martedì 28 luglio 2020

L'abbraccio













La giornata si annunciava calda dalle prime ore del mattino. 

Alle dieci stavo grondando di sudore. E dal momento che, per quel giorno di lavorare non se ne sarebbe parlato e che ne avevo avuto abbastanza del genere umano, scelsi di andarmene a passeggiare nel posto più isolato che conoscessi. 

Un parco con un’infinità di ettari di bosco, prati e cascine isolate, viali coperti da ghiaia e costeggiati da pioppi, ippocastani e salici. Leprotti e cornacchie in gran quantità. Prati, circondati da recinti malridotti e coperti d'erba, brucata da cavalli pazienti, usati a turno per dare lezioni di equitazione ai ragazzini. Un posto buono per pochi corridori incalliti e per qualche ciclista amante della natura, un posto preso d'assalto da folle chiassose la domenica ma tranquillo e adatto alle riflessioni in settimana. 

Ecco cosa cercavo, ecco quello di cui avevo bisogno. 

Un posto dove stare con me stesso e ascoltare il silenzio, balsamo per orecchie ferite da mille rumori fastidiosi e parole urticanti e inutili di gente senza significato. 

Camminare ascoltando lo scricchiolio delle suole e nient’altro a disturbare, che paradiso dopo una settimana di fuoco. 



Ecco il mio posto, dove posso vivere qui e ora. 

Mi piace camminare, penso piano, mi rilasso e resto ad ascoltare i battiti del mio cuore. 

Sento un rumore poco lontano, sul vialetto più avanti, saranno venti metri. C’è una donna che cammina con un bimbetto al fianco, i due si parlano, arrivano le loro voci ma non abbastanza da distinguere le parole. 

Reprimo una smorfia di fastidio, mi dico che non posso odiare così il genere umano, che disturbo possono arrecare una mamma e il suo piccolo bimbo mentre camminano sul viale all’ombra delle foglie? Mi chiedo se non sia io il problema, se non stia diventando un vecchio orso, un brontolone insopportabile, un misantropo irrecuperabile. 

Certo, un po’ scontroso lo sono sempre stato, ultimamente essere asociale lo considero un vaccino contro l’idiozia dilagante che l’uso e l’abuso di internet stanno facendo esondare e scorrere nel mondo come un’emorragia da una ferita aperta. 

Ma cavolo, una donna e un bambino, no. Non possono in alcun modo rovinarmi la giornata. 

Essendo il mio passo più veloce, mi avvicino ai due rapidamente. Il piccolo potrà avere al massimo due anni, parla ostinatamente col suo modesto vocabolario e con il classico accento dei bambini piccoli, tanto usato nella pubblicità. Il bimbo è rapito dai cavalli che brucano erba secca dietro al recinto. Vorrebbe toccarli e ovviamente non vuole che la mano di mamma limiti la sua fame di conoscenza. 

La donna sente i miei passi con un sussulto di chi deve vivere costantemente sul filo dell’ansia, poi si rivolge al figlio dicendo: -Stai attento, fai passare il signore. 

Assumo un’espressione di circostanza, una specie di sorriso e passo oltre con poco interesse. 

Il bimbo si volta un istante ma non è interessato a sua volta, poi torna a essere affascinato dai quadrupedi. 

Ora i due sono alle mie spalle, non ci penso più e torno a fare quello che avevo interrotto, coltivare il pensiero di essere l’ultimo uomo sulla terra. 



Questo sarebbe stato possibile se non fosse successo quello che invece è stato. 



Ascolto la voce della mamma che non trattiene la rabbia, non vuole che il bambino si avvicini alla recinzione, pretende che lui le dia la mano. 

Faccio finta di non sentire ma l’improvviso urlo della donna mi costringe a voltarmi. 

Il bimbo è scivolato sul bordo del vialetto. Il terreno argilloso, il pendio verso il prato, il fatto che l’esserino è talmente piccolo da passare agevolmente sotto il recinto, causano il resto. Il bambino è rotolato nel prato come una valanga di massi rotolerebbe sul versante di un monte. Sembra una scena tratta da Piccole canaglie e sarebbe comica sennonché lo sguardo sgomento della madre e le lacrime che le stanno affiorando mi fanno passare la voglia di ridere. 

Lei urla il nome del figlio, come se questo potesse fare la differenza ma il bambino piange e sputacchia la terra entrata in bocca. I cavalli sono infastiditi, si muovono nervosi ma non si spostano per lasciar passare quella piccola valanga vivente. Il bimbo atterra a faccia in giù quasi in mezzo ai quattro animali che sbuffano e producono schiocchi con la lingua. 

Un nitrito di eccitazione fa piangere più forte il bambino e urlare sua madre, un animale batte gli zoccoli al suolo, quegli zoccoli che distano così pochi centimetri dalla testolina del bambino. 

Così mi sveglio da un inspiegato torpore, m’infilo tra i legni della palizzata e senza fare rumore per non spaventare le bestie, corro verso il bimbo, lo raccatto da terra come farei con un sacchetto, lui è molle e inerte, quasi senza peso, me lo carico in braccio e in due secondi ho scavalcato il recinto e ho depositato il fagottino singhiozzante tra le braccia della mamma gemente. 

I cavalli quasi non si sono mossi, devono essere mansueti, mi spiego per spolverare qualche grammo di fifa che mi era rimasta sulla camicia. 

Saluto e riparto per la mia strada. 

La donna mi chiama. 

-Signore…? 

Mi volto. 

-Grazie. 

Dice lei. 

-Non è niente. 

Mi giustifico, vorrei solo andare via. 



-Aspetti… Lei dice qualcosa al bimbetto che ora non piange più ma tira su col naso facendo un rumore orribile. 

Il bimbo prende la rincorsa e mi si aggrappa alla gamba stringendola in un goffo quanto energico abbraccio. Poi guarda su verso di me per la prima volta e per la prima volta vedo i suoi piccoli occhi neri, così svegli, così intelligenti, così vivi e così pieni d’amore. 

-Grazie signore… 

Poi si stacca dalla mia gamba e torna correndo dalla mamma. 

Non dimenticherò facilmente gli occhi di quel bimbo. La sua espressione nitida e sincera. Il suo grazie. 

Mi sono girato e ho ripreso la mia camminata sul viale. Non volevo che mi vedessero. 

Mi vergognavo delle mie lacrime. 

Ma lì, su quel viale è stato come se quel bimbo avesse aggiustato qualcosa dentro di me. Come se avesse messo un pezzo mancante da tempo. 

So che devo lavorarci ancora molto ma quel bambino ha riparato qualcosa nel mio motore che da qualche tempo girava male. 

E l’ha fatto stringendomi la gamba. 

Con un abbraccio da piccola canaglia che avrebbe fatto ridere il vecchio me e che invece mi ha fatto piangere. 

E mi ha reso nuovo. 











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