domenica 20 ottobre 2024

Ad alta voce

 





Sullo scaffale più alto, dietro ai libri

Ma che diavolo vuol dire? “Sullo scaffale più alto, dietro ai libri”

Francesco ci si stava rompendo la testa. Si era svegliato con quella frase che non lo lasciava. Forse era il rimasuglio sfilacciato di un sogno, forse. Ma forse no.

A casa sua non c’erano scaffali e i suoi pochi libri e i preziosi fumetti, se li teneva tutti in una scatola di cartone tra il comodino e la parete, per averli vicino quando dormiva. Decise che non aveva importanza, doveva solo aspettare e si preparò per andare a scuola.

A scuola il solito trambusto, Tizio lancia i gessi a Caio, Sempronio tira la treccia a Squinzia, non potendo sollevarle la gonna, Marzio il bidello grida isterico di entrare in classe, il professor Publio che arriva sbadigliando incurante di chiunque.

Francesco siede al suo posto e dà una gomitata al suo amico/vicino di banco e subito è ricambiato. La botta sulle costole gli fa sputare la gomma sulla schiena di Lucrezia che sta seduta davanti ma lei non si accorge.

Nessuno è intenzionato a cominciare la lezione, tantomeno il professore ma a un certo punto, forse per decenza tutti si mettono in attesa. Il brusio è forte, assume un ritmo e nella testa di Francesco assume la forma di un suono che presto diventa una frase: scieph… ap… are, sciepa… ap… are! Scendi a dare… scendi a mangiare… scendi a mangiare … scendi a mangiare!  Ecco cosa diventa, un imperativo. Scendi a mangiare!

Poi il prof batte le mani e lo schiocco riporta tutti alla realtà.

L’ora di storia per cominciare è quanto di peggio, pensa Francesco. La seconda gli sembra più leggera, ma solo perché la professoressa d’inglese ha promesso di portare in classe tv e lettore dvd per fare loro vedere un film in lingua.

“Dove trovo il DVD, prof?” Chiede Tullio, il secchione della classe.

Sullo scaffale più alto, dietro ai libri!” risponde la prof e a Francesco sembra di avere ricevuto una sberla in pieno viso. Eccola… questa è la frase del mio sogno!

Il film in inglese è di una noia mortale e invece di ascoltare le frasi in lingua madre, Francesco non riesce a togliere dalla testa quella litania: Scendi a mangiare!” come una canzone che si ascolta alla radio appena svegli e ricircola nella testa tutto il giorno.

A un certo punto Sempronio interrompe la trance di Francesco, chiedendo a pieni polmoni alla professoressa: ”Come si traduce grab my arm, madam, prof?”

La professoressa gli risponde senza nemmeno mettere in pausa. ”Afferri il mio braccio, signora!”

Afferri il mio braccio, signora.

Afferri il mio braccio, signora.

La giornata continua, indifferente.

Francesco termina la mattina in classe come si termina un minestrone poco appetibile, un boccone amaro dietro l’altro ma alla fine vuota il suo piatto e può tornare a casa un po’ nauseato.

In viale Augusto vede una piccola folla davanti alla fermata del tredici. Sulle strisce pedonali un sacchetto ha seminato una scia di mandaranci. Poco più in là una donna col cappotto verde se ne sta seduta sull’asfalto umido. Un soccorritore, sceso dall’ambulanza parcheggiata in fondo al viale, si china sulla donna e dal momento che questa sembra stare bene, la invita ad alzarsi, dicendole: ”Afferri il mio braccio, signora.

Francesco sente una piccola vertigine che però passa subito, e si avvia verso casa quasi correndo.

Apre con le chiavi, urla un saluto a sua madre in cucina e corre sulle scale verso il piccolo bagno attiguo alla sua cameretta. L’ha trattenuta anche troppo…

Mentre si lava le mani sente la voce della madre che grida: Scendi a mangiare!

Francesco è frastornato. Non è il primo giorno, va avanti così da settimane. Non vuole parlarne ma a casa conoscono il suo problema. Perché è così che lui lo vede. Come un problema.

Soprattutto dopo la telefonata di tre sere fa di sua madre alla sorella.

”Abbiamo prenotato la risonanza come ci ha indicato il neuropsichiatra, ma… sono così preoccupata, potrebbe essere qualcosa di grave… potrebbe essere…”

Sua madre singhiozzava e Francesco aveva ritenuto che non fosse il caso di origliare oltre. Anche se la cosa lo riguardava. Anche se lo specialista che l’aveva visitato lo aveva trattato come uno grande. Come un adulto.

Pensava che aveva voglia solo di prendere un sonnifero e di dormire per un mese. Non aveva più pazienza di ascoltare quelle frasi stupide e banali e chiedersi quanto tempo ci avrebbero messo prima di concretarsi ed essere pronunciate da chissà chi.

Minuti, ore.

Quell’attesa lo sfiancava.

Il giorno dopo non sarebbe andato a scuola. Era il giorno dell’appuntamento per l’esame.

Lavò i denti e andò a dormire prima del solito.

Era sicuro che non ci fosse nulla di magico in ciò che stava vivendo.

Mentre leggeva il suo fumetto, un altro fumetto gli esplose improvviso e vivido come un fuoco d’artificio davanti agli occhi.

”Non tema signora, vede è una lesione benigna e tutto si risolverà dopo l’intervento.”

Quel fumetto, quella frase, letta con gli occhi della mente, gli rese il sonno ristoratore e gli diede conforto e pace.

Rimaneva l’attesa.

C’era solo da aspettare che qualcuno la pronunciasse ad alta voce.

Che qualcuno la proferisse.

Alla fine, qualcuno lo avrebbe fatto.

E con quel pensiero, Francesco si addormentò.





sabato 5 ottobre 2024

La strage azzurra

 





Nel vicolo echeggia un ululato ultrasonico.

“Ciiiiiirooooooooo, Ciro miooooooo!!!”

Due cani sollevano il muso dal sacchetto dei rifiuti, alzano le orecchie e scappano spaventati.

L’invocazione è seguita da strepitii e lamenti, nella migliore tradizione della tragedia greca. Il Ciro in questione è un ragazzone di centoventi chili, che resta immobile nel suo letto nonostante le grida dell’anziana genitrice. Ciro usa dormire con una maglietta del Napoli calcio, che gli sta pure stretta. Gli stava, dovremmo dire, perché Ciro è morto.

Dall’altra parte del quartiere, in fondo alla via, per essere precisi, un urlo uguale in tutto e per tutto al primo sale dalle finestre di un basso, uguale tranne che per il nome che in questo caso è Pasquale.

Anche Pasquale non risponde. Anche Pasquale è morto.

Tutto il quartiere è svegliato da un concerto di grida strazianti e straziate. Presto le grida sono sostituite dal suono dei clacson di chi, spinto dalla disperazione, ha caricato i corpi di figli, mariti, zii, genitori, nelle vecchie auto e, incurante del traffico già intasato di prima mattina, delle buche, dell’assicurazione scaduta e soprattutto incurante di quanto sia morto il passeggero sul sedile posteriore, cerca disperatamente di arrivare al primo ospedale per rimediare al malanno.

Quasi tutte le salme trasportate indossano una maglia del Napoli calcio, tutti sono sovrappeso.

Solo al Cardarelli, il più grande nosocomio del mezzogiorno, giungono cadavere ventinove Maradona, undici Bruscolotti, sedici Hamsik, sei Insigne, quattro Juliano, un Ferrara e un Cannavaro. I conti precisi li ha fatti un portantino dall’alito agghiacciante, che ha catalogato tutti i capi di vestiario, con la speranza di guadagnare qualcosa extra.

Una strage.

La strage azzurra”, intitoleranno il giorno seguente i quotidiani nazionali, dimostrando la loro pochezza in fatto di fantasia.

Dopotutto non è colpa loro se la gente ha l’esecrabile abitudine di dormire con la maglietta del proprio idolo calcistico. Soprattutto qui a Napoli.

La strage azzurra fa diventare matto il questore, che non sa che pesci pigliare e se la prende col vicequestore, che sbraita col commissario che maltratta i poliziotti che urlano insulti in faccia agli informatori che schiaffeggiano i piccoli spacciatori che vanno a presidiare il pronto soccorso e quando esce il portantino sono pronti a minacciarlo di morte, anche perché indossa il famoso numero “10” e sospettano che non sia stata acquistata in uno store ufficiale.

La scientifica è al lavoro e l’anatomopatologo, che deve asciugare le lacrime ogni venti secondi, non perché sia sensibile, è pure Juventino, ma per una forma d’allergia, è oberato e sa che farà le ore piccole, anzi, che lavorerà tutta la notte.

Il questore ce l’ha a morte con me, per ragioni di tifo calcistico, e trova sempre il modo di farmela pagare, si lamenta il medico legale con il suo aiutante ma non riceve conforto e considerazione da quest’ultimo, poiché anche lui dorme con una maglia della nazionale Belga, quella di Mertens!

Per qualche giorno la città è nel caos assoluto.

Negozi chiusi, traffico paralizzato. Gli incidenti raddoppiano e scoppiano tumulti. Il sindaco proclama il lutto cittadino ma i funerali non si possono fare. Tutto rimandato finché qualcuno non ci capisce qualcosa.

Dopo tre giorni anche i capi Ultras della tifoseria, si muovono. Con la consueta grazia del classico elefante nella celebre cristalleria.

Muovono alla testa di decine di migliaia di bravi ragazzi, ed esigono una spiegazione. Perché sono morti tutti quei valenti tifosi, perché non sono morti i rappresentanti delle altre squadre di calcio?

Queste ultime, piccate dalle dichiarazioni ostili e insinuanti, rilanciano accuse e minacciano vie legali, il clima in tutto il paese è avvelenato.

A questo punto l’anatomopatologo ha un’illuminazione. Clima avvelenato uguale tifoso avvelenato.

E ci azzecca!

Viene trovata, grazie all’invio di campioni si sangue e tessuti a un costosissimo laboratorio di Dallas, U.S.A. una sostanza chimica liposolubile, neutra se ingerita ma potenzialmente letale se prima è sciolta in acqua bollente.

Trovata la causa di morte, quello che non capisce il questore è perché solo i tifosi del Napoli.

L’agente scelto Esposito sapendo di essere l’ultima ruota del carro, ne parla con sua moglie fidandosi poco dei colleghi. “Intanto, in città è difficile trovare anche solo uno che dorma con la maglia dell’Inter, sai che scandalo in caso di emergenza notturna? Poi mi chiedo una cosa? Sto veleno, che per essere velenoso, deve essere bollito, come fai a farlo prendere a qualcuno senza che se ne accorga?”

La signora Esposito, che fino a quel momento non era molto interessata, s’illumina.

“Io saprei come fare!”

Esposito non sa se essere orgoglioso della moglie o preoccupato, ma la soluzione della donna lo impressiona.

Corre dal Commissario che chiama il Vicequestore che informa immediatamente il Questore.

Esposito si trova, convocato, a balbettare la soluzione della sua signora e ha una maledetta paura di perdere il posto.

“Come nel caffè? Tutti beviamo il caffè, e come ce l’avrebbero messo il veleno nel caffè, secondo lei agente Esposito?”

Esposito sente il coraggio alimentato dall’arroganza di quel superiore così potente e così incapace. Sente di averlo in mano e smette di balbettare.

“La sostanza, sappiamo che è innocua se ingerita, giusto? Ma se la facciamo bollire, diventa pericolosa, giusto? Allora mia moglie ha detto che lei la metterebbe nell’acqua per fare il caffè, sul fuoco il veleno si attiva e quando ci beviamo la nostra tazzina, anzi tante tazzine, il veleno agisce dentro il nostro corpo!”

Il questore riflette in silenzio. Poi obietta.

“E perché non siamo morti tutti quanti?”

“Basta chiedere quante tazze erano soliti consumare quelli che sono morti, io per esempio ne bevo tre al giorno ma ci sta chi ne beve pure venti!”

“E il veleno? Dove stava?”

“Nell’acquedotto, sempre secondo mia moglie” risponde timido Esposito.

Il questore sembra convinto, ordina al commissario di procedere e prima di sbattere fuori dal suo ufficio tutti quanti, da un’ultima indicazione all’agente:

“La proporrò per una promozione e, stia attento a non litigare mai con sua moglie.”

Le indagini dureranno qualche settimana ma nessuno riuscirà a capire chi ha potuto versare la sostanza nelle riserve idriche.

Nessun indizio, nessun movente, nessun colpevole per la strage azzurra.

Alla fine anche i giornali spostano su altro l’attenzione.

Esposito è promosso a vice Sovrintendente.

Il portantino fa un sacco di soldi, vendendo all’asta le storiche magliette.

Gli ultras, ricominciato il campionato, hanno altro cui pensare.

Negli uffici periferici dell’azienda gestore delle acque potabili, Alberico Rota, un piccolo impiegato con la faccia da topolino, gli occhiali tondi e una lieve zoppia, apre con la chiave l’ultimo cassetto della scrivania e controlla che nessuno abbia rovistato tra le sue cose.

Tutto a posto.

Le fiale vuote di plastica stanno li, dove le ha nascoste, sotto la maglietta stirata e piegata dell’Atalanta calcio.

Richiude a chiave il cassetto e sorridendo cattivo se ne va in bagno.