“Sullo scaffale più alto, dietro ai libri”
Ma che diavolo vuol
dire? “Sullo scaffale più alto, dietro ai libri”
Francesco ci si stava
rompendo la testa. Si era svegliato con quella frase che non lo lasciava. Forse
era il rimasuglio sfilacciato di un sogno, forse. Ma forse no.
A casa sua non c’erano
scaffali e i suoi pochi libri e i preziosi fumetti, se li teneva tutti in una
scatola di cartone tra il comodino e la parete, per averli vicino quando
dormiva. Decise che non aveva importanza, doveva solo aspettare e si preparò
per andare a scuola.
A scuola il solito
trambusto, Tizio lancia i gessi a Caio, Sempronio tira la treccia a Squinzia,
non potendo sollevarle la gonna, Marzio il bidello grida isterico di entrare in
classe, il professor Publio che arriva sbadigliando incurante di chiunque.
Francesco siede al suo
posto e dà una gomitata al suo amico/vicino di banco e subito è ricambiato. La
botta sulle costole gli fa sputare la gomma sulla schiena di Lucrezia che sta
seduta davanti ma lei non si accorge.
Nessuno è intenzionato
a cominciare la lezione, tantomeno il professore ma a un certo punto, forse per
decenza tutti si mettono in attesa. Il brusio è forte, assume un ritmo e nella
testa di Francesco assume la forma di un suono che presto diventa una frase: scieph… ap… are, sciepa… ap… are! Scendi a dare…
scendi a mangiare… scendi a mangiare … scendi a mangiare! Ecco cosa diventa, un imperativo. Scendi a
mangiare!
Poi il prof batte le
mani e lo schiocco riporta tutti alla realtà.
L’ora di storia per
cominciare è quanto di peggio, pensa Francesco. La seconda gli sembra più
leggera, ma solo perché la professoressa d’inglese ha promesso di portare in
classe tv e lettore dvd per fare loro vedere un film in lingua.
“Dove trovo il DVD,
prof?” Chiede Tullio, il secchione della classe.
“Sullo scaffale più alto, dietro ai libri!” risponde la prof e a
Francesco sembra di avere ricevuto una sberla in pieno viso. Eccola… questa è
la frase del mio sogno!
Il film in inglese è di
una noia mortale e invece di ascoltare le frasi in lingua madre, Francesco non
riesce a togliere dalla testa quella litania: Scendi a mangiare!” come una canzone
che si ascolta alla radio appena svegli e ricircola nella testa tutto il
giorno.
A un certo punto
Sempronio interrompe la trance di Francesco, chiedendo a pieni polmoni alla
professoressa: ”Come si traduce grab my
arm, madam, prof?”
La professoressa gli
risponde senza nemmeno mettere in pausa. ”Afferri il mio braccio, signora!”
Afferri il mio braccio,
signora.
Afferri
il mio braccio, signora.
La giornata continua, indifferente.
Francesco termina la
mattina in classe come si termina un minestrone poco appetibile, un boccone
amaro dietro l’altro ma alla fine vuota il suo piatto e può tornare a casa un
po’ nauseato.
In viale Augusto vede
una piccola folla davanti alla fermata del tredici. Sulle strisce pedonali un
sacchetto ha seminato una scia di mandaranci. Poco più in là una donna col
cappotto verde se ne sta seduta sull’asfalto umido. Un soccorritore, sceso dall’ambulanza
parcheggiata in fondo al viale, si china sulla donna e dal momento che questa sembra
stare bene, la invita ad alzarsi, dicendole: ”Afferri il mio braccio, signora.”
Francesco sente una
piccola vertigine che però passa subito, e si avvia verso casa quasi correndo.
Apre con le chiavi,
urla un saluto a sua madre in cucina e corre sulle scale verso il piccolo bagno
attiguo alla sua cameretta. L’ha trattenuta anche troppo…
Mentre si lava le mani
sente la voce della madre che grida: Scendi
a mangiare!
Francesco è
frastornato. Non è il primo giorno, va avanti così da settimane. Non vuole
parlarne ma a casa conoscono il suo problema. Perché è così che lui lo vede.
Come un problema.
Soprattutto dopo la
telefonata di tre sere fa di sua madre alla sorella.
”Abbiamo prenotato la
risonanza come ci ha indicato il neuropsichiatra, ma… sono così preoccupata,
potrebbe essere qualcosa di grave… potrebbe essere…”
Sua madre singhiozzava
e Francesco aveva ritenuto che non fosse il caso di origliare oltre. Anche se
la cosa lo riguardava. Anche se lo specialista che l’aveva visitato lo aveva
trattato come uno grande. Come un adulto.
Pensava che aveva
voglia solo di prendere un sonnifero e di dormire per un mese. Non aveva più pazienza
di ascoltare quelle frasi stupide e banali e chiedersi quanto tempo ci avrebbero
messo prima di concretarsi ed essere pronunciate da chissà chi.
Minuti, ore.
Quell’attesa lo
sfiancava.
Il giorno dopo non
sarebbe andato a scuola. Era il giorno dell’appuntamento per l’esame.
Lavò i denti e andò a
dormire prima del solito.
Era sicuro che non ci fosse nulla di magico in ciò che stava vivendo.
Mentre leggeva il suo fumetto,
un altro fumetto gli esplose improvviso e vivido come un fuoco d’artificio davanti
agli occhi.
”Non
tema signora, vede è una lesione benigna e tutto si risolverà dopo l’intervento.”
Quel fumetto, quella
frase, letta con gli occhi della mente, gli rese il sonno ristoratore e gli
diede conforto e pace.
Rimaneva l’attesa.
C’era solo da aspettare
che qualcuno la pronunciasse ad alta voce.
Che qualcuno la proferisse.
Alla fine, qualcuno lo
avrebbe fatto.
E con quel pensiero,
Francesco si addormentò.