La strada percorsa è la stessa
da dieci giorni a questa parte, due fosche corsie per senso di marcia.
Ombrosi viali soffocati
dai rami di invadenti querce. Un guazzabuglio di traffico fumoso e un groviglio
di auto strombazzanti e moleste.
Una città cupa e opprimente.
Una città cupa e opprimente.
Dino guida piano, tanto
non ha fretta. Parte presto la mattina e ha tutto il tempo per arrivare.
Le vie buie si dipanano
davanti al muso affilato della sua auto che taglia lo smog in due parti uguali.
Dino accende i fari insufficienti a contrastare l’oscurità che lo circonda. L’aria
non è mai stata così grigia.
Il parcheggio
dell’ospedale è pieno, come sempre, ma lui cerca con calma. Segue un
tipo che ha le chiavi in mano e s’infila al suo posto quando questo se ne va.
Spegne il motore e
rimane cinque lunghi minuti a fissare il cielo plumbeo.
D’improvviso esce dalla
trance e scende dall’auto.
Conosce il percorso a
memoria, ormai non legge nemmeno più i cartelli e le indicazioni. Entra dal
piano sotterraneo, un antro tetro, odore di muffa e cartoni bagnati ma almeno scansa
di incontrare una fastidiosa folla che sciama in attesa di fare visite, subire esami, pagare
ticket, chiedere informazioni. Esseri brulicanti e pruriginosi come formiche.
Dino evita l’ascensore,
claustrofobico strumento di tortura per chi non si sente pronto a contatti sociali. Imbocca
una scura scala male illuminata da un freddo neon che funziona a intermittenza.
Sale i quattro piani, percorre un polveroso corridoio e si dirige verso la
solita panca in una sala d’attesa.
Si siede e aspetta con
le mani in mano. Dall’angolo del soffitto pende una nera ragnatela, Dino la
studia con attenzione.
Dalla finestra si
spande una luce lattiginosa.
Dopo dieci minuti il
ronzio elettrico dell’apriporta lo fa sobbalzare sulla panca. Dino alza lo
sguardo d’istinto, l’ingresso col vetro opaco della Rianimazione si apre e ne
esce un’infermiera dalla divisa stropicciata.
Dino la riconosce, l’ha
già vista tante volte nei giorni passati in ospedale, ci ha parlato alcune
volte.
Gli è sembrata una
donna sciatta, anonima, stanca delle tragedie e appesantita dai turni.
Oggi però gli appare
diversa, Dino non capisce perché ma percepisce qualcosa di nuovo, gli sembra
ringiovanita, luminosa, forse attraente.
L'infermiera lo vede e va a
sedersi sulla panca.
Lei poggia una mano su
quelle dell’uomo, un gesto d’intimità che fino al giorno prima lui non avrebbe
tollerato.
Lo fissa e parla:
“Il dottore non
vorrebbe ma ci tenevo a informarti che tua figlia si è svegliata. Le condizioni
stanno migliorando. Capisci cosa ti sto dicendo?”
Lui non risponde, certo
che ha capito, ma è attratto da un particolare. La divisa dell’infermiera è
bianca e ha delle bande di stoffa rossa cucite sulle tasche, strano, non ci aveva
fatto caso.
Lei insiste: “Tra venti
minuti apriremo l’accesso, potrai finalmente vederla!” Lo dice con una lacrima
che le scorre sulla guancia ma Dino non se ne accorge, lui è ancora con lo
sguardo fisso sulle tasche della divisa di lei.
Poi l’infermiera si
soffia il naso, si alza e torna alle sue incombenze.
Dino rimane solo.
Si alza anche lui e si
dirige verso la finestra.
Non aveva mai guardato
fuori prima d’ora.
Il riverbero della luce
sulla superficie del fiume lo abbaglia, i raggi del sole fanno scintillare le
foglie di un verde carico. L’azzurro del cielo è così intenso che gli ferisce
gli occhi.
Forse è per questo che gli si riempiono di lacrime.
Forse è per questo che gli si riempiono di lacrime.
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