi”, oppure “per favore”, o addirittura “grazie”!
Un tempo in cui non era scontato avere ragione, neppure se si alzava la voce.
Un tempo in cui si facevano ragazzate, come oggi, ma se ti pescavano venivi punito e te ne vergognavi a lungo.
Un tempo in cui stavi attento a non farti male e a non litigare con altri bambini perché altrimenti quando tornavi a casa c'era "il resto"!
C'è stato un tempo in cui quando parlava un adulto si stava ad ascoltare e non era questione solo di autorità bensì di autorevolezza.
Ecco, si dirà, l'ennesimo brontolone, quello cui non va più bene niente, quello che sa solo lamentarsi.

Non devo spiegare niente.
Perché chi non capisce da sé queste cose, non si può riabilitare.

Mi rivolgo ai trentenni che hanno dei bambini piccoli, ma molto piccoli e a chi avesse intenzione di avere dei figli.
Fate attenzione a ciò che insegnerete ai vostri bimbi.
Non fategli credere di essere già i primi, non sapranno mai migliorarsi.
Non fategliele passare sempre tutte lisce, quello non è amore.
Non ingannateli crescendo loro nella convinzione di avere continuamente ragione, non sarà sempre così.
Non insegnate loro a usare la forza e la violenza, un brutto giorno potrebbero rivolgerle contro di voi.

Parlate di queste cose con i vostri genitori e con i vostri nonni. Sentite come la pensano. Fate in modo che fra quindici o venti anni non sarete voi a lamentarvi di un mondo che non vi piace.

Mi rivolgo a chi capisce queste cose.
Perché chi non ha capito, non si può riabilitare.










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