domenica 18 febbraio 2018

luoghi insoliti: Piccole molestie desiderabili

luoghi insoliti: Piccole molestie desiderabili: Quando entro nello scompartimento l’uomo è già lì, seduto accanto al finestrino, nella direzione di marcia del treno. Per una...

Piccole molestie desiderabili








Quando entro nello scompartimento l’uomo è già lì, seduto accanto al finestrino, nella direzione di marcia del treno.
Per una donna che viaggia sola è fondamentale guardarsi attorno.
Il posto n.11 è quello di fronte. Passo, lui educatamente ritira i piedi sotto il sedile. Deposito a fatica il trolley sulla cappelliera. Sento i suoi occhi sulle gambe, perché oggi ho messo la gonna corta. Ma forse è solo una mia sensazione, quando mi metto a sedere lui è immerso nel suo tascabile.
Appena sono seduta lui mi rivolge un piccolo cenno appena percettibile, che non è un vero saluto ma qualcosa di più discreto, un segnale di coscienza della presenza dell’altro. Mi va bene, non sono in vena di chiacchiere.
Tanto per essere chiara, tiro fuori dalla borsetta il mio libro e fingo di iniziare a leggere.
Due minuti più tardi il treno si mette in marcia.

Il tizio seduto di fronte legge davvero per almeno venti minuti. Mi sembra strano che non abbia cercato di attaccare bottone come fanno di solito tutti quando vedono una donna. Dopotutto sono una quarantenne niente male, mi tengo in forma e viaggio da sola.
Ma lui niente, continua a fissare il suo libricino, a sfogliare la pagina a intervalli regolari e nient’altro!
Io, al contrario, di leggere non ne ho voglia, quindi tengo il libro bene aperto sotto il naso e osservo.
L’uomo ha un'età che non riesco a stimare, il viso magro e regolare, i folti capelli mossi, gli occhi nocciola scuro sembrano quelli di un trentenne ma le rughe attorno agli occhi, i capelli argentati sulle tempie, la barba sul mento sporcata di bianco dichiarano più i quarantacinque, forse cinquanta.
Si è stancato di leggere, ha posato il libro sulla gamba e lo regge con la mano sinistra tenendo l’indice tra le pagine per tenere il segno.
Le mani sono piccole e magre, quasi ossute, un po’ femminili. Le unghie cortissime e curate come dovrebbero essere quelle di un pianista o un chirurgo.
Alla sinistra porta una fede di oro bianco. Vuol dire tutto e niente.
Indossa una camicia blu e una giacca di panno grigia con le toppe ai gomiti come quella di un professore. Ha jeans attillati e un paio di scarpe scamosciate grigio scuro. Nel complesso non è male, non capisco se sono abiti ricercati volutamente casual o capi economici indossati con dignità. Al polso porta un pesante orologio d’acciaio.
Dal taschino spuntano occhiali dalla montatura moderna.
Uno che ha buon gusto, questo è certo.
Cambia posizione sul sedile, lo faccio anch’io e gli urto un piede. Mi scuso e lui invece di parlare accenna a un sorriso.
Uno di poche parole, ma certo un tipo interessante.
Il libro è sempre mantenuto dalla mano sinistra sulla gamba, riesco a leggere il titolo, anche al contrario “La lunga marcia”.
Non leggo l’autore ma visto che si tratta di un tascabile Urania, sarà una storia di fantascienza.
Eccolo, finalmente l’ho beccato! Stava fissando dritto davanti a sé, sulla mia scollatura. Con la mano controllo, tutto a posto, i bottoni hanno tenuto, ora guarda più in alto, verso i miei capelli. Forse anche lui sta valutando chi ha davanti. Immediatamente sposta lo sguardo al finestrino, dove la luce dorata del crepuscolo illumina i campi che fuggono a ritroso a centottanta chilometri l’ora.
Anche i suoi occhi sono illuminati.
Poi torna a guardare nello scompartimento e per un momento i nostri sguardi s’incrociano. Per un secondo siamo agganciati ma nessuno dei due scappa. Poi dolcemente lui torna a guardare fuori dal finestrino.
Un po’ ci rimango male, poi vedo che la linea delle sue labbra si piega verso l’alto e quel blando sorriso mi comunica che lui sa che io so che lui sa.
Involontariamente mi scappa un sorriso e un po’ per vergogna rituffo il naso nel mio tomo.

Passo così un quarto d'ora, senza avere il coraggio di guardarmi attorno.
Poi azzardo un movimento veloce e scopro che il mio enigmatico dirimpettaio ha chiuso gli occhi. Non riesco a staccare lo sguardo, a distogliere l’attenzione da quest’uomo che non ha detto una parola ma che mi sta dicendo tanto.
Ogni tanto apre gli occhi e mi guarda, non faccio nemmeno finta di osservare altro. Stranamente non provo più imbarazzo, trovando dolce questo strano gioco, questa strana molestia.
Ora dorme, forse finge, forse sta solo riposando dopo una giornata lunga e pesante.
Provo un inspiegabile tenerezza, vorrei avere avuto l’occasione di presentarmi, di scambiare due chiacchiere ma mi rendo conto di avere impedito tutto ciò col mio atteggiamento.
L’altoparlante annuncia la prossimità della stazione di Porta Susa, siamo già a Torino, non mi ero accorta di viaggiare tra le abitazioni.
L’uomo ora guarda le case, i viali, le auto del traffico correrci intorno.
Devo prepararmi, ripongo il mio inutile romanzo nella borsa, mi sistemo la gonna e mi metto in piedi. Lui d’improvviso si alza, non è molto più alto di me, in piedi sembra più esile, alza le braccia e con un movimento elegante tira giù il trolley. Ha un buon odore, come di pane.
Poi torna a sedere dicendo: faccia buon rientro, signorina.
Ha una voce bella, calda e sicura.
Scende alla prossima, tra cinque minuti alla stazione centrale.
Peccato.

Ora sono nel corridoio in coda con i passeggeri che scendono come me.
Lo vedo prendere un segnalibro, metterlo tra le pagine del suo tascabile e riporre lo stesso in uno zainetto sottile.
Per un’ora le nostre esistenze hanno viaggiato parallele come i binari su cui corre questo treno ma ora si separano e tornano lontane, come sono sempre state.

Sono stata bene, mio sconosciuto compagno di viaggio e la tua presenza silenziosa, il tuo sguardo sognante, le tue molestie mute sono state tutto quello di cui avevo bisogno.





domenica 11 febbraio 2018

Cicatrici







Dopo una corsa, come la maggior parte delle persone, faccio la doccia.
Non penso di rappresentare la totalità delle persone ma almeno la maggioranza.
Talvolta, se capisco di avere la pelle secca, passo anche una crema idratante, soprattutto d’estate, quando si può uscire in bermuda.
Passo la mano sul polpaccio della gamba destra e sento, proprio al centro del muscolo, un irregolarità. Mi piego e tiro su il tallone, con le dovute cautele legate all'età, e vedo una piccola area circolare più chiara. Una cicatrice.
Me ne ero dimenticato.
Ero un giovane preadolescente, non ricordo più se frequentassi la prima o la seconda media. Quello che ricordo è il luogo.
Ero nel lungo parcheggio che fronteggia la zona industriale, in quello che viene ancora chiamato ”parco basso” dove ora sono stati ripristinati i giardini reali della reggia.
Pedalavo come un forsennato sulla mia Graziella blu, facendo a gara con mio fratello, quando con la ruota anteriore presi un sasso, credo, oppure un buco. Non importa perché il risultato non cambiò, persi il controllo della bicicletta e finii lungo disteso a terra, pieno di contusioni e con un pedale che mi bucava il polpaccio.
Quella era l’epoca del “non farti male che prendi il resto” e io per non incorrere nel fatidico resto non dissi niente a casa.
Me la cavai con un poco d'acqua e un fazzoletto.
Non ricordo molto altro ma la cicatrice è ancora lì, muta testimone di una vicenda capitata a un bimbo vissuto in un'altra vita.

Ogni tanto, quando penso ad altro, ho preso l’abitudine di passare il polpastrello dell’indice della mano sinistra sul lato del pollice e così facendo avverto una piccola irregolarità, come una scanalatura, un piccolissimo scalino sulla pelle, quasi invisibile a occhio nudo.
Ma c’è a cercare bene, sapendo dove cercare e io so bene dove cercare. Ricordo quando ruppi la fiala di vetro che stavo per caricare in una siringa. Era un giorno, un periodo di grande sofferenza, di infinita emotività e seppi allo stesso istante, mentre applicavo  un cerotto sulla piccola ferita sanguinante che non avrei mai potuto dimenticare quel momento.
Sono passati quindici anni e così è stato.

A voler osservare bene, la nostra pelle è  piena di segni e cicatrici e ognuna ha una storia.
Ognuna parla di qualcosa di noi. Raffigura un pezzetto della nostra vita.

Anche quelle che non si vedono. Anche quelle che non sono aperte sulla pelle ma sul cuore.
Sull’anima.

Le cicatrici più dolorose, che nessuno può vedere, quelle che solo noi sappiamo di avere, che nessuno può lenire.

Quelle sulle quali nessun cerotto potrà essere d’aiuto se non forse quello del tempo.



sabato 3 febbraio 2018

Tre mele







Il mercato era stato parte della vita di Adriano da sempre.
Almeno da che ne aveva memoria, il sabato mattina era giorno di mercato. 
Il rituale prevedeva che fosse comprato qualcosa prima di rientrare. 
Lo aveva fatto da bambino, fiero di poter fare compere da solo, lo aveva fatto controvoglia da adolescente ribelle, lo aveva continuato a fare da giovane adulto e non aveva certo intenzione di cessare ora.

La zona dedicata ai prodotti alimentari e agli ortaggi si trovava in fondo al viale. Una piacevole passeggiata anche se a una certa ora il viale si affollata al punto da non riuscire quasi più a passare. 
Adriano decise che avrebbe preso della frutta. A casa aveva la dispensa piena e non c’era bisogno d’altro.

Non conosceva personalmente i commercianti, si serviva semplicemente dove c’era meno coda.  
Stava osservando un espositore di ananas quando si sentì trattenere per un braccio. 
Si girò e vide che una vecchina senza la dentiera gli stava sorridendo. 
Adriano si sentì inerme sotto quello sguardo. La pelle screpolata dal sole e da una vita poco facile era piena di rughe e gli occhi scuri e profondi.
Gli porse un sacchetto di carta bianca, dicendo:
-Prendi queste tre mele, caro. Sono buone.
-Non mi piacciono molto le mele… stava per protestare Adriano, ma la vecchia insistette stringendo più forte il braccio dell’uomo. 
-Sono mele gialle. E sono speciali. Un solo morso tu farà assaporare gusti antichi e ti farà annusare odori dimenticati. 
Quanto stringe questa vecchia, E che sguardo strano, pensò Adriano che pur di essere lasciato afferrò il sacchetto delle mele.
-Mi ringrazierai. Ti piaceranno le mie mele.
Il sorriso senza denti si fece più aperto, quasi osceno. 
Adriano fu contento di avere finalmente il braccio libero. Ringraziò la vecchia senza guardarla e cercò di allontanarsi veloce.
Quando realizzò di non avere pagato le tre mele tornò immediatamente sui suoi passi.

Adriano raggiunse il banco di frutta con un senso di colpa e cercò con lo sguardo la vecchia ma non la vide.
Una commessa molto giovane e molto carina gli chiese cosa desiderasse e alla sua domanda gli rispose:
-No, qui c’è  solo mia madre che ha 42 anni e se la chiama vecchietta le tira un carciofo dietro.
-Allora vorrei pagare queste tre mele gialle.
-Ma oggi non sono arrivate le mele, e poi non abbiamo sacchetti di carta bianca… è sicuro di averle comprate qui?
La ragazzina aveva aggrottato le sue sopracciglia e Adriano si scusò per l’equivoco e se ne tornò  a casa.

Una volta a casa, Adriano posò la busta sul piano della cucina e cercò di non pensare a quella strana, inquietante donna anziana preparandosi il pranzo.
Filetto di branzino in umido con pomodorini. Grissini e un bicchiere di vino rosso. Adriano era sempre stato attento al proprio peso.
Si concedeva due caffè al giorno, a colazione e dopo pranzo.
In genere lasciava la frutta per lo spuntino del pomeriggio. 
Già la frutta.

Era tornato a casa con delle mele. Tre mele gialle che a lui nemmeno piacevano. 
Terminato il pranzo pensò di mangiare una mela prima del caffè. 
Aprì il sacchetto per riporre le mele nel cestino e, sorpresa sorpresa, le mele erano quattro. 
Adriano si sentì confuso, come se avesse perso il controllo su qualcosa. 
Lavò una mela, volendo mangiare anche la buccia, la tagliò in quattro, la pulì dal torsolo e assestò un morso. 
Avvertì una vertigine, ebbe davanti un’immagine confusa, un ricordo sfocato, di una giovane donna che gli porgeva un cucchiaino con la mela grattugiata e dal passato l’amorevole giovane voce di sua mamma risuonò per un momento nella stanza.
Poi la vertigine cessò e l’immagine sparì come era apparsa. 
Adriano si sentì invadere da un sentimento di tenera nostalgia. 

Durò pochi istanti ma all'uomo bastò. 
Divorò i restanti quarti di mela alla ricerca di nuove meravigliose emozioni come chi le cerca tramite l’abuso di sostanze illegali ma senza ulteriori effetti.
Il primo morso era stato quello magico.
Adriano, che si vantava di essere una persona razionale, cercò in tutti i modi di non credere a questioni paranormali e si disse che era stata suggestione. Ma quanto era stato piacevole quel ricordo che credeva perduto. 

La sua razionalità resistette fino all'ora di cena. 
Formaggio stagionato, insalata verde e olive.
Meglio non esagerare, pensò Adriano.
Ma al termine una fetta di mela poteva andare. Almeno quanto una sigaretta quando si è in astinenza da nicotina…
Adriano morse la mela con voluttà. 
Il suo succo dolce e il suo gusto acido inondarono la lingua e il palato di Adriano e allo stesso tempo la sua mente fu trasportata ad un mattino soleggiato, tra i banchi della seconda elementare. Come si chiamava la bambina? Susanna, gli sembrava. Aveva la pelle bianca come il latte e profumata di sapone. Un mattino lei gli porse un pezzo della sua mela e gli sorrise. 
Il bimbo che era stato provò una fitta  dolorosa nel centro del petto ma un dolore piacevole e bellissimo e non voleva che finisse mai. Voleva che durasse fino a farlo morire d’amore. Non riusciva a capire cosa fosse quel meraviglioso dolore ma sentiva che se fosse sparito non avrebbe provato mai più la stessa sensazione. 
E così era stato fino a quella sera.
Adriano si tuffò spostato sulla poltrona. 
Si sentiva euforico e svuotato di tutte le forze allo stesso tempo.
Aveva dimenticato di quando si era innamorato la prima volta.  Era molto piccolo ed era passato un secolo.
Provò a leggere il giornale senza molto successo. Continuava a ripensare le parole della vecchia.
Un morso ti farà assaporare gusti antichi. 
Ti farà annusare odori dimenticati. 

Adriano andò a letto e provò a dormire. Di nuovo senza successo. 

La domenica iniziò per un assonnato, confuso e dolorante Adriano. 
Era come se avesse lottato nottetempo con tutti i fantasmi del suo passato e ne fosse uscito pesto e malconcio. 
Girò tutta la mattina senza combinare niente di buono, lui stesso ectoplasma inconsistente del presente.
All'ora di pranzo non pensò minimamente a cucinare.
Aveva in testa solo una cosa. Assaggiare un boccone dalla terza mela.
Adriano non aveva mai fumato in vita sua, non beveva, non era mai caduto nella trappola delle dipendenze ma quella mattina si sarebbe spaventato solo a guardarsi allo specchio.

Solo ventiquattro ore prima era un distinto e gentile uomo, ordinato e metodico, ora sembrava un tossicodipendente e non solo per le occhiaie e la barba lunga.

Si diresse veloce al ripiano della dispensa, afferrò la terza mela, andò a sedere sulla vecchia poltrona e così, senza sbucciarla né lavarla, staccò un morso.

La vertigine arrivò puntuale, prima ancora di sentire il gusto del frutto.
Se non si fosse seduto sarebbe finito lungo disteso sul pavimento. La sua stanza divenne opaca e al suo posto ci fu un cielo azzurro e un caldo sole. Al bordo di una piscina una giovane donna, con un caschetto di capelli neri, gli stava porgendo un bicchiere di profumato succo di mela. Lei rideva leggera, la sua voce cristallina gli risuonò nella testa facendo vibrare forte la sua anima e provocando una fitta dolorosa che lo scosse con violenza. Mentre ancora l’eco della risata non si era spento, il ricordo della scomparsa prematura della giovane moglie lo fece piombare in un incubo da cui nemmeno le lacrime potevano salvarlo.
La stanza era tornata ma ora tutto era tremulo per colpa del pianto.

Adriano non aveva dimenticato quel ricordo, semplicemente non permetteva a se stesso di tornare al passato, di guardare in dietro, per non soffrire, per riuscire a vivere. Così facendo aveva smesso anche di ripensare al giovane volto della moglie e ci volle tempo perché si riprendesse da quell'esperienza.

Pensò di fare due passi ma alzatosi dalla poltrona si diresse in cucina.
Trovò il cestino con l’ultima mela. Non capì, qualcosa gli sfuggiva, la vecchia megera gli aveva dato il sacchetto dicendo di accettare tre mele, ne era sicuro.
Tre mele.
Perché ce ne fossero quattro, non lo capiva. 
Poi rise e la sua risata fu quella di chi ha perso la ragione.
Mi preoccupo di un problema matematico mentre tutto il resto? Pensò. Tutto il resto è normale, invece? E la sua risata folle gli spillò altre lacrime.

Mise il cappotto e senza pensare a lavarsi la faccia o a pettinarsi si diresse alla porta. Prima di uscire però, tornò in cucina e mise la quarta mela in tasca.

La domenica all'ora di pranzo i viali erano deserti.
Adriano trovò una panchina e si sedette al sole. Per un momento sperò che passasse qualcuno, un conoscente che potesse aiutarlo. Ma la città sembrava deserta.

La mano andò alla tasca, lui lo aveva sempre saputo, e prima che potesse ripensarci addentò l’ultima mela.

Adriano aspettò qualche istante prima di masticare. La vertigine non si presentava. Avvertì un senso di perdita, poi una specie di panico che lo spinse ad attaccarsi forte alla vita e a respirare. Questa manovra gli fece andare il pezzo di mela in basso, verso le vie aeree.
Sentì un fortissimo odore dolce, come un vento arrivato dal futuro, lui gli corse incontro felice di avere anticipato l’evento e mentre tutto diventava buio il panico sfumò e lasciò spazio a una serenità profumata di mele.