Quando entro nello scompartimento l’uomo è
già lì, seduto accanto al finestrino, nella direzione di marcia del treno.
Per una donna che viaggia sola è
fondamentale guardarsi attorno.
Il posto n.11 è quello di fronte. Passo,
lui educatamente ritira i piedi sotto il sedile. Deposito a fatica il trolley
sulla cappelliera. Sento i suoi occhi sulle gambe, perché oggi ho messo la
gonna corta. Ma forse è solo una mia sensazione, quando mi metto a sedere lui è
immerso nel suo tascabile.
Appena sono seduta lui mi rivolge un
piccolo cenno appena percettibile, che non è un vero saluto ma qualcosa di più
discreto, un segnale di coscienza della presenza dell’altro. Mi va bene, non
sono in vena di chiacchiere.
Tanto per essere chiara, tiro fuori dalla
borsetta il mio libro e fingo di iniziare a leggere.
Due minuti più tardi il treno si mette in
marcia.
Il tizio seduto di fronte legge davvero
per almeno venti minuti. Mi sembra strano che non abbia cercato di attaccare
bottone come fanno di solito tutti quando vedono una donna. Dopotutto sono una
quarantenne niente male, mi tengo in forma e viaggio da sola.
Ma lui niente, continua a fissare il suo
libricino, a sfogliare la pagina a intervalli regolari e nient’altro!
Io, al contrario, di leggere non ne ho
voglia, quindi tengo il libro bene aperto sotto il naso e osservo.
L’uomo ha un'età che non riesco a stimare,
il viso magro e regolare, i folti capelli mossi, gli occhi nocciola scuro
sembrano quelli di un trentenne ma le rughe attorno agli occhi, i capelli
argentati sulle tempie, la barba sul mento sporcata di bianco dichiarano più i
quarantacinque, forse cinquanta.
Si è stancato di leggere, ha posato il
libro sulla gamba e lo regge con la mano sinistra tenendo l’indice tra le
pagine per tenere il segno.
Le mani sono piccole e magre, quasi
ossute, un po’ femminili. Le unghie cortissime e curate come dovrebbero essere
quelle di un pianista o un chirurgo.
Alla sinistra porta una fede di oro
bianco. Vuol dire tutto e niente.
Indossa una camicia blu e una giacca di
panno grigia con le toppe ai gomiti come quella di un professore. Ha jeans
attillati e un paio di scarpe scamosciate grigio scuro. Nel complesso non è
male, non capisco se sono abiti ricercati volutamente casual o capi economici
indossati con dignità. Al polso porta un pesante orologio d’acciaio.
Dal taschino spuntano occhiali dalla
montatura moderna.
Uno che ha buon gusto, questo è certo.
Cambia posizione sul sedile, lo faccio anch’io
e gli urto un piede. Mi scuso e lui invece di parlare accenna a un sorriso.
Uno di poche parole, ma certo un tipo
interessante.
Il libro è sempre mantenuto dalla mano
sinistra sulla gamba, riesco a leggere il titolo, anche al contrario “La lunga
marcia”.
Non leggo l’autore ma visto che si tratta
di un tascabile Urania, sarà una storia di fantascienza.
Eccolo, finalmente l’ho beccato! Stava
fissando dritto davanti a sé, sulla mia scollatura. Con la mano controllo,
tutto a posto, i bottoni hanno tenuto, ora guarda più in alto, verso i miei
capelli. Forse anche lui sta valutando chi ha davanti. Immediatamente sposta lo
sguardo al finestrino, dove la luce dorata del crepuscolo illumina i campi che
fuggono a ritroso a centottanta chilometri l’ora.
Anche i suoi occhi sono illuminati.
Poi torna a guardare nello scompartimento
e per un momento i nostri sguardi s’incrociano. Per un secondo siamo agganciati
ma nessuno dei due scappa. Poi dolcemente lui torna a guardare fuori dal
finestrino.
Un po’ ci rimango male, poi vedo che la
linea delle sue labbra si piega verso l’alto e quel blando sorriso mi comunica
che lui sa che io so che lui sa.
Involontariamente mi scappa un sorriso e
un po’ per vergogna rituffo il naso nel mio tomo.
Passo così un quarto d'ora, senza avere il
coraggio di guardarmi attorno.
Poi azzardo un movimento veloce e scopro
che il mio enigmatico dirimpettaio ha chiuso gli occhi. Non riesco a staccare
lo sguardo, a distogliere l’attenzione da quest’uomo che non ha detto una
parola ma che mi sta dicendo tanto.
Ogni tanto apre gli occhi e mi guarda, non
faccio nemmeno finta di osservare altro. Stranamente non provo più imbarazzo,
trovando dolce questo strano gioco, questa strana molestia.
Ora dorme, forse finge, forse sta solo
riposando dopo una giornata lunga e pesante.
Provo un inspiegabile tenerezza, vorrei
avere avuto l’occasione di presentarmi, di scambiare due chiacchiere ma mi
rendo conto di avere impedito tutto ciò col mio atteggiamento.
L’altoparlante annuncia la prossimità
della stazione di Porta Susa, siamo già a Torino, non mi ero accorta di viaggiare
tra le abitazioni.
L’uomo ora guarda le case, i viali, le
auto del traffico correrci intorno.
Devo prepararmi, ripongo il mio inutile
romanzo nella borsa, mi sistemo la gonna e mi metto in piedi. Lui d’improvviso
si alza, non è molto più alto di me, in piedi sembra più esile, alza le braccia
e con un movimento elegante tira giù il trolley. Ha un buon odore, come di
pane.
Poi torna a sedere dicendo: faccia buon
rientro, signorina.
Ha una voce bella, calda e sicura.
Scende alla prossima, tra cinque minuti
alla stazione centrale.
Peccato.
Ora sono nel corridoio in coda con i
passeggeri che scendono come me.
Lo vedo prendere un segnalibro, metterlo
tra le pagine del suo tascabile e riporre lo stesso in uno zainetto sottile.
Per un’ora le nostre esistenze hanno
viaggiato parallele come i binari su cui corre questo treno ma ora si separano
e tornano lontane, come sono sempre state.
Sono stata bene, mio sconosciuto compagno
di viaggio e la tua presenza silenziosa, il tuo sguardo sognante, le tue
molestie mute sono state tutto quello di cui avevo bisogno.
Nessun commento:
Posta un commento